“Non è follia, è terrorismo” – Cosa abbiamo visto a Macerata

Non ho mai bevuto un caffè in un bar con la vetrina crepata da un proiettile, e tantomeno avrei pensato di farlo a Macerata. Eppure, è proprio quello che sto facendo.

Sono da poco passate le 12 di sabato 10 febbraio, e mi trovo nel mezzo di corso Cairoli—lo stesso posto in cui, una settimana prima, Luca Traini ha aperto il fuoco contro un migrante. Un altro colpo è rimasto conficcato nella vetrina, più o meno all’altezza del bancone.

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A pochi metri dal bar, fuori da un’edicola, campeggiano i titoli dei quotidiani locali: “CITTÀ BLINDATA PER IL CORTEO ANTIRAZZISTA.” “CORTEO E PAURA, LA CITTÀ BLINDATA.” Effettivamente le strade sono piene di blindati e agenti delle forze dell’ordine, alcuni con giubbotto antiproiettile e mitra. Sul Corriere della Sera si fanno addirittura paragoni con “Miami prima di un ciclone” e si dice che Macerata si prepara a una “replica dell’altro terribile sabato” (quello di Traini; come se una manifestazione fosse sullo stesso piano di una sparatoria). I tafferugli, stando alla stampa, sono assicurati.

Spostandomi verso il Monumento ai Caduti, dove l’attentatore si è consegnato alla polizia dopo aver gridato viva l’Italia e fatto il saluto romano, vedo i negozianti di corso Cavour intenti a tirare giù le saracinesche e a preparare le “barricate.” Il titolare di un ortofrutta porta fuori un pannello di compensato per proteggere la vetrina; quando Michele, il fotografo, gli dice che il suo negozio difficilmente rientra nella categoria di obiettivo politico di una manifestazione, l’uomo risponde: “Eh, non si sa mai.” Un altro negoziante ci invita a chiedere al sindaco il motivo della chiusura.

Nei giorni precedenti, il primo cittadino Romano Carancini (Partito Democratico) aveva chiesto che non si facessero manifestazioni. “Chiedo a tutti di farsi carico del dolore, delle ferite e dello smarrimento della mia città. Si fermino tutte le manifestazioni, si azzeri il rischio di ritrovarsi dentro divisioni o possibili violenze, che non vogliamo.” A seguire le dirigenze nazionali di Anpi, Cgil, Arci e Libera avevano accolto l’appello, causando profonde spaccature al loro interno—molti circoli territoriali, infatti, si erano dissociati e avevano annunciato la loro partecipazione. Il ministro dell’interno Marco Minniti aveva minacciato di vietare ogni manifestazione.

Il Monumento ai Caduti.

Nella giornata di venerdì 9 febbraio, la Prefettura aveva poi stabilito che non c’erano “ragioni di ordine e sicurezza pubblica per un provvedimento di divieto” (divieto che, è bene precisare, la questura non aveva mai disposto). Nonostante ciò, il sindaco ha ordinato la chiusura di tutte le scuole e il blocco del trasporto pubblico. Non sorprende affatto, quindi, che l’atmosfera fosse pregna di tensione—una tensione che, a posteriori, è apparsa del tutto montata ad arte.

Sabato, al concentramento ai giardini Diaz, oltre ai promotori (il centro sociale Sisma) e ai movimenti sociali da tutta Italia ci sono le rappresentanze di alcuni partiti di sinistra (Potere al Popolo, Liberi e Uguali e altri), spezzoni di Non una di meno, sindacati di base, circoli Anpi e Arci, delegazioni Fiom, la Brigata di Solidarietà Attiva, Emergency, associazioni per i diritti dei migranti, il Gruppo Umana Solidarietà (GUS, associazione di Macerata che da vent’anni è attiva nel campo dell’accoglienza e dell’assistenza a profughi), e tanti singoli.

Anche i cartelli sono tantissimi. Su quello principale, che apre il corteo, c’è scritto “movimenti contro ogni fascismo e razzismo.” Altri recitano: “Stop fasciorazzismo, basta giocare con la vita dei migranti”; “Minniti sono qui proprio per senso di responsabilità contro ogni fascismo, ogni razzismo, ogni violenza sulle donne”; “Non è follia, è terrorismo.” Al centro della piazza c’è lo striscione che recita: “Un abbraccio collettivo a Jennifer, Omar, Gideon, Mahamadou, Wilson, Festus”—i nomi delle vittime dell’attentato. Diversi cartelloni sono dedicati a Pamela Mastropietro, che verrà ricordata anche dal palco, “uccisa due volte: la seconda è quando hanno strumentalizzato la sua morte.”

Il corteo inizia a muoversi verso le tre e mezza e si snoda intorno alle mura delle città, in un percorso di circa tre chilometri e mezzo di lunghezza. Le strade sono stipate: gli organizzatori parlano di 30mila persone, la questura di 15mila. Dal camion in testa si susseguono gli interventi di vari attivisti. Uno degli ultimi lo fa una ragazza afroitaliana di Macerata, che esclama: “Io sono nata qua, ma Macerata non è mai stata così bella! Quando ci dicono di tornare a casa nostra rispondiamo che è questa la nostra casa. Il vero degrado è non sentirsi a casa nella propria città.”

Verso la fine del corteo—dopo qualche ora in cui non si registra la minima “tensione”—controllo Twitter e noto che le homepage dei maggiori siti d’informazione aprono all’unisono su un “coro choc sulle foibe.” Intonato da un gruppetto di persone, in realtà non è stato seguito da nessuno. Ma poco importa: in assenza di “scontri,” per alzare un bel polverone almeno ci si può giocare la carta del “E allora le foibe?”

Stando lì in mezzo, l’ossessione mediatica e politica su quel coro mi è sembrata completamente fuori dal mondo. E non solo a me. Ma su questo tornerò più avanti.

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Sono partito per Macerata venerdì pomeriggio, da Roma. Già durante il viaggio in bus ho potuto saggiare il clima: passeggeri che parlavano preoccupati dei tafferugli in piazza della Libertà tra un manipolo di neofascisti di Forza Nuova e la polizia, e dicevano che il giorno dopo sarebbero stati sicuramente a casa per paura che potesse succedere qualcosa di brutto.

Appena arrivato, lo scenario che mi si è parato davanti è stato quello di un centro storico completamente vuoto. Anche gli amici del posto che mi accompagnano sono stupiti. Durante la cena mi spiegano che la città, come tutte le città di provincia, del resto, non è assolutamente abituata a stare nell’occhio di un ciclone mediatico; figurarsi, poi, a essere catapultata al centro di una campagna elettorale nazionale.

È anche per questo motivo che l’orrenda morte di Pamela Mastropietro, su cui si stanno ancora svolgendo complicate indagini, e la sparatoria hanno avuto un impatto così deflagrante su Macerata—una città di 40mila abitanti che ha una qualità della vita piuttosto alta, e su una comunità tendenzialmente pacifica. Sono fatti che vanno semplicemente oltre.

In questi ultimi dieci giorni, almeno sui media, si sono imposte due narrazioni speculari: la prima è quella de “la gente è stanca, non ne può più”; la seconda è quella di Macerata come un covo di razzisti e fascisti (per la cronaca: non ci sono sedi di CasaPound o Forza Nuova). Entrambe queste letture sono troppo semplici, ed eliminano totalmente la complessità alla base.

Secondo Paolo Bernabucci—il presidente del GUS, che ospita due migranti feriti da Traini—l’atteggiamento generale dei maceratesi nei confronti dei migranti non è necessariamente di chiusura; è “ambivalente.” Nel passato, ha spiegato in un’intervista, “il nostro modello d’integrazione e i nostri sforzi ad inserire i richiedenti asilo come forza lavoro ha avuto un buon responso sul territorio. Ma negli ultimi anni, a partire dalla crisi economica del 2008, e poi col diffondersi di un clima d’odio razziale, le cose si son fatte più difficili.”

Simone, un attivista del Sisma, mi fa notare che, in realtà provinciali come Macerata, molto spesso scatta un meccanismo di autodifesa che può portare alla minimizzazione di eventi traumatici. “Le persone sono abituate a una certa tranquillità, e questa cosa è talmente grossa… Per certi versi è un meccanismo molto simile a quello che c’è stato dopo il terremoto. Dopo un anno, con oltre cinquantamila scosse, tendi a dimenticare. Perché altrimenti non campi.”

Allo stesso tempo, una parte della città ha comunque cercato di reagire a questa infausta successione di eventi. Il giorno dopo la sparatoria, ad esempio, c’è stato un presidio spontaneo ai giardini Diaz. Il 6 febbraio, sempre nello stesso luogo, si è tenuta una fiaccolata per Pamela. Il 3 febbraio—e questo è un dettaglio che in tanti, dolosamente, hanno ignorato—si sarebbe dovuta tenere un’iniziativa di solidarietà alla famiglia della 18enne organizzata dalla comunità nigeriana e altre comunità straniere. L’attentato di Traini l’ha impedita.

Insomma: in un contesto storico, continua Simone, in cui le relazioni sociali nelle grandi città “sono distrutte per vari motivi,” i piccoli centri “hanno ancora legami sociali che ancora un po’ tengono. Tra le persone ci si parla, ci si incontra, c’è ‘il bar’ dove vanno tutti. E questo aiuta a tenere insieme le cose.” Detto ciò, mi ribadisce l’attivista del Sisma, “Macerata non è una città fascista e razzista, com’è stata descritta; però ovviamente subisce il clima che c’è ovunque.” E un simile discorso si può applicare anche ad altre realtà delle Marche.

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In questi giorni ho ripensato molto alla morte violenta di Emmanuel Chidi Nnamdi, il profugo nigeriano di 36 anni ucciso nel 2016 a Fermo, a 45 minuti da Macerata. Il responsabile dell’omicidio—Amedeo Mancini, l’ultrà della Fermana dalle tendenze fasciste—ha patteggiato quattro anni di reclusione che ora sta scontando ai domiciliari. Nella diversità, le analogie con quanto successo a Macerata sono evidenti, e numerose.

Decido di parlarne con Giuseppe Buondonno, tra i promotori del Comitato 5 Luglio (data della morte di Nnamdi). Come prima cosa gli chiedo di raccontarmi la reazione di Fermo all’omicidio di Emmanuel. “Da un lato ci sono stati lo choc e la condanna,” mi risponde, “ma c’è anche stata una parte della città che ha dato una risposta di sottovalutazione, di chiusura difensiva. La paura che Fermo apparisse come una città razzista è prevalsa rispetto alla paura sul diffondersi di fenomeni gravi.”

A questo proposito, Buondonno evoca il concetto di “zona grigia”—quella zona, cioè, che “reagisce con la paura, o anche con atteggiamenti difensivi, soprattutto alle paure legate alla crisi. Credo che sia sbagliato definire tutto ciò razzismo; ma dobbiamo sapere che il razzismo cresce se si diffonde l’indifferenza.” Il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, in un reportage proprio su Fermo, aveva scritto che “in provincia, laddove non esistono fermi muri di separazione, tutto è un vaso comunicante, tutto è osmosi; pertanto ogni volta che la zona grigia viene coccolata, blandita, per nulla bonificata, la polvere non rimane affatto sotto il tappeto. Rischia di spargersi ovunque.”

Prima dell’omicidio di Emmanuel, in effetti, gli episodi di intolleranza sul territorio erano in aumento già da un pezzo. Come mi racconta Buondonno, “c’erano state le bombe davanti alla chiese [ messe da due neofascisti]; poi c’erano state le uccisioni di alcuni lavoratori kosovari da parte di un datore di lavoro che poi si è tolto la vita in carcere; poi delle aggressioni; le scritte contro la Caritas; e così via.”

Un altro punto di contatto tra le due vicende è il tentativo di minimizzazione della violenza, o l’annacquamento del profilo dei suoi responsabili. Si va dall’invocazione di un’inesistente “legittima difesa,” si passa per il “gesto di un folle esasperato,” e si arriva addirittura al supporto esplicito di alcune frange—gli ultras della Fermana nel caso di Mancini, Forza Nuova per Traini, e alcuni striscioni apparsi a Roma e a Morrovalle (Macerata) in “onore” dell’attentatore. Non mancano neppure notizie false particolarmente squallide: per Fermo si era parlato della presenza della mafia nigeriana al funerale di Nnamdi; per Macerata di una relazione tra Traini e Pamela Mastropietro.

In certi casi, mi dice ancora Buondonno, si tratta di “operazioni di incredibile opportunismo per nascondere il fatto che questi soggetti—nella loro inconsistenza culturale—agiscono perché sono stati imbottiti di sottocultura violenta e razzista.” Quando poi, a livello più generale, “si soffia sul fuoco dell’intolleranza, si trasforma ad arte l’immigrazione in emergenza e si diffonde odio, mi pare evidente che tutto ciò trovi qualcuno disposto ad agire, o per un proprio tratto violento e istintivo, o per un disegno ancor più volontario e consapevole.”

In questo senso, rispetto all’episodio di Fermo la sparatoria di Macerata segna un terrificante salto di qualità. Lo stesso Buondonno aveva detto chiaramente a Leogrande che “il problema non è Amedeo, ma gli Amedeo di domani. Quelli che possono tranquillamente rifare una cosa del genere, magari anche con maggiore premeditazione, perché tanto è una ragazzata.”

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Sabato mattina, prima della manifestazione, mi sono fatto un giro in alcuni dei luoghi colpiti da Traini. Uno di questi è nel quartiere di Borgo San Giuliano, e i segni sono ancora visibili—la pallottola ha lasciato un grosso buco in una delle due colonne di cemento all’ingresso del locale Terminal.

Se si consulta la mappa del percorso di Traini, che in due ore ha gettato nel terrore un’intera città, salta subito all’occhio la vastità degli obiettivi: a parte quelli principali (i neri), il 28enne fascista ha sparato anche contro locali (come il Bar King e l’H7), la discoteca Babau a Sforzacosta, e la sede del Partito Democratico in via Spalato—la medesima via dove abitava anche Innocent Oseghale, uno degli uomini attualmente accusati di aver ucciso e smembrato Pamela Mastropietro.

Molto poco, quindi, è stato lasciato all’improvvisazione; e che fosse tutto “premeditato e progettato” l’ha confermato Minniti in una conferenza stampa. Dal carcere di Montacuto—a proposito: il Dap ha smentito la notizia degli applausi da parte di altri detenuti—Traini ha rivendicato la sua azione e ha spiegato agli inquirenti di aver agito per lanciare “un messaggio, perché bisogna contrastare l’eccessiva presenza di immigrati in Italia.”

Sull’ideologia di Traini penso non ci sia bisogno di soffermarsi più di tanto; parlano i tatuaggi del Wolfsangel e della croce celtica, la candidatura con la Lega, la partecipazione a manifestazioni di estrema destra, l’ispirazione al protagonista di American History X, e altro ancora. Le testimonianze dei conoscenti, su tutte quella del titolare della palestra frequentata da Traini, raccontano inoltre un processo di radicalizzazione che lasciava presagire la possibilità di un epilogo violento.

Come qualificare, dunque, un atto del genere? Si può parlare di terrorismo?

Per certi versi il dibattito intorno a questo tema mi ha ricordato quello relativo alla strage di Charleston negli Stati Uniti, dove nel 2015 Dylann Roof—un suprematista bianco—ha sparato in una chiesa uccidendo nove afroamericani. In una specie di manifesto, il 21enne aveva scritto: “Non ho altra scelta [ che uccidere i neri]. Qualcuno deve avere il coraggio di farlo nel mondo reale, e questo qualcuno sono io.” (Tra l’altro, sono parole non troppo distanti da quelle di Traini: “Se nessuno fa nulla contro questa gente lo faccio io, li faccio fuori tutti.”)

In un articolo dell’epoca pubblicato su The Intercept, Glenn Greenwald sottolineava come il rifiuto di applicare il termine “terrorismo” a Charleston mostrasse come il termine sia ormai un mero strumento di propaganda svuotato di ogni reale significato. Per essere ancora più precisi: in un mondo post-11 settembre, l’unica definizione comunemente accettata è “violenza commessa da musulmani” (in gruppo o singoli). Se la stessa violenza è commessa da altri, pur in presenza di modalità analoghe, allora non si applica.

Tuttavia, negli ultimi decenni il terrorismo ha cambiato radicalmente forma. Tornando in Italia: se si guarda all’oggi pensando alla strage di Bologna o a piazza Fontana, non si capisce nulla. Prendendo come termine di paragone le stragi di altri fascisti, come quella di Gianluca Casseri a Firenze nel 2011, si capisce già di più. A tal proposito, credo che una figura come Luca Traini rientri appieno nella tipologia dei “lupi solitari” di estrema destra ispirati dal concetto di “ leaderless resistance”—con una grossa avvertenza, però: contrariamente a quanto si crede, un “lupo solitario” non è mai completamente “solo” e non agisce nel vuoto.

Un pezzo apparso sul Washington Post, scritto dai ricercatori Pietro Castelli Gattinara e Francis O’Connor, spiega infatti che la “stragrande maggioranza degli ‘attori individuali’ ha legami sociali con una serie di attori politici.” Figure come quella di Traini, continuano i due ricercatori, sono di solito immerse in forme di attivismo politico non-violento—come la candidatura alle elezioni, o altro—e separatamente si prefigurano o pianificano atti di violenza, che possono esplodere da un momento all’altro.

Citando ricerche accademiche sulla radicalizzazione, i due concludono che le cause di questo attacco “non si possono ridurre all’azione di militante [ mentalmente] instabile”—anche perché la maggior parte delle persone con disturbi mentali non commette atti di questo genere. Le motivazioni vanno cercate più in profondità: una combinazione tra il contesto locale, una determinata socializzazione politica, una “crisi personale” e “un discorso pubblico che enfatizza sistematicamente la correlazione tra l’immigrazione e crisi di vario tipo.”

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Quest’ultimo punto mi sembra a dir poco decisivo. Abbiamo già scritto di come il dibattito sulla tentata strage sia assolutamente sconvolgente, da qualunque parte lo si osservi. I ricercatori citati poco sopra aggiungono che la sparatoria non ha generato una “riflessione nazionale sui rischi del discorso anti-migranti.”

Al contrario, l’immigrazione vista ovviamente come causa univoca di tutti mali dell’Italia è finita al centro del dibattito con un sovraccarico di ferocia e strumentalizzazione. Non c’è più alcun dato che regga, alcuna spiegazione che possa essere portata avanti senza urla e strepiti, al punto che teorie come quella della “sostituzione etnica” (lo uso come paradigma) sono ormai un argomento legittimo e sdoganato dalle destre italiane.

Il centrosinistra, dal canto suo, appare sempre più disarmato e incapace di contrastare questa visione del mondo. I tentennamenti sulla tentata strage di Macerata hanno causato solo divisioni e laceramenti nell’elettorato di riferimento. Come ha scritto Ezio Mauro in un editoriale su Repubblica del 9 febbraio, questo succede “quando i partiti si riducono a semplici comitati elettorali, e non hanno più ideali politici a cui riferirsi perché vivono nell’estemporaneo, diventano subalterni al senso comune, suoi replicanti. Invece di orientare l’opinione pubblica la inseguono gregari, perché invece di testimoniare una storia affogano nella cronaca.”

Prima di chiudere la nostra conversazione, Giuseppe Buondonno del Comitato 5 Luglio mi ha detto che “se succedono cose del genere a Fermo e Macerata, vuol dire che gli anticorpi in tutta la società sono venuti meno.” Sono perfettamente d’accordo; e sono anche convinto che l’attentato a Macerata sia uno spartiacque.

Se non si cambia il nostro dibattito pubblico, se non si cambiano determinate politiche, se non si cambia il modo in cui i media raccontano certi fenomeni (come, ad esempio, lo schiacciare un’intera manifestazione antirazzista su un singolo coro), se non si va alla radice economica e sociale dell’ostilità, allora saremo destinati a confrontarci con altri Luca Traini.

Anche se il quadro è abbastanza cupo, però, non bisogna mai disperarsi o chiudersi a riccio. Tra le varie cose, questo sabato l’ha dimostrato: esiste una parte della società italiana recettiva, non timorosa di chiamare le cose con il loro nome, capace di reagire in maniera pacifica e determinata, intenzionata a rinforzare linee invalicabili che il tempo e una politica scellerata hanno sbiadito.

Vista la situazione, non era assolutamente così scontato.

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