Quando mi fermo a pensare ai miei anni a Bologna, sono due le cose principali che mi vengono in mente. Per primi i treni che fanno di me, troppo vicina per essere fuorisede ma troppo lontana per vivere la città appieno, una delle tante pendolari. E poi i discorsi filosofici su cose assolutamente frivole, come il significato di mangiare un panino non ottimo, che in quanto tale potrebbe intaccare il normale proseguimento dell’esistenza e provocare ancor più dolore in quell’individuo affetto da una sindrome da emo 2.0 come la gran parte degli studenti di Lettere a Bologna.
È in questa facoltà che ho trascorso tre anni della mia vita, nell’ateneo che da tempo viene inserito tra i migliori d’Italia. Nella sua classifica 2015-2016, per esempio, il Censis gli assegna il primo posto tra i mega atenei statali (ovvero quelli che superano i 40.000 iscritti) basandosi su parametri come servizi, borse di studio e internazionalizzazione, mentre il Sole 24 ore la piazza al terzo posto della graduatoria generale insieme al Politecnico di Milano.
Non che quando ci sono finita fossi propriamente al corrente di tali punteggi, ovviamente. Appena uscita dall’aula in cui avevo tenuto l’orale della maturità, il mio futuro mi sembrava già scritto, ben chiaro e già stagliato davanti a me: Facoltà di Architettura. D’altronde avendo passato i tre anni precedenti a disegnare case e a inventarmi forme assurde di tetti e lampioni, mi sembrava la scelta più ragionata possibile. Quella della città dove studiare invece non è stata davvero una scelta: abito in provincia di Bologna, ho frequentato il liceo a Bologna e non mi sono neanche mai posta il problema; che fosse stata ingegneria, chimica o teatro, l’ateneo sarebbe stato quello bolognese.
Videos by VICE
Durante l’estate però iniziarono a sorgere i primi dubbi su Architettura, dubbi che avevo represso e ricacciato in fondo alla coscienza durante tutti gli anni di liceo: a me non fregava un cazzo di costruire case e studiare tubature. Ciò che mi piaceva davvero era scrivere—da “grande” avrei voluto occuparmi di attualità, ma soprattutto volevo evitare un test d’ingresso e quindi liberarmi dai libri nella prima estate davvero libera della mia vita. Così, con un gran colpo di scena, la mia scelta si spostò verso Lettere.
Non avevo grosse aspettative, a dire il vero, per il semplice motivo che tutte le aspettative possibili erano brutalmente schiacciate dalle preoccupazioni. Ero rimasta affascinata da ciò che avevo dovuto inserire nel piano di studi, grazie soprattutto a quell’alone di mistero intorno a materie come filologia romanza e linguistica generale. Al contempo ero cosciente del fatto che, purtroppo, avevo enormi lacune—e per quanto mi convincessi che avrei potuto superarle, riuscirono a prendere il sopravvento: a lezione duecento ragazzi rispondevano in coro alle domande dei professori mentre io non capivo nemmeno il significato dei quesiti.
Lentamente iniziai a chiedermi se quello fosse davvero il mio posto, fino a che non decisi di andare a lavorare. Forse studiare non faceva per me. Dell’anno successivo non c’è da dire molto: dopo aver lavato piatti e servito pizze a uomini attempati cambiai di nuovo idea e decisi che sarebbe stato molto meglio sgobbare su un libro. Andava bene anche Panofsky piuttosto che il tunnel carpale.
Da allora ho ripreso a dare esami e mi sono laureata, superando le due prove di latino impostate da Traina e Dionigi (che fortunatamente all’epoca era rettore) e studiando nelle stesse aule di Pascoli e Pasolini—anche se avrei preferito potermi sedere almeno al 50 percento delle lezioni che ho frequentato. Perciò mi viene in mente più di un motivo per cui l’Alma Mater stia ai primi posti delle classifiche. Una delle cose che bisogna riconoscere all’Università di Bologna, infatti, è il saper gestire più che dignitosamente un numero elevatissimo di studenti (compreso il boom di iscrizioni di quest’anno).
Secondo la classifica del Censis, Bologna è al primo posto tra i mega atenei per la spesa per interventi a favore degli studenti, come nel caso delle borse di studio. Io la chiesi il primo anno per reddito e me la diedero, e fino al cambiamento di requisiti di quest’anno—che ha tagliato fuori dalle fasce più basse molte persone—il sistema delle tasse era equo. In più c’è la possibilità di svolgere dei servizi retribuiti, come 150 ore di lavoro nelle biblioteche dell’Università. So che possibilità del genere non sono un’eccezione nel sistema universitario italiano, ma il fatto che la burocrazia non costituisse l’ostacolo che rappresenta altrove le rendevano molto più accessibili.
Dato che non credo che dei numeri impaginati su un foglio Excel possano davvero trasmettere il senso di questi anni, però, va detto che fare l’università a Bologna, come e più di altre città, significa fare la vita da studente. Ed è così che, fin dai primi giorni di pendolare, capii che la mia esistenza di studentessa bolognese non sarebbe mai stata completa: lo studente a Bologna è essenzialmente uno studente fuorisede. Io mi piazzavo all’esterno di questa categoria fichissima di giovani appena liberati dall’influsso genitoriale, spesso riempiti di quattrini dagli stessi genitori preoccupati e che, anche se avessero dovuto vivere in case fredde e mangiare cibo in scatola, avrebbero vissuto la vita universitaria 24 ore al giorno. La vita universitaria il pendolare finisce sempre per viverla a metà: arriva in città alle otto, quando tutti gli altri ancora dormono sonni profondi, costretto a ripartire alle 22 (ultimo treno), quando i fuorisede si riversano per le strade di Bologna.
Bologna infatti è città universitaria, in cui tutto è fatto a misura di studente; tant’è che quando i fuorisede migrano verso le cene di natale e i soggiorni al mare si spegne, i locali chiudono e non c’è più niente da fare. Ma la misura per studente emerge nelle dimensioni—anche se abiti fuori dalle mura puoi comunque andare a lezione a piedi o magari con la bici che ti ruberanno dopo due mesi (a tutti i bolognesi è stata rubata almeno una bici, e tutti i bolognesi hanno incolpato almeno una volta i punkabbestia che vendono bici rubate in piazza Verdi). Metà delle attività commerciali sono per gli studenti: ristoranti, take away, copisterie, librerie, birrerie. Anche per andare in bagno a Lettere serve essere studenti provvisti di badge, e se non ce l’hai non entri. Si narra, con toni quasi da leggenda metropolitana, che durante un’occupazione (la sede di via Zamboni 38 è quasi sempre occupata) un ragazzo assunse non si sa quale droga e morì. Da quel momento per morire in bagno ti serve il badge dell’università.
Nonostante si possa dire che Bologna accolga gli studenti, però, basa davvero troppo la sua economia su di loro—arrivando quasi a “sfruttarli”, come nell’annosa questione degli affitti, e ad additarli come causa di degrado e insicurezza nella città. Ma il fuorisede di oggi, come Bologna del resto, non è più lo stesso. Oggi le due categorie più individuabili, se proprio le si vogliono individuare, sono l’antagonista e il radical chic. Tutte le iniziative e gli eventi che si svolgono in città possono essere iscritte in questo paradigma: la casa occupata che organizza il mercatino a km zero nella prima, la bakery libreria con i tavoli color pastello che organizza una lettura di poesie seguita da dj set, nella seconda. E tutto questo piace tantissimo allo studente universitario: quando ha abbastanza soldi va al brunch radical chic, quando non ne ha compra la birra dai pachi e se la beve seduto in piazza Verdi, dove tra l’altro si trova la sede della mia attuale magistrale in Storia.
Dopo i tre anni, infatti, ho deciso di proseguire, affascinata da ciò che mi aveva insegnato e lasciato il percorso di studi fino a quel momento. Non so se l’università di Bologna sia la migliore in assoluto. Per dirlo con certezza avrei dovuto frequentare e confrontare tutte le università in graduatoria. Il fatto che ci siano altre statistiche che descrivono i laureati bolognesi come i “più precari” d’Italia, del resto, potrebbe non farmi essere così positiva.
Segui Tommaso su Twitter.
Segui la nuova pagina Facebook di VICE Italia: