Il miglior cioccolato al mondo lo fa un italiano. Beh, detto così sembra una sballonata da Youtuber gastronomico, ma forse è la verità.
L’affascinante fiorentino Claudio Corallo, classe 1951, vive in Africa da più di quarant’anniVideos by VICE
e ormai per lui coltivare, fermentare, tostare e trasformare in tavoletta il suo cacao è diventato bello e naturale come fare all’amore.
“La qualità del mio cioccolato inizia in piantagione. Le piante sono sempre areate, se le loro foglie sono ferme la piantagione stessa è morta. “
In Zaire prima e nell’arcipelago di São Tomé e Príncipe poi, la sua storia è incredibile: non solo cioccolato da frenesia ma anche bracconieri con mitragliatrici, battelli che risalgono nel pericoloso Canale del Congo, coccodrilli, carne d’elefante e sciroppi di grenadine, lingue tribali, banconote fatte di saponette e un segreto difficile da digerire per noi comuni mortali: il vero cioccolato 100% non è assolutamente amaro. Scioccante, vero? Finora non ci hanno insegnato che il cioccolato, più è “nero e fondente”, più è amaro? Cominciamo dall’inizio, il vero cacao è roba per gente seria.
Grazie all’amico fotografo Alessandro Sala – che da anni lavora nel gruppo Cesura e fa delle foto da urlo pupillare e irideo – il servizio è completo. Nato brianzolo e acquisito piacentino, Alessandro è andato in Africa da Claudio Corallo per esigenze di lavoro ma i motivi veri erano altri: “Io amo la foresta, il selvaggio e gli alberi mastodontici, fin da quando andai in Amazzonia per seguire l’Italia ai Mondiali del Brasile nel 2014.”
“Lì ho raccontato con le immagini le città di Natal e Manaus e il rapporto della foresta con un progetto di eco-turismo responsabile. Poi ho avuto la possibilità di andare anche da Claudio Corallo a São Tomé e di assaggiare il cioccolato per la prima volta nella mia vita”.
Claudio Corallo è invece un essere mitologico, tra Willy Wonka e Klaus Kinski in Fitzcarraldo, un signore di quasi settant’anni dall’ancora spiccato accento di Firenze nonostante abbia vissuto esattamente 44 anni in Africa. Dopo essersi specializzato all’Istituto Agronomico per l’Oltremare nella città di Dante e Carlo Collodi, scappa dall’Italia e raggiunge lo Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo) in Africa, dove per ben un anno gira tra i villaggi persi nella foresta del Sud dell’Equatore per studiare l’agricoltura semi-itinerante. Lavora poi tre anni come broker di caffè (acquisto, trasformazione ed esportazione) dividendo il suo tempo tra varie piantagioni sparse per il Paese e Kinshasa, e da lì avvia la sua piantagione.
Secondo te perché hanno aggiunto il latte al cacao? Per rendere dolce e fasullo il sapore vero...
Corallo è un figo di prima categoria perché con le sue piantagioni di caffè nello Zaire ha creato uno Stato nello Stato: 1250 ettari di coltivato, con una struttura matematica a tre numeri per capire la posizione esatta di ogni singola pianta, come una battaglia navale al sapore caffeino. Per fare un esempio, lui riusciva a risalire a una precisa pianta di caffè e al suo raccoglitore nello stesso modo in cui si rintraccia una pianta d’ulivo singola in tutta la Toscana. Un eroe trigonometrico al servizio del commercio del caffè mondiale. Per aggirare poi la svalutazione della moneta dello Zaire ha creato anche una gerarchia lavorativa all’interno, con una moneta autonoma e originale (1 sapone di Marsiglia da 200g = unità di scambio) che veniva utilizzata nelle zone limitrofe alle piantagione come vera valuta.
“Fui preso dai bracconieri di elefante a scopo d’estorsione, era intorno al 1985. Questi simpatici signori avevano appena ammazzato quattro persone a Lomela e in quei giorni gironzolavano intorno alle mie piantagioni per fregare i miei coltivatori, giocando e barando a carte. Beh, alla fine mi ritrovai con mitragliatrice al naso dalle 7 del mattino alle 13, volevano soldi. Il capo era drogato e cattivo, ma io ebbi la lucidità di offrirgli dello sciroppo di grenadine (melograno) e lui della carne di elefante. Facemmo pace e mi lasciarono stare, anche perché io ero il ‘bambino del villaggio’, amato dalla gente locale e quindi quasi intoccabile”.
Con la guerra in Zaire, Corallo scappa a São Tomé e Príncipe, nonostante avesse già in tasca un lavoro assicurato in Bolivia, e lì scopre il cacao e inizia a organizzare la piantagione come quella del caffè. Ora qua ha una struttura ben organizzata: cioccolateria, uffici e laboratorio sono sull’isola di São Tomé, con la piantagione Nova Moka che produce caffè all’interno; sull’altra isola di Príncipe c’è la piantagione Terreiro Velho, una zona tecnica in cui il cacao viene selezionato, lavorato, essiccato e spedito a São Tomé per essere quindi tostato e sbucciato.
“La qualità del mio cioccolato inizia in piantagione. Le piante sono sempre areate, se le loro foglie sono ferme la piantagione stessa è morta. Il cacao è inserito nel contesto, non è un cancro da agricoltura intensiva ma una fusione naturale. Non mi piacciono i conquistadores, è una questione di rispetto per chi ci abita e ci lavora.”
Corallo continua: “Tutti qui in Africa vendono i semi a chilo alle grandi compagnie del cioccolato, mentre io ho deciso di seguire la produzione dalla terra alla tavoletta finita. Se non si controlla in loco il seme, non va bene. I semi che si trovano in giro sono amari, sono cadaveri: i difetti emergono dalla sbagliata raccolta del frutto (non maturo o troppo maturo), oppure perché viene lavorato, fermentato, essiccato o tostato malamente. Anche un’umidità non controllata può dare il colpo d’amarezza al cioccolato. Il cacao riservato alle grandi aziende sono fatti crescere con incuria e poi ‘rassettati’ con la trasformazione del gusto in laboratorio. Le multinazionali del cacao hanno fatto passare i difetti come pregi, lavorando fave di pessima qualità e ‘ritoccate’ con aromi e giochini industriali nella produzione. Peggiore infatti è la qualità delle fave, più grande deve essere l’intervento tecnologico per renderle ‘commestibili’. Secondo te perché hanno aggiunto il latte al cacao? Per rendere dolce e fasullo il sapore vero... Si sono inventati il cioccolato bianco, quello al latte, appunto, quello aromatizzato al mango, alla fragola, alla rosa, perfino al bacon…” Al binomio cioccolato e bacon ho avuto un fremito al pancino.
Le tavolette di Corallo, che possiedono pure un QR Code per la tracciabilità di ogni singola raccolta, sprizzano invece un sapore endemico, quasi di foresta tropicale: lo zucchero, lo zenzero e gli altri prodotti che usa nelle sue creazioni dolciarie arrivano dagli stessi luoghi da cui provengono il cacao e il caffè. Una filiera del gusto e un’esperienza che pochi possiedono nel mondo.
Assaggiato tra i 26 e i 30°C il suo cioccolato puro induce a leccare le farfalle nella pancia, è un cataclisma d’endorfine stimolate dalla mia droga preferita, la teobromina. È riuscito, con un piccolo chicco avvolto al cioccolato, a farmi pure amare il caffè. Come Alessandro per il cioccolato.
Il mondo di Claudio Corallo ha un valore evangelico e catartico: risveglia le coscienze dalla merda cioccolatosa che abbiamo ingerito finora. I suoi prodotti raccontano il lavoro su di un ingrediente che ha sconvolto il pianeta durante il colonialismo, il cacao portatore di morte e schiavitù, ma che ora, lavorato in questo modo sostenibile e amorevole, appare invece come una rivincita allo scempio occidentale nei confronti degli abitanti delle zone di produzione tropicale e subtropicale.
Claudio Corallo sa 6 lingue, è simpatico, ha creato dal nulla un impero del gusto, zitto zitto senza tirarsela o facendo proclami su Facebook. Come facciamo noi italiani a lamentarci ancora quando il miglior cioccolato al mondo lo fa proprio un italiano?