Attenzione: questo post contiene spoiler sulla terza stagione di Gomorra.
Oggi andranno in onda la quinta e la sesta puntata di Gomorra 3 , ma l’attenzione mediatica attorno alla serie sembra essere un po’ scemata rispetto al passato. Tutti gli appassionati che conosco continuano a vederla, e a parlarne, ma non c’è lo stesso fervore al momento dell’uscita dei nuovi episodi, né la stessa foga quando si tratta di esprimere giudizi sull’avanzamento della storia.
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E se devo trovare una ragione dietro l’apparente raffreddamento di pubblico, quella è la seconda stagione. Perché, diciamocelo, è stata in parte deludente. Dove il ritmo della prima era sempre serrato, puntata dopo puntata, in Gomorra 2 ci sono stati spezzoni molto lenti e confusionari. Il tentativo di vendetta di Don Pietro non è stato poi così estremo come la sua fuga piena di pathos faceva supporre, e alcuni personaggi che il pubblico amava e che portavano grande ricchezza all’immaginario di Gomorra sono stati esclusi con troppa velocità—pensiamo a Salvatore Conte, e a come è stata cotta e mangiata tutta la parte più interessante del suo personaggio in una sola puntata. Ma in generale, tutti gli sbocchi di trama sembravano troppo strumentali a creare dei presupposti diversi da quelli di partenza per i personaggi principali.
Perché il punto è proprio questo: per come la vedo io la seconda stagione è servita quasi esclusivamente a mettere Ciro e Genny in una situazione di estremo risalto rispetto agli altri. Fatta eccezione forse per il ruolo di Scianel, tutti i personaggi inseriti dalla fine della prima stagione fino alla quarta puntata della terza sono dei portaborracce a questa specie di duopolio. Ma ora che finalmente le carte sono state rimpastate, qualche pezzo si è perso per strada.
Preso atto di questo, comunque, quella che per me è la parte più interessante di Gomorra è tutt’ora intatta: Gennaro Savastano. Che nel mio caso è anche il principale motivo per cui vale ancora la pena seguire avidamente Gomorra 3.
Genny è l’unico personaggio della serie che non ha fatto altro che migliorare esponenzialmente, nonostante i rallentamenti di trama. E tutto quello che gli ruota attorno e che gli è successo dopo essere tornato dall’Honduras è straordinariamente atipico per la narrativa italiana.
Un’infinità di articoli hanno evidenziato l’abilità espressiva di Salvatore Esposito—con i vari paragoni a Vincent D’Onofrio in Full Metal Jacket—nel far passare il suo personaggio da vitellone goffo della Camorra a narcotrafficante emancipato senz’anima. Ricordo che una volta in un’intervista Roberto Saviano disse che la trasformazione di Gennaro serviva a portare alcuni aspetti delle mafie sudamericane nei personaggi di Gomorra, un po’ come se Genny fosse un tramite per allargare il respiro della serie. Ma quello che pochi secondo me hanno sottolineato è come l’intera metamorfosi, anche relazionale, del personaggio sia distopica rispetto ai canoni degli eroi o anti-eroi italiani.
Gennaro è grasso, vestito male, pettinato peggio: e questo non intacca in nessun modo la sua credibilità o la sua posizione nella serie. Sta alla pari di Ciro, totalmente, nonostante quest’ultimo abbia tutte le caratteristiche ipotetiche per sovrastarlo nel processo di immedesimazione del pubblico. Anzi: Ciro è un personaggio molto più scontato, perché alla fine la bramosia di potere lo travolge, come nella più classica delle situazioni, e perde ogni spinta iniziale di crudeltà. Vuole redimersi.
Genny no: spara al cane che la madre ha adottato per sostituirlo, si lega in modo tacito all’uomo che l’ha uccisa, tradisce la fiducia del padre innumerevoli volte fino al parricidio indiretto, fa andare il padre della propria moglie in galera (spingendo quest’ultima a volere lo stesso), e nonostante questo non prova alcun rimorso. Mai. Non c’è nessun valore collettivo—sociale, religioso, o familiare che sia—a cui è devoto o con cui deve fare i conti.
L’odio e il disprezzo per la famiglia e per i suoi legami sistemici, con tutte le dinamiche di sconferma, invidia, e rabbia che si porta dietro, non è mai stato raccontato in modo così incisivo in un prodotto mainstream italiano. Gennaro è uno dei protagonisti vincenti, e dice apertamente che la famiglia è una merda—”Solo un orfano come te può pensare che la famiglia è una cosa buona,” dice a Gegè, il giovane contabile e amico d’infanzia, nel quarto episodio—e che bisogna starne lontani. E se ne allontana con l’inganno, la freddezza e il rancore.
Tutta la sua volontà di potenza, dalla sua villa lontano da Napoli fino alla strada di Scampia in cui viene abbandonato dopo il pestaggio voluto dal suocero, non sta tanto nella ricerca del potere, ma nell’emancipazione da quei valori che riteniamo positivi e accattivanti. Per questo un filone che avrebbe offerto sbocchi interessanti come la relazione di Salvatore Conte con una transessuale non è poi altrettanto interessante o rivoluzionario: alla fin fine rimane comunque uno che va a mangiare gli scialatielli a casa della madre la domenica, e che teme il suo giudizio sulla sua vita sessuale.
E anche solo per vedere come procede la traiettoria ascendente di un personaggio così particolare—uno Smerdjakov con i capelli tamarri—io non vedo l’ora arrivi una nuova puntata.