Heidi Benneckenstein ha 24 anni, fa l’insegnante e ha un bambino piccolo. Poco più di un anno fa il suo nome era Heidrun Redeker. Nata in una famiglia di nazisti alla periferia di Monaco di Baviera, è stata cresciuta in accordo coi valori “völkische” del Terzo Reich, basati sulla disciplina, l’obbedienza e un patriottismo fanatico.
A sette anni Heidi ha passato la prima di tante estati in un campo estivo gestito dalla Heimattreuen Deutschen Jugend (HDJ), un’organizzazione giovanile sciolta dal Ministero degli Interni tedesco nel 2009 e nata con lo scopo di formare le nuove generazioni dell’élite neonazista tedesca. Nella sua vita precedente, per Heidi era del tutto normale negare l’Olocausto e festeggiare il compleanno di Hitler.
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Oltre a insegnare, Heidi è una scrittrice e ha appena pubblicato il suo primo libro, Ein Deutsches Mädchen (Una ragazza tedesca)—un’autobiografia che racconta dall’interno gli ambienti neonazi tedeschi. L’ho incontrata per farle qualche domanda sul tema.
VICE: Com’è stata la tua infanzia?
Heidi Benneckenstein: Mio padre era molto severo. Dovevamo chiedergli il permesso prima di fare qualsiasi cosa. A cena io e mia sorella potevamo parlare solo se interrogate.
Sembra un’educazione molto severa, ma non particolarmente nazista.
Sì, ma era tutto basato sui valori nazisti.
Quando hai capito che i tuoi familiari non erano semplicemente diversi, ma proprio dei nazisti?
Quando ho iniziato ad andare a scuola avevo già abbastanza chiaro che la mia non era una famiglia come le altre. Mi ricordo che una volta mi sono ritrovata a insegnare alla mia migliore amica come disegnare una svastica. All’epoca non sapevo fosse un simbolo di estrema destra. Mi sembrava solo di aver condiviso una cosa interessante con un’amica.
Tuo padre è un neonazista e un negazionista dell’Olocausto che ogni anno festeggia il compleanno di Hitler. Tua madre com’è invece?
Non era così estremista, almeno paragonata a mio padre. Ovviamente lo incoraggiava e gli dava corda. Ma con lei avevo un rapporto molto stretto, talvolta anche affettuoso. Col tempo ho capito che per quanto poteva cercava di proteggermi da mio padre.
A sette anni hai partecipato a un campo estivo per la nuova gioventù hitleriana. Com’è stato?
La prima sera era stata molto divertente, perché sembrava un campo scout: avevamo giocato, per lo più. Ma l’atmosfera era cambiata man mano che le regole del campo si facevano più severe e i supervisori più pignoli. Ci svegliavano alle sette di mattina e ci facevano fare degli esercizi all’aria aperta, anche se faceva freddo. E durante una di queste adunate mattutine un bambino era stato punito perché non stava dritto con la schiena: l’avevano costretto a fare le flessioni mentre lo riempivano di insulti. Alcuni supervisori arrivavano a picchiare i bambini disobbedienti.
Che altre attività prevedeva il campo?
Le ragazze facevano soprattutto cucito e ricamo mentre i ragazzi facevano pugilato o imparavano a costruire cose. C’erano lezioni sulle grandi figure del nazismo come Hanna Reitsch, la pilota preferita di Hitler, e ogni sera prima di andare a dormire cantavamo canzoni del Terzo Reich. Ci tiravano proprio su per diventare la futura élite del neonazismo tedesco.
Nel libro racconti che il campo era sorvegliato dalla polizia. Sono mai intervenuti? All’esterno del campo, di fronte all’ingresso, c’era sempre un’auto della polizia—ma non sono mai entrati. Al campo ci veniva insegnato che i poliziotti erano nostri nemici. Una notte siamo stati svegliati e ci è stato detto di correre a nasconderci nel bosco perché la polizia stava facendo un’ispezione. Così siamo scappati, ma quando siamo tornati indietro dei poliziotti non c’era traccia: c’era invece la testa di un maiale infilzata su un bastone al centro del campo. Penso che fosse una specie di test, ma non ho idea del motivo per cui ce l’abbiano fatto.
Come si diventa membri della HDJ?
Devi essere invitato da un leader dell’organizzazione che ti considera meritevole. La maggior parte dei bambini al campo proveniva da famiglie di professori universitari o comunque della buona borghesia.
Tu sei cresciuta in una famiglia di nazisti. Quanto agli altri ragazzi che hai conosciuto da adolescente, come erano entrati loro nell’ambiente?
In realtà è molto raro che qualcuno entri nel giro tramite la famiglia. Per la maggior parte ci arrivano intorno ai 15 o ai 16 anni, spesso come forma di ribellione adolescenziale. L’ideologia nazista è molto semplice da capire ed è facile convertire qualcuno al nazismo. Molti di questi giovani militano solo per un periodo, per qualche anno, prima di crescere e allontanarsi dall’organizzazione.
Nel libro racconti di aver fatto a botte più con i punk che con gli stranieri. Tutti i neonazisti che hai conosciuto erano razzisti?
Dipendeva molto da dove erano cresciuti. Nell’ex Germania Est ci sono meno immigrati, ci si entra meno a contatto e quindi ci si fa anche a botte meno spesso. I razzisti sono più concentrati nelle grandi città come Berlino e Monaco. Io non ho mai cercato di farmi amici stranieri, ma non erano nemmeno il mio nemico numero uno.
E chi erano i tuoi nemici?
La polizia, le autorità e la sinistra. E poi i “buonisti”—le persone che vogliono sempre apparire buone e fare cose buone. Le persone sempre positive che vanno alle manifestazioni contro la destra.
Stai dicendo che i neonazisti non sono mai positivi o felici?
Mostrarsi positivo o dare l’impressione di essere una bella persona non sono comportamenti incoraggiati. Tendi ad allontanarti dalle altre persone e ad avere una visione molto negativa del mondo. Dopotutto noi odiavamo gli altri perché avevano delle idee diverse dalle nostre. Non è stato un periodo felice della mia vita, ero molto frustrata.
Il tuo primo ragazzo era anche lui un neonazista?
Sì. L’ho conosciuto a 14 anni. Eravamo a un concerto ed eravamo tutti e due ubriachi. Come puoi immaginare i neonazisti non sono proprio le persone più romantiche del mondo. Una volta un tizio mi ha invitata a casa sua chiedendomi se volessi “salire a vedere la sua collezione di svastiche.” Un approccio da dimenticare persino per un nazista.
Tu alla fine sei riuscita a uscire da quell’ambiente. Come hai fatto?
Ci sono voluti anni. Ho iniziato a prendere le distanze quando ho incontrato mio marito Felix. Abbiamo cominciato a parlare di cose di cui nessuno parlava mai: il modo in cui venivano trattate le donne, lo stile di vita dei nazisti, le cose che facevano. Lui viveva a Dortmund e all’epoca era stato cacciato dal suo gruppo perché frequentava nazisti “di sinistra.”
In che senso “nazisti di sinistra”?
Ovviamente sono comunque di estrema destra. Ma una volta che inizi a mettere qualcosa in discussione o a criticare Hitler—cosa assolutamente proibita—vieni considerato un traditore. È molto facile diventare un nemico della comunità.
Uscire dall’organizzazione è un conto, ma come hai fatto a liberarti dei condizionamenti?
Ho dovuto fare tutto a piccoli passi. Quando ho iniziato ad avere dubbi sull’ideologia ho cominciato a provare imbarazzo per l’ambiente di cui facevo parte. Io e Felix ci siamo trasferiti a Monaco di Baviera, in un quartiere molto multiculturale, dove i nostri vicini erano stranieri ed erano molto amichevoli. Ma ci è voluto ben di più per riuscire a liberarmi da quella mentalità. Ci è voluto del tempo prima che di riuscire a vedere il negazionismo in modo critico.
Quando hai scoperto che l’Olocausto era vero?
Più o meno a 19 anni. Ho dovuto rivedere completamente tutto quello che sapevo sulla storia e ammettere con me stessa che fin lì mi ero sbagliata.
Secondo te, perché non capita più spesso che qualcuno se ne vada?
Perché andarsene vuol dire mettere in discussione te stesso e tutto quello che hai fatto nella vita. L’ideologia è una grossa parte di quello che sei. Molte persone non pensano che potranno rientrare nella società, che saranno mai accettate o aiutate. Devi ricominciare da capo, e ovviamente è molto difficile.
Ti aspetti di subire ritorsioni dal gruppo da cui sei uscita?
Sì, è una conseguenza naturale dell’andarsene. Di recente qualcuno ha disegnato una grossa svastica sul muro di una stazione vicino casa, scrivendo “ti prenderemo.”
Adesso ti senti pienamente parte della società?
Sei mesi fa è nato mio figlio e da poco sono diventata un’insegnante. Sinceramente avevo dubbi sul fatto di scegliere proprio questa carriera, visti i miei trascorsi. Ma so anche che non sono mio padre e che ho una diversa consapevolezza di come si educa un figlio. E sì, adesso mi sento davvero parte della società.