“Siamo vivi ma in una tomba”: cosa succede nella prigione più atroce d’Egitto

Percosse, isolamenti estremi, negazione dei servizi medici, celle senza letti e senza servizi igienici, sospensione di ogni contatto con famiglie e avvocati.

A ormai otto mesi dalla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e brutalmente ucciso in Egitto, un nuovo rapporto realizzato dalla ong internazionale indipendente Humans Right Watch evidenzia il terribile stato delle carceri nel paese nordafricano, gettando luce sulle ripetute violazioni dei diritti umani e sull’utilizzo ciclico di metodi di tortura nel sistema penitenziario nazionale.

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Il report di 80 pagine, pubblicato oggi, si focalizza sulle vite dei detenuti presso “Lo Scorpione”, come viene chiamata colloquialmente la sezione più dura del carcere di Tora, a sud de Il Cairo. Le informazioni sono basate su interviste realizzate a 20 parenti di detenuti, due avvocati, due ex prigionieri, e sull’analisi di immagini, referti medici e documenti che testimoniano le condizioni terribili all’interno della struttura, che in alcuni casi hanno portato perfino alla morte dei prigionieri.

Tra il maggio e il dicembre 2015, Human Rights Watch è riuscita a confermare la morte di almeno sei carcerati. Due di loro avevano il cancro, uno il diabete: a tutti è stato negato accesso alle cure mediche necessarie per la loro sopravvivenza, così come l’assistenza di un dottore.

Un quarto prigioniero ammalato di Epatite C, Farid Ismail, è morto nel maggio 2015 dopo essere entrato in coma all’interno della struttura. Ismail era un ex membro del Parlamento egiziano, rappresentante dei Fratelli Musulmani.

Il rapporto contiene anche un’intervista a Aisha al-Shater, figlia del vice-capo del partito islamico, Khairat al-Shater. Secondo la donna le guardie del carcere avrebbero evitato di proposito di fornire assistenza medica a Farid Ismail dopo il peggioramento delle sue condizioni, e alle richieste di aiuto avrebbero risposto che “non erano affari loro.”

“Dopo quell’episodio anche rivolgersi la parola [nel carcere] è stato proibito,” ha dichiarato Aisha al-Shater. “Ora dicono ‘siamo in una tomba. Siamo vivi, ma in una tomba’.”

Dal rovesciamento del governo di Mohamed Morsi avvenuto nel 2013 da parte dell’esercito egiziano guidato dall’allora Ministro della Difesa al-Sisi, in Egitto il ricorso a metodi di polizia durissimi e all’incarcerazione sistematica degli oppositori è all’ordine del giorno.

Secondo quanto raccolto da Human Rights Watch, le condizioni dello “Scorpione” sarebbero drasticamente peggiorate nel marzo 2015, dopo l’entrata in carica di Magdy Abd al-Ghaffar come Ministro dell’Interno. Da allora, la prigione è stata praticamente isolata dal mondo esterno, causando il conseguente rapido declino delle condizioni e dei diritti dei suoi occupanti.

“Siamo vivi, ma in una tomba.”

Tra il 2013 e il 2014 le autorità egiziane hanno arrestato o accusato almeno 41,000 persone. Altre 26,000 sono state fermate dall’inizio del 2015, si legge nel report. Cifre molto alte che non si distanziano molto da quelle comunicate dal governo, che ha ammesso di avere effettuato circa 34,000 arresti.

Recentemente, al-Sisi ha accusato – ancora una volta – “i media” di avere contribuito a complicare la vicenda Regeni, gettando discredito sull’operato del governo del paese nordafricano e sulla sua volontà di aiutare le indagini.

Nel corso degli ultimi mesi il Presidente al-Sisi ha promesso collaborazione con le autorità italiane per fare luce sulla morte del ricercatore. Al momento, però, le indagini restano ferme alla numerose versioni rilasciate e contraddette nei primi mesi successivi all’omicidio del ricercatore.

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