Corre l’anno 2001 e sono nella camera di due miei amici, Gareth e Greg. I gemelli come loro hanno il potere di moltiplicare i regali di compleanno, e questo significa che hanno appena ricevuto una PS2 e una copia di Grand Theft Auto III. Io, per contro, ho ancora il Sega Saturn uscito nel 1994 e Daytona USA. Vado a casa dei gemelli perché la loro mamma compra bibite di marca. Vado a casa dei gemelli per sbirciare il futuro.
Tecnicamente stiamo facendo una cosa illegale—giocare a un gioco vietato ai minori mentre abbiamo 14 anni—ma siamo nel mezzo di un momento di cultura puerile—South Park! Jackass!—che non bada a certe formalità.
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Sto contemplando il miglior motore grafico mai costruito fino a quel momento, su uno schermo a tubo catodico che Gareth e Greg hanno montato su un muro a un angolo speciale che permette a entrambi di vederlo dal letto a castello. Sono le due del pomeriggio e le tende sono tirate: la penombra fa risaltare i colori di Liberty City.
Quando è il turno di Gareth al controller si fa un giro per l’area di Cochrane Dam, sperando di trovare un furgone speciale di cui ha letto sul retro di un numero di Official PlayStation Magazine. Quando è il turno di Greg, parcheggia in un posto poco appariscente e ascoltiamo per un po’ la radio Chatterbox, presentata da Lazlow.
Quando arriva il mio turno, guido, guido e guido e guido, con la testa che mi gira per quanto è grande questa città, per quanto vivo sembra il gioco—a meno che non inizi a inseguirmi la polizia, allora il controller torna a Gareth, che va in cerca di un camioncino dei gelati per 40 minuti.
Corre l’anno 2002 e io sono nel soggiorno della casa del mio amico Chris, che ha piazzato la PS2 di sotto perché sua mamma è via per il fine settimana. Sono seduto su un cuscino che ho tolto dal divano e messo a terra, come tutti i 15enni sentono l’impulso di fare. Chris è inginocchiato molto vicino alla TV e cerca di completare al 100 percento il gioco, sperando di trovare i pacchetti speciali nascosti grazie a una mappa in bianco e nero stampata a scuola. Sul pavimento c’è un pacco di patatine aperto e una bottiglia di bibita da due litri.
C’è una puzza terribile. Terribile. “Hai visto Scarface?” chiede Chris, indicando un’arma speciale sullo schermo. “A quanto pare è basata su Scarface.” Tre anni dopo avrei visto finalmente Scarface e sarei rimasto sconvolto dalla quantità di citazioni di Grand Theft Auto. Lancio una moto su per una rampa vicino a uno strip club, cercando di fare punti bonus, ma muoio subito. Il controller torna a Chris, che lo tiene in ostaggio per un’ora.
Corre l’anno 2004 e io sono a casa del mio amico Paul. Entrambi abbiamo il peggior taglio di capelli mai visto. Con lui funziona così: suo padre lo viene a prendere a scuola ogni giorno e io mi becco un passaggio anche se non sono proprio di mano, perché lui ha GTA: San Andreas sulla PS2 e ha già sbloccato un sacco di aree sulla mappa.
Carica una nuova partita e mi lascia compiere la prima missione, dove giri per Los Santos su una BMX, e io contemplo con meraviglia ciò che (penso) è il miglior motore grafico con cui giocherò per il resto della mia vita. Tutti a scuola hanno questo gioco—comprato da fratelli maggiori, zii fichi, padri caotici—e tutti ne parlano.
“C’è un Bigfoot nel gioco, sai”, “Coi cheat code non riuscirai mai a finire il gioco”, “Hanno fatto un gioco grande come Los Angeles. Se carichi il codice è grande come Los Angeles.” Un amico di amici aveva rubato un jet Hydra ed era volato su tutta la mappa e ci erano voluti 25 minuti. Un amico di amici giurava di avere un rating a sette stelle nonostante il gioco ne dia al massimo sei.
Contemplo la nebbia giallognola di San Andreas mentre si renderizza sulla PS2 di un altro ragazzo. “Non faranno mai un gioco con una grafica migliore di questa,” dico, in adorazione. “Nessun altro gioco sarà mai così, è impossibile.”
Qualche tempo dopo, San Andreas viene pubblicato anche per Xbox, e io ho risparmiato abbastanza—tra strani lavoretti di pulizia estivi—da comprarne una copia. Ora posso dare forma a questo mondo come voglio io.
Altri ragazzini mi mostrano le imprese che hanno comprato, le macchine che hanno pimpato, quanto è semplice entrare in una base militare, ma io, una volta completate le missioni principali, preferisco semplicemente vivere in questo mondo. Faccio un CD con le mie canzoni preferite e le carico sull’hard disk dell’Xbox come stazione radio personalizzata.
Posso fare qualsiasi cosa: spesso guido su e giù per le super strade trafficate di Las Venturas, guardando il giorno che si trasforma in notte e i casinò che si accendono per me. Cerco anche io di completare il gioco al 100 percento, pulendo graffiti di gang rivali e facendo foto di un gioco che sembra un mondo intero. Ho milioni di dollari in banca e la libertà totale, che in genere prevede andare ad Ammu-Nation, comprare un sacco di munizioni per un lanciarazzi, rubare un carro armato e sparare dal cannone girato all’indietro nel traffico per andare più veloce, poi ricaricare dall’ultimo salvataggio appena, inevitabilmente, muoio.
Gioco su un televisore da 14 pollici, nel caos tinto di verdino della mia camera, eppure mi sento proprio dentro al gioco. Cammino per la strada e ascolto le mille battute diverse che i pedoni hanno da dire. Cerco l’unica strada in mezzo alla campagna mentre piove e sperimento un puro senso di miseria. Uso un cheat code per far spawnare un jet Hydra e fare le capriole in cielo per tutta la mappa.
Non importa cosa mi succederà, a quali altri titoli giocherò: sono seduto da dieci ore a giocare, non ho più missioni da fare o personaggi da incontrare, e sto giocando al gioco migliore della mia vita. Corre l’anno 2005, io ho 18 anni e il mio polso è coperto di polvere di patatine alla paprika. Ammesso che io abbia un cellulare, probabilmente lo controllo una o due volte al giorno. Sono in quello strano momento dell’adolescenza in cui posso stare sveglio fino alle quattro del mattino e non sentirne le conseguenze il giorno dopo.
Nel giro di un paio di mesi, un foglio A4 mi dirà che sono stato accettato all’università, ma ora non ci sto proprio pensando. Mi chiedo se l’alimentari vicino casa è ancora aperto per andare a mangiarmi un panino. Controllo il telefono: nessun messaggio, sette minuti prima che il negozio chiuda. La vita non sarà mai meglio di così.
Bene, d’accordo. Corre l’anno 2021. Passaggio brusco, lo so.
Dobbiamo parlare di GTA Trilogy: The Definitive Edition, remaster del gioco uscito tra novembre e dicembre 2021 e che fa veramente schifo.
Ci sono strani bug che compaiono quando trasformo la mia auto in un altro veicolo dalla prospettiva sbagliata. C’è un ponte di campagna abbastanza importante che appare e scompare a seconda dell’angolo da cui guardi. Un autista di limousine che devo uccidere resta incastrato dietro un albero a correre sul posto. I membri di un cartello mi maledicono con le loro dita troppo lunghe. Strani file audio si intromettono nei momenti più disparati. I modelli dei personaggi, pur pompati da un’intelligenza artificiale, sono più brutti di quelli del 2004. Meno umani che mai.
Sì, questi sono problemi e sì, fanno sì che il gioco non valga i soldi che costa. E sì, questo rende la versione remaster un fallimento epocale. Ma non sono il vero problema. Il vero problema è che la versione 2021 di San Andreas non compete neanche alla lontana con quella del 2004 che esiste solo nella mia mente. Nessuna casa di videogiochi sulla terra—a prescindere da soldi e tempo a disposizione—potrebbe mai eguagliare quella versione.
Ho iniziato a giocare al remaster di GTA aspettandomi di vedere le vecchie mappe rifatte nel motore grafico di GTA: V e riadattate con un paio di personaggi aggiornati, tutto affinché la mia nostalgia potesse nutrirsi del nuovo mondo. Sarebbe stato bello, ma sbagliato.
Invece, ho ricevuto una versione papale papale del vecchio gioco, ma affinata come se messa al microscopio. E questo mostra quanta strada hanno fatto i videogiochi in 17 anni e quanto sono distorti i miei ricordi. Il sistema di mira automatica che ha reso il gioco originale una gioia, ora è scomodo; il menù di una volta rende uno strazio cercare un cappotto per CJ; una città che un tempo sembrava vibrante e viva, ora appare come solo un paio di auto alla volta sulla strada e al massimo cinque pedoni che dicono le stesse cose.
Ci sono altri confronti devastanti: uno dei miei ricordi preferiti era una missione di San Andreas in cui CJ dà fuoco a una coltivazione di marijuana e lo schermo si distorceva mentre il personaggio si alterava coi fumi. Era così vivido che io (un 17enne che non aveva mai provato alcuna droga) mi sentivo fatto mentre giocavo. Attenzione ora, perché: la distorsione non c’è, nella versione remasterizzata.
Sono andato così in crisi che mi sono messo a fare ricerca: a quanto pare hanno tolto la distorsione dalla versione mobile qualche anno fa e non l’hanno mai rimessa. Ho trovato filmati della prima generazione del gioco e sì, la distorsione c’è, ma non è affatto pronunciata. Guardandola a 34 anni, a fatica vedo lo schermo muoversi. Era un ricordo prezioso, ma la realtà non era la stessa cosa.
La delusione verso la versione rimasterizzata di GTA è tanto verso il gioco che verso me stesso. San Andreas, con la sua nebbia, era un luogo dalle mille possibilità: ora che quella distanza è colmata, riconosco l’isola dove un tempo vedevo uno stato intero. Le stazioni radio che mi divertivano senza fine sono smascherate per il loop da 15 minuti che erano davvero. Evitare la polizia è davvero davvero facile.
Il miglior gioco della mia vita—un mondo in cui potevo restare per giorni di fila—è solo un insieme di poligoni e battute sul 69. Giocare a San Andreas ora è come leggere un capolavoro scritto in latino—chiaramente espressione d’arte, ma in un formato tale che per farne esperienza devi per forza decifrarlo e soffrire.
La ragione, in parte, sono io. Un tempo, per godermi GTA, avrei rubato un’auto, investito un poliziotto e aspettato di vedere per quanto tempo potevo evitare l’esercito e godermi la distruzione che avevo causato; parcheggiavo nel mezzo di una tangenziale per provocare abbastanza traffico da far esplodere i veicoli nell’ingorgo, per poi sparare e abbattere l’elicottero che cercava di fermarmi; avrei trovato un tetto piatto su un edificio di tre piani e sparato ai camion della SWAT con un fucile da cecchino; avrei preso un jet per volare pochi metri sopra la città e lanciare missili contro ogni auto che guidava nella mia direzione.
Era così che trovavo posti segreti per nascondermi, auto sportive luccicanti custodite in mezzo al nulla, pacchetti sorpresa, personaggi con cui fare una gara; era così che un gioco coi limiti di quegli anni poteva sembrare un sandbox infinito. Ora, traviato da anni di videogiochi online dove il punto è sempre raggiungere l’obiettivo, sto alla larga dal caos e mi concentro sulle missioni, sperando di arrivare presto a quella col jetpack. Trovare una rarità come il camion dei gelati non è più qualcosa che mi dà gioia.
Non c’è gioia nella distruzione. Non ho più interesse per vedere le macchine pimpate dei miei amici. Quando CJ fa salire una sex worker in macchina, non cerco più di spiare per vedere se stanno scopando. Non mi siedo su un pouf da anni. Penso che andrei all’ospedale, se mangiassi ora i panini che mangiavo da ragazzino.
Sono cambiato, ma GTA: San Andreas è rimasto lo stesso e questo, forse, è il vero problema. Non che un’intelligenza artificiale ha dato a Kent Paul dita particolarmente lunghe. È che ho vissuto un’intera altra vita dall’uscita del gioco originale e sono cambiato come persona in modi che non possono essere riscritti. Buona fortuna a chiunque decida di aggiustare questo bug.