La nostra Struncatura è arrivata a Gioia Tauro nel 1919: è stato nostro nonno Ferdinando a portarla da Atrani, un paesino della Costiera Amalfitana.
Un occhio inesperto può confonderla con una semplice pasta integrale, ma un calabrese della provincia di Reggio la riconosce al primo sguardo. Delle linguine scure, porose e ruvide: è così che si presenta la Struncatura (italianizzato, Stroncatura), simbolo dell’identità gastronomica di una parte della Calabria.
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I calabresi sono grandi mangiatori di pasta, ma a differenza dei fileja (una specie di strozzapreti realizzati con farina, acqua e attorcigliati al ferretto) diffusi un po’ ovunque, la Struncatura è reperibile solo nella provincia di Reggio Calabria e l’area di produzione è ristretta a una zona delimitata.
Finché eravamo piccole noi, dal momento che non esisteva una legge che regolamentava la pasta integrale, non aveva l’etichetta, non era legale. La potevi vendere solo di contrabbando, solo sottobanco alle persone che conoscevi.
Siamo nella piana di Gioia Tauro, la seconda pianura più estesa della regione, racchiusa tra il mar Tirreno, il Monte Poro e l’Aspromonte. Un centro agricolo fertile, ricco di agrumeti e ulivi secolari, la cui fama purtroppo è collegata a tristi episodi di ‘ndragheta e caporalato. Le due città pianigiane principali, Gioia e Palmi, si contendono la paternità della Struncatura, ma le mie spie locali non hanno dubbi: “Se vuoi mangiare quella vera, devi andare a Gioia Tauro”. E a Gioia Tauro ci vado, non solo per mangiarla, ma anche per visitare la Ditta Torre che cento anni fa, per prima, ha portato la Struncatura in questa città, facendola diventare lo stemma culinario di tutta la Piana.
Incontro Stefania e Giovanna Torre, le titolari del pastificio, nella loro bottega: un cartellone con la scritta “Ditta Torre – La Struncatura – Possono imitarne la forma, ma non il gusto” tappezza l’intera porta di ingresso. All’interno si respira un’atmosfera rassicurante da negozietto storico che resiste all’omologazione e agli automatismi della grande distribuzione, di quelli, per intenderci, in cui è ancora importante il rapporto di fiducia con il cliente.
“La nostra Struncatura è arrivata a Gioia Tauro nel 1919: è stato nostro nonno Ferdinando a portarla da Atrani, un paesino della Costiera Amalfitana. Faceva il commerciante ed era venuto a Gioia perché, ai tempi, era un’importante arteria mercantile. Nessuno la conosceva qui, era una pasta che si faceva solo in Campania, utilizzando le varie semole di grano duro che avanzavano nei sacchi dei pastifici. Finché eravamo piccole noi, dal momento che non esisteva una legge che regolamentava la pasta integrale, non aveva l’etichetta, non era legale. La potevi vendere solo di contrabbando, solo sottobanco alle persone che conoscevi”, mi raccontano le due sorelle, che rappresentano la terza generazione dell’azienda.
Oggi la Struncatura è molto richiesta, anche come ingrediente in ristoranti stellati, soprattutto calabresi, ma non sempre il suo appeal è stato riconosciuto. Anzi. C’è stato un tempo in cui questa pasta era sinonimo di cibo per animali, di cucina povera
Tra gli scaffali, in legno, spiccano prodotti ricercati del territorio, conserve, liquori, dolci, essenze, ma non c’è la protagonista del nostro racconto. Scopro che la Struncatura non viene prodotta in loco ma, come da tradizione, a Fisciano, in Campania, dove c’è il mulino e il laboratorio di trasformazione. “La nostra Struncatura è artigianale e viene prodotta a Fisciano da mastri pastai campani che lavorano solo per noi, con lo stesso metodo di allora. Gli ingredienti rimangono sempre gli stessi: semola di grano duro italiano (proveniente da Campania, Puglia, Basilicata e Lazio) e acqua. Semola, mi raccomando, non farina. Non è la stessa cosa e la farina non è tra le componenti della nostra pasta. Per fare la Struncatura si utilizzano, in particolare, le parti del chicco di grano duro meno zuccherate e più ricche di fibre, la crusca e l’endosperma”, mi illuminano le due titolari. Questo incide sul colore della pasta, resa porosa e ruvida dalla trafilatura al bronzo e da una lenta essiccazione.
Le sorelle Torre seguono in prima persona tutta la filiera di produzione: si occupano della selezione dei grani duri, ne controllano la molitura e monitorano la trafilatura. La pasta arriva a Gioia sfusa e viene confezionata da Stefania e Giovanna, manualmente e un pacchetto per volta, nel retrobottega. Assisto all’impacchettamento: dei gesti ormai automatici, che le due ragazze hanno ereditato dal nonno, secondo una pedagogia del silenzio.
Oggi la Struncatura è molto richiesta, anche come ingrediente in ristoranti stellati, soprattutto calabresi, ma non sempre il suo appeal è stato riconosciuto. Anzi. C’è stato un tempo in cui questa pasta era sinonimo di cibo per animali, di cucina povera e, per coprirne l’acidità, veniva spesso condita con sarde e acciughe che, con il loro sapore forte, avevano lo scopo di invaderla senza compromessi. In memoria degli anni che furono anche adesso il piatto must e identitario prevede la Struncatura con sarde o acciughe, pane raffermo tostato, olive e peperoncino.
Il recupero della Struncatura, però, ha determinato una sfrenata corsa alla produzione con tentativi mal riusciti di replicarla che si concretizzano nella frequente apertura di pastifici, non sempre all’altezza.
È in questa versione classica che la gusto alla Trattoria Donna Nela di Polistena, una delle roccaforti della Struncatura, in cui vado insieme alle titolari della Ditta Torre.
Il patron della casa ha 44 anni e, da amante di una cucina del territorio, ha sempre avuto in carta la ricetta tradizionale della Struncatura, appresa dalla mamma. Quella che ho il piacere di assaggiare è fatta con acciughe sciolte nell’olio insieme al peperoncino, un po’ di salsa di pomodoro appena accennata, olive nere, mollica di pane e una manciata di grana. Mi dicono che ci sono rivisitazioni del piatto: con la ‘nduja, con lo stocco di Mammola, con mandorle e noci. Mi riservo di provarle in futuro, ma per ora non posso non pensare alla Struncatura cucinata “comu na vota” che ha pienamente soddisfatto il mio palato.
La pasta mantiene in maniera eccezionale la cottura, la porosità trattiene un condimento saporito, ma non invadente, in cui l’acciuga (che amo) viene fuori senza arroganza e il peperoncino si fa sentire timidamente per lasciare alle olive (che sembrano quelle “’mpurnati” che faceva mia nonna al forno) di esprimersi al meglio e alla mollica di far sentire, sotto i denti, la sua croccantezza. Per essere la mia prima volta, sono rimasta entusiasta dalla performance di questa pasta e credo sia stato un bene riuscire a riabilitarla dalla fama negativa che le era stata affibbiata.
Il suo recupero, però, ha determinato una sfrenata corsa alla produzione con tentativi mal riusciti di replicarla che si concretizzano nella frequente apertura di pastifici, non sempre all’altezza, poco rispettosi della materia prima. Così capita spesso di imbattersi in ossimori culinari di Struncature fresche o, addirittura, sottovuoto, di fronte alle quali la sola domanda che riesci a formulare è “perché?”. In questi casi la sola cosa da fare è affidarsi al buon senso, che impedisce di chiamare Struncatura una pasta fresca, e al proprio palato.
Fine della parentesi educativa e moralizzatrice. Dove eravamo rimasti? Ah sì, a me che sbavo di fronte alla Struncatura di Donna Nela. Esco dalla trattoria felice con in testa il piatto (di cui ho ordinato il bis) e la carta dei vini del locale che corrisponde più o meno a due libri di 200 pagine, con tante chicche calabre naturali.
Penso che la Calabria ha veramente tanto ancora da far assaggiare e che bisogna scavare molto in profondità per conoscerla bene, che poi mica è detto che ci riesci. E dopo averla mangiata decido di tornare in bottega per rimediare e fare scorta. Mi faccio confezionare cinque pacchetti di Struncatura e corro in stazione felice con un altro pezzo di Calabria di cui sapevo molto poco.
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