Música

I mondi paralleli di Holly Herndon


Illustrazione di Dessie Jackson. Clicca qui per vederla in alta definizione.

Busso alla porta, mi apre Holly Herndon.

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Il primo impatto è difficile da descrivere. Holly mi saluta, ma poi c’è un attimo di imbarazzo—sta lì, sulla soglia del suo piccolo appartamento di San Francisco, a scrutarmi. Per qualche breve istante c’è un silenzio tra di noi in cui ci stiamo a guardare, ci decodifichiamo. Sì, Herndon è dolce, affabile, ha due enormi occhi azzurri e una risata adorabile. Sì, il suo sorriso è accogliente e caldo, mi rassicura come solo i sorrisi perfetti delle pubblicità sanno fare. C’è da dire che ha invitato a casa sua un perfetto sconosciuto dopo non più di un paio di mail, per non parlare del fatto che càpito nel bel mezzo di un pasto che lei e il suo partner Mat Dryhurst, stanno preparando per i loro ospiti. Il fumo arriva fino al corridoio.

E in questo attimo, che dura solo qualche secondo, percepisco un senso di attenzione, di opacità—entrambi elementi presenti nelle composizioni di Herndon. In Movement, il suo caleidoscopico debutto del 2012, questo fumo invadeva parecchie tracce. E rimane, forse in maniera più puntuale, su Platform, uscito poco fa per 4AD. Nel suo appartamento, nel modo in cui mi accoglie, nella sua felpa nera, nella grossa treccia che le riposa su una spalla, c’è questa stessa sensazione. Poi Holly mi trascina in una conversazione bizzarra su un rituale di danza chiamato “clogging.”

“C’è questo posto in Virginia,” mi racconta, mentre si siede al tavolo in cucina. “Mentre suonano musica country e bluegrass, la gente del posto a un certo punto si alza e improvvisa questa danza chiamata clogging. Il pubblico diviene la sezione ritmica della band, è assurdo.”

È simile al tip-tap, mi spiega, ma su ritmiche country—il tipo di musica con cui Holly è cresciuta nella sua città natale, Johnson City, nel Tennessee. Il Clogging è nato alla fine degli anni Venti nel North Carolina e da qualche parte negli Stati Uniti del Sud è ancora in voga. Guardare gente che lo pratica è un’esperienza esuberante, bizzarra, fuori dalle righe. Agli antipodi delle reazioni che un ascoltatore potrebbe avere alla musica di Herndon.

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“Non è un ballo casuale come quello che vedi ai concerti normali,” mi dice, allargando il sorriso. “Questa gente si muove in modo fuori di testa, e tra loro riconosci alcuni che sono tipo le superstar.”

“Ti ricordi quel ragazzino?” urla a Dryhurst, che intanto è in cucina a fumare una sigaretta elettronica e a preparare il pranzo “Sicuramente era lui il bullo del posto,” risponde. “Se la cloggava alla grande, poi usciva a fumare una sigaretta e quando tornava cloggava in testa a tutti.”

“C’erano tutti questi turisti e fan del genere che da Washington si erano spostati lì,” mi spiega Dryhurst.

Herndon precisa: “Penso che i veri turisti fossimo noi…” In quel momento i suoi occhi incontrano i miei, poi scorrono verso il mio registratore, poggiato sul tavolo di fronte a lei. “Credi che verrà fuori un racconto biografico?” mi chiede, tornando in guardia un’altra volta. “Per me sarebbe meglio che le cose non fossero tipo c’è questo, poi questo, poi questo poi questo.” La sua mano taglia il palmo dell’altra, creando segmenti immaginari. “Questo è successo in quest’anno, poi questo in quest’altro anno.”

I cronismi, mi spiega, la rendono nervosa.

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E invece eccone uno. Herndon ha iniziato a interagire con la musica più o meno nello stesso momento in cui ha iniziato a camminare. Da bambina suonava la chitarra in chiesa, e cantava in qualche coro. A 16 anni ha lasciato il Tennessee per andare a studiare a Berlino, dove poi è tornata quando aveva 18 anni e un’altra volta dopo il college. Faceva la cameriera e frequentava clubnight, quando non vi lavorava. A un certo punto iniziò a lacorare in una startup che catalogava dati musicali e il suo compito era classificare tracce in base a determinati criteri. A quanto dice, quel lavoro era esattamente annebbiante quanto si può immaginare.

Nel tempo libero, ha iniziato a smanettare con sequencer e collaborare con altri musicisti che stavano viaggiando in territori elettronici mai visto prima. Suonava qua e là, ma non si considerava ancora una musicista full-time.

“Se vogliamo continuare a vederla cronologicamente,” mi racconta, “Questo è il momento in cui vado a Berlino e passo un bel po’ di tempo lì e amplio i miei confini. E poi succede che vado come a sbattere sul mio stesso limite, di quello che posso insegnare a me stessa e delle risorse che posso trovare da sola, quindi decido di andare al Mills College in California.”

Se Berlino, con le sue feste infinite e col suo edonismo senza soluzione di continuità, stava a un capo dello spettro degli stimoli di Herndon, il Mills stava all’altro. Il programma seguito da Herndon e dai suoi compagni di master prevedeva criteri abbastanza rigidi. il primo pezzo composto aveva solo un input e un solo output—”un microfono e uno speaker, o qualcosa del genere. Ogni settimana potevi aggiungere un elemento alla composizione, per renderla più complicata, più sofisticata. Questo procedimento era un buon metodo per superare la concezione che ogni cosa dovesse essere perfetta.” Herndon ha imparato molto dal Mills. Al contempo, però, sentiva ancora uno iato tra quello che ascoltava lì—minimalistica, astratta, destinata a una classe di altri compositori elitari—e quel genere di house sporca che le aveva dato la spinta iniziale. Doveva trovare un terreno di gioco comune.

Movement è proprio questo. Uscito nel novembre del 2012, poco dopo l’inizio del dottorato di Herndon allo Stanford’s Center for Computer Research in Music and Acoustics (CCRMA), mescolava aspetti più accademici della composizione a stralci di ispirazione berlinese. Le sue otto tracce sono ambiziose e ipnotiche, ma c’è anche una forzatura nel loro assemblamento che rivela l’inquietudine di Herndon. “Fade,” per esempio, è la traccia più dritta che aveva in canna—un paesaggio contorto di synth in punta di piedi e vocal purificati che si staglia su una rassicurante cassa dritta. Allo stesso tempo è infilata tra due delle tracce più complesse dell’album, “Terminal” e “Breathe,” entrambe storte e prive di ritmica. La title track, un altro esperimento dance strisciante, casca tra due intermezzi noise frazionari, come se fosse nascosta lì di proposito.

Se ripensa a Movement, Herndon afferma che fosse un esercizio necessario di incontro tra l’accademia e il dancefloor—o almeno buttarli in una determinata prospettiva l’uno sull’altro. Era il passaggio doveroso per arrivare a Platform.

“Era il mio modo per scendere a patti con la volontà di mettere tutte le mie influenze nello stesso universo,” mi racconta. “Ci ho pensato davvero tanto. E poi sono arrivata alla conclusione che fosse legittimo farle convivere in un disco, anche se nella realtà non era possibile un accordo. Almeno lì hanno abitato l’una accanto all’altra.”

Le tre tracce uscite a distanza da Platform—“Chorus,” “Interference,” e “Home”—facevano già presentire un nuovo livello di coesione. Erano brani cervellotici, questo sì, ma anche profondamente contagiosi. Herndon non riusciva a spiegarli in connessione al resto del suo lavoro, anche perché l’album non sarebbe uscito se non molto più tardi, ma era consapevole che fossero il riflesso più potente delle sua sensibilità fino ad allora. Questo, però, non mi diceva molto di più.

“Forse ha senso che ci incontriamo di nuovo in primavera,” mi dice mentre Dryhurst le mette un piatto davanti. “Quando la macchina si sarà mossa un po’ più avanti.”

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Nei due anni e mezzo dopo l’uscita di Movement, Herndon si è avvicinata al cosiddetto mainstream, firmando con la label 4AD, dividendo il palco con St. Vincent, e suonando lavori scritti specificamente per un “sistema di speaker multicanale ambisonico” al Guggenheim Museum di New York. Ma questi successi hanno portato a una domanda: le sue composizioni possono attrarre un pubblico ibrido tra chi ama la dance e chi invece sta più sul lato sperimentale senza risultare alienante per entrambi? Possono attrarre un nuovo tipo di audience? Quali saranno gli effetti delle policy di una major sul suo sound? E, forse ancora più importante, qual è la nicchia biologica nell’ecosistema della musica moderna di una ragazza nata in Tennessee, ossessionata da Berlino e laureata a Standford?

Le risposte si possono tutte ricavare da Platform, anche se non si tratta di una conclusione a cuor leggero. Gli appigli sono più facili da identificare e meno sfuggenti, ma i saliscendi sperimentali di Herndon sono ancora più audaci di quelli di Movement. Tracce come “Interference,” una cavalcata singhiozzante e propulsiva, si innestano senza problemi in altre come “Chorus” o “An Exit,” le cui melodie, accompagnate dai vocalizzi ariosi di Herndon, sono velate. “Morning Sun,” che sta circa a metà dell’album, è il pezzo più “facile” del disco, tocca linee di synth più canoniche che ricordano quelle di Yeasayer e Sufjan Stevens. Altre come “Unequal”—uno slalom sintetico tra voci umane e voci digitali—sembrano ripercorrere lo stesso dilemma da cui Herndon stava svicolando in Movement: in che punto si trova l’intersezione tra noi e le nostre macchine?

Questa domanda potrebbe fungere da filo conduttore nella comprensione di Platform. La differenza principale, a sto giro, è che Herndon si è valsa di alcune collaborazioni per trovare il bandolo della matassa. Oltre all’artista di Los Angeles Spencer Longo, che l’ha aiutata a comporre la traccia parlata “Locker Leak,” ha coinvolto i vocalist Amanda DeBoer, Colin Self, e Stef Caers, e l’artista sonora Claire Tolan. Tolan, specializzata in risposta autonoma del meridiano sensoriale, una specie di terapia basata sul suono collettivo, è la responsabile della rassicurante voce che sussurra in “Lonely at the Top,” un mantra accusatorio nei confronti della cultura di autoaffermazione e autocompiacimento dei milionari.

I partner principali di Herndon, però, sono Vinca Kruk e Daniel van der Velden, co-fondatori del gruppo di design radicale olandese Metaheaven. Lavorando con Herndon e Dryhurst, hanno creato la cover art dell’album e prodotto due dei video musicali, sono anche stati consulenti creativi tout court. All’inizio del 2014, quando Herndon stava iniziando ad assemblare i frammenti sonori che poi sarebbero germogliati in Platform, chiamò Kruk e van der Velden e chiese loro di creare call.hollyherndon.com, un sito che ospitasse una collezione di meme interattivi. Quando gli utenti fossero passati sulle immagini di Herndon, avrebbero sentito teaser abbozzati delle sue idee.

“Sviluppare un approccio estetico per la presenza e la persona artistica di Holly, che è in continua mutazione, è super interessante,” racconta van der Velden. “C’è qualcosa di magico nella sua musica che non è immediato… è poetico, è doloroso, è frammentario, ma è anche un solo mondo.”

Platform, come prevedibile, non è un disco facile; ma probabilmente è uno degli album migliori di musica elettronica che sentiremo in tutto il 2015. Herndon ha creato un’esperienza accessibile a un livello profondo, un esperimento coinvolgente, che dà assuefazione. Ha creato un mondo parallelo con il semplice gesto di lasciar vivere in doppia linea le proprie idiosincrasie, sfruttando il problema iniziale come leva per rendere intenso il suo lavoro. Queste qualità, che la sensibilità pop avrebbe spinto per recidere, sono invece state utilizzate come perno per creare un album che vive bene entrambe le sue nature, quella cervellotica e barocca e quella clubber o più vezzosa. Un album che arranca spasmodicamente verso un certo panorama e poi, un momento dopo, va nella direzione opposta. Un album che somiglia molto a chi lo ha creato.

“Il mio ruolo è comunicare con la mia audience,” mi racconta Holly qualche mese dopo il nostro primo incontro. “E non sarei in grado di farlo se mettessi una specie di muraglia tra me e il mio pubblico e lo invitassi a scalarla. A me non interessa questo modo di procedere, preferisco offrire alcune porte d’ingresso.”

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San Francisco, racconta Herndon, è un posto difficile da chiamare casa, per un artista. Herndon non esce molto, non va nei club, passa il tempo più facendo ricerca e componendo che esibendosi. Anche se le vengono offerte opportunità lavorative importanti, in àmbito accademico—in particolare a Stanford, in cui lo scorso inverno ha tenuto un corso intitolato “Estetiche della Musica Elettronica Sperimentale dagli anni Ottanta ad oggi”—non vede la città come un incubatore musicale della portata di New York o Berlino. Troppi soldi e non abbastanza supporto.

A marzo, quando ha suonato al Noisey Pop festival di San Francisco, il suo set era una lente di ingrandimento sull’ambivalenza della sua persona. Posizionata in un angolo di The Lab, uno spazio minimale nel Mission District, se ne stava incurvata sul suo laptop mentre alcune telecamere a circuito chiuso scrutavano la folla. Lo show era più che altro un confronto—una sovversione del concetto stesso di performance. Ribaltava il punto di vista dello spettatore, obbligato a guardare se stesso e gli altri anziché l’artista, mentre la musica di Herndon faceva da collante sonoro sulle teste di tutti.

Questo modo di praticare l’incertezza forse sarà sempre più difficile da mantenere per Herndon ora che il suo nome sta facendo il giro del mondo e le sue creazioni ottengono sempre più riconoscimenti, anche dal mercato “mainstream”. “Ci sono persone che mi hanno visto svilupparmi dai tempi del noise,” racconta. “Penso che a volte, specialmente nella community noise, può essere difficile accettare che uno esca da una certa cerchia e si allarghi verso territori diversi, che magari altri non avrebbero scelto per se stessi.”

“Non devi fare i conti con tutto questo quando non sei a casa tua, però.”

Ma dato che in questo istante è a casa, forse Holly si sta godendo anche un po’ di frutti del proprio lavoro. Va a prendere una scatola di caramelle giapponesi, impacchettate una ad una, mi dice che le ha prese in un tour che l’ha portata a Tokyo, e che non ha assolutamente idea di cosa ci sia in quelle caramelle. Ma insiste che proviamo a mangiarne qualcuna prima che io finisca l’intervista. Mi porge un po’ di caramelle e poi aspetta. Un altro momento di pausa.

“Quindi,” dice. “Ne vuoi un pacchetto?”