Nel mondo della musica ci sono gli artisti, le star e le superstar. La maggior parte appartiene alla prima categoria. Alcuni alla seconda. Ma ci vuole una persona speciale per entrare nell’ultima categoria, e uno su mille ce la fa. David Bowie. Prince. Patti Smith. Kurt Cobain. Madonna. Beyonce. Alcune altre. E poi c’è Grace Jones, una stella che appartiene a una galassia tutta sua, che, a 70 anni suonati, si trova ancora in tour, pronta a far roteare un hula-hoop, completamente ricoperta di vernice colorata e cantando i suoi più grandi successi.
Anche se Grace Jones è considerata un’icona (e iconica lo è di certo, con la sua estetica androgina e la sua musicalità oltre ogni limite nel corso di 50 anni di carriera) la sua discografica non è conosciuta quanto quella di altri artisti del suo calibro. Il suo nome fa pensare immediatamente alle radicali collaborazioni con Jean-Paul Goude, Andy Warhol o Keith Haring, in cui ha usato il proprio corpo come vernice per audaci dipinti astratti. Oppure si potrebbe ricordare i suoi maggiori successi di metà anni Ottanta come “Slave to the Rhythm” o “Pull Up to the Bumper”. Ma, a meno che non siate fan, la Jones è riconosciuta più per l’ampiezza della sua influenza culturale che per le varie sfumature che si trovano nei suoi dieci album in studio e 53 singoli tra il 1976 e il 2008. Ed è un peccato, perché c’è un sacco di roba lì dentro, un sacco di roba di cui innamorarsi.
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Nata e cresciuta in una terrificante famiglia religiosa militante a Spanish Town, in Giamaica, l’infanzia della giovane Jones è stata tutta disciplina e paletti. Ciò che poteva e non poteva fare. Ciò che doveva reprimere. Come avrebbe dovuto passare la vita. Adolescente, è scappata prima a Parigi, dove è diventata una top model per Kenzo e Yves Saint Laurent, poi a New York dove ha trovato la strada della recitazione della musica. Ma per capire bene l’opera di Grace Jones, dobbiamo prima stabilire esattamente da dove è venuta. Perché la cosa che le è sempre venuta meglio è infrangere le regole come se non si accorgesse nemmeno che ci sono. Il che è strano, se si considera la sua educazione, oppure forse ha perfettamente senso.
“Nascondersi, avere segreti e non essere in grado di essere se stessa è una delle cose peggiori che possano accadere a una persona”, mi ha detto quando l’ho intervistata nel 2015. “Ti abbassa l’autostima. Non riesci più a raggiungere quel picco nella tua vita. Dovresti sempre riuscire a restare te stessa e a essere orgogliosa di te stessa”. Gran parte del lavoro della Jones gira attorno a questo principio: fare quel che si vuole e farlo il meglio possibile. Le sue opere sono strane, vibranti e progressiste. Nel corso degli anni ha intrecciato disco, new wave, post punk, art-pop, industrial, reggae e gospel in un suono compatto che è solamente suo, legato da una voce esuberante e potente. Il suo stile di performance è come i suoi visual: fisico, pieno di movimento, di colore, di vita.
Praticamente, non c’è nessun altro come lei. Se non la conosci abbastanza, ecco tutto quello che ti conviene sapere:
Forse ti interessa: la Grace Jones delle discoteche gay anni Settanta
Provate a immaginare. Siete in un piccolo villaggio nell’estrema periferia di Spanish Town, e ogni sera siete costrette a prendere parte in incontri di preghiera e letture della bibbia. Improvvisamente, arrivano i tardi anni Settanta e vi trovate al centro di Manhattan, New York, mentre venite incoronata come “Regina delle Disco Gay” dalla popolazione locale. Le fotografie di Grace Jones risalenti a questo periodo la ritraggono in nightclub leggendari come La Sept, Studio 54 e Area a sorseggiare cocktail in abiti di seta, in posa sulle moto per il Playboy italiano il giorno del suo compleanno accanto a gente come la leggendaria drag queen Divine.
Parlo di tutto questo perché la prima produzione musicale della Jones, risalente ai tardi Settanta, consiste di tre album disco che fotografano nitidamente l’atmosfera da club queer di grande città che lei viveva a quei tempi. Portfolio (1977), Fame (1978) e Muse (1979) sono stati pubblicati da Island Records in tre anni, e si raccomanda di consumarli tutti e tre insieme. Composti a fianco del produttore disco Tom Moulton, che aveva già lavorato con Gloria Gaynor e The Trammps, questi album erano concepiti per essere ascoltati immersi nelle rifrazioni di una disco ball luccicante, filtrati dalla nebbia dei quaalude mandati giù con l’aiuto di un drink dolce e molto alcolico e per un pubblico di giovani queer, star della moda e outsider culturali.
Nonostante vengano da un mondo molto selvaggio, però, questi primi album sono tra i lavori più addomesticati della Jones. La sua voce è più leggera e femminile rispetto ad alcune tracce successive, e la musica stessa è fatta con ritmi classicamente four-to-the-floor e forme orchestrali tipiche della disco. Eppure, c’è qualcosa di magico anche in questi pezzi, perché hanno il potere di riportarci in quell’epoca dorata. Ascoltate “I Need a Man”, per esempio, e chiudete gli occhi per immaginare Jones che la canta in una cantina affollata, con il pubblico vestito di tutto punto, il sudore che cola sui muri, parlando di se stessa in una stanza piena fino a scoppiare di uomini gay che cantano assieme a lei.
Playlist: “Fame” / “Do or Die” / “Autumn Leaves” / “La Vie en rose” / “I Need a Man” / “Send in the Clowns” / “Sorry” / “What I Did For Love” / “Sinning”
Forse ti interessa: la Grace Jones new wave reggae
Ora sì che si ragiona. È difficile decidere da dove iniziare quest’epoca molto speciale nella carriera di Grace Jones, quindi partiamo dal 1980, quando la disco è improvvisamente andata fuori moda (tra parentesi, questo è successo in buona parte anche a causa degli attacchi di orde di uomini americani eterosessuali e bianchi). Spinta dal bisogno di cambiare un po’ le cose, oltre che dal positivo ma relativamente modesto successo dei suoi primi tre album, la Jones si è recata ai Compass Point Studios, di proprietà della Island, alle Bahamas, e lì ha dato vita a una delle sue trasformazioni più radicali.
Qui, a fianco dei produttori Alex Sadkin e Chris Blackwell (allora anche presidente della Island), ha forgiato un suono e uno stile che avrebbero influenzato gran parte delle vostre pop star preferite. La “nuova” Grace Jones era per una parte post punk, due parti new wave, il tutto inondato di sapori reggae-pop, frullato tutto insieme con naturalezza. Da questa esplosione creativa sono nati Warm Leatherette (1980), Nightclubbing (1981) e Living My Life (1982), un altro trio di album che si godono al massimo uno dopo l’altro, considerando che ognuno contiene alcune delle sue canzoni più conosciute e qualitativamente migliori.
È stato attorno a quel momento che la Jones ha iniziato a collaborare con il suo amante di allora, l’artista Jean Paul Goude. La copertina di Nightclubbing, per esempio (disco in cui troviamo la sensuale e arrogante jam post punk “Pull Up to the Bumper”), è un dipinto firmato da Goude che ritrae Jones in una giacca Armani dalle spalle squadrate, con una sigaretta che le penzola dalle labbra, i capelli nella forma a spazzola androgina che è diventata il suo marchio di fabbrica. Per apprezzare al meglio la qualità del lavoro di questi due artisti, vale la pena guardare The One Man Show, un video musicale di 45 minuti diretto da Goude in cui Jones si vede da ogni angolo. È ricoperta di colori primari, mentre la visione netta e angolare di Goude converge con la musicalità di Jones creando un’opera d’arte senza tempo.
Per quanto riguarda la sua musica, questa manciata di anni è forse meglio rappresentata dal pioniere del synth Wally Badarou nel suo libro uscito nel 2010 The Story of Island Records: “Penso che nulla potrebbe mai raccontarla, come nulla potrebbe mai raccontare la Motown o la Stax”, ha detto, parlando dell’epoca d’oro dei Compass Point. “Lo studio stesso, gli ingegneri, i produttori, gli artisti, l’atmosfera del tempo: soltanto la precisa combinazione di questi elementi può creare una cosa del genere”.
Playlist: “Warm Leatherette” / “Private Life” / “Love is the Drug” / “Pull Up to the Bumper” / “Nightclubbing” / “Demolition Man” / “My Jamaican Guy” / “Nipple to the Bottle” / The Apple Stretching”
Forse ti interessa: la Grace Jones icona dell’art-pop?
Ho passato anni a cercare di descrivere la hit del 1985 “Slave to the Rhythm” con le parole, ma non ci sono mai riuscita. Niente è come lei. La canzone inizia con luminosi accordi di piano e un leggero sussurrare di ritmi go-go sullo sfondo, mentre l’attore Ian McShane legge degli estratti dalla biografia di Goude, Jungle Fever. Poi presenta lei con le parole: “Ladies and gentlemen… Miss Grace Jones… slave to the rhythm”, prima che entri la batteria con un colpo fermo, la linea di basso umida che si distende sotto tutto, e la voce profonda e vellutata della Jones che fa l’occhiolino all’ascoltatore: “Sto solo giocando, baby”.
Ci sono così tanti strati lì dentro, che fate prima ad ascoltarvela da soli. C’è il testo (“Continua ad aumentare, non rompere la catena / Faremo scintille, quando il fischietto fischierà”) che sono state interpretate come un commento su razza e capitalismo. C’è il video, fatto con materiale di visual precedenti tagliato e incollato come un assurdo collage mobile. C’è la musica stessa, una mescolanza perfetta e ballabile di R&B, funk e go-go music. Si dice che il produttore Trevor Horn abbia speso 385 mila dollari per l’album Slave to the Rhythm, in cui compare questa canzone, e si vede. Ogni istante di quel disco è compatto, rifinito, stupefacente, come se qualcuno avesse sapientemente scolpito un blocco di marmo rivelando una meravigliosa statua al suo interno.
Questo è considerato dai più il momento più mainstream della Jones. Si era già fatta un nome nei tardi anni Settanta e primi Ottanta, quindi poco più tardi è diventata una strana megastar del pop. Dopo Slave to the Rhythm è arrivata la sua compilation di greatest hits Island Life seguita da Inside Story, co-prodotto da lei stessa e da Nile Rodgers dei Chic. Si tratta di alcune delle sue creazioni più accessibili, ma anche di quelle più concettuali e provocanti. Per me, l’energia di quest’epoca raggiunge il climax con “I’m Not Perfect (But I’m Perfect For You”), una traccia pop ipercarica in cui lei arricchisce ogni ritornello con cori feroci, prendendo per l’ennesima volta i suoni pop e spingendoli in angoli inaspettati e mostruosi.
L’era mainstream pop di Jones è culminata nell’uscita del suo nono album Bulletproof Heart, nel 1989, ma a questo punto era già passata alla recitazione, essendo già comparsa nel film fantasy Conan il Distruttore al fianco di Arnold Schwarznegger, e poi nel film di James Bond 007 – Bersaglio Mobile, tra gli altri. Nessuno lo poteva sapere ai tempi, a parte, forse, la stessa Jones, ma non avrebbe più pubblicato album per i successivi vent’anni.
Playlist: “Slave to the Rhythm” / “The Fashion Show” / “Jones the Rhythm” / “I’m Not Perfect (But I’m Perfect For You” / “Hollywood Liar” / “Victor Should Have Been a Jazz Musician” / “Party Girl” / “Inside Story”
Forse ti interessa: la Grace Jones del ritorno alle radici
Nel 2008, l’ultima cosa che chiunque si sarebbe potuto aspettare era un album di Grace Jones. Giaceva “addormentata” da anni, sempre in viaggio tra Parigi, New York, Londra e la Giamaica, impegnata a prendersi cura del figlio Paulo e della sua famiglia. Ma a un certo punto ha cambiato idea e ha deciso di mettersi a lavorare a un decimo album, Hurricane. E così ha convocato con decisione alcuni dei migliori collaboratori che potesse trovare (Brian Eno, Tricky, Sly and Robbie, uno degli inventori dell’afrobeat Tony Allen, Antony Genn dei Pulp) e ha scritto il suo album più esplicitamente autobiografico e, a mio parere, più sottovalutato.
Non c’è bisogno di aver ascoltato niente del catalogo di Jones per apprezzare Hurricane, è una forza a parte. Intreccia dub, elettronica, industrial, reggae e gospel. Scrive di sua madre, che sposò un predicatore a 17 anni. Canta di suo fratello, di suo figlio, di alcuni dei suoi amanti. La sua voce è più profonda, a tratti anche più mascolina. In “Corporate Cannibal”, un capolavoro industrial che dovrebbe fare da colonna sonora a ogni festa di Halloween per l’atmosfera che crea, la sua voce sembra quella di un robot: “Ti darò un’uniforme, cloroformio / Sterilizza, omogenizza, vaporizzati”. Questa è la Jones più strana e più meravigliosa; lo scintillante risultato di una musa perenne che diventa musa di se stessa.
Senza voler suonare devota, potrei scrivere di Grace Jones per l’eternità. Ci sono così tante cose da dire di un’artista che ha sfondato porte che gli altri non riuscivano nemmeno a vedere. Ma probabilmente è meglio leggere le sue stesse parole. Nell’introduzione alla sua biografia del 2015 I’ll Never Write My Memoirs, dice questo: “Se volete me, questa sono io. Non la caricatura di me. Questa è la me profonda, l’altra me, e ci sono altre me che non sono ancora nemmeno riuscita a concepire. Ma ci arriverò. Continuerò a seguire il sentiero che ho lasciato dietro di me per scoprire dove sto andando. Ho solo una vita con cui lavorare e la spremerò fino all’ultima goccia prima di finirla”.
Playlist: “This Is” / “Williams’ Blood” / “Corporate Cannibal” / “I’m Crying (Mother’s Tears)” / “Well Well Well” / “Hurricane” / “Love You to Life” / “Sunset Sunrise” / Devil in My Life”
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Noisey UK.