È la mattina di sabato 27 ottobre 2018 quando il 46enne Robert Bowers si connette su Gab—il social network usato dagli estremisti di destra americani—e scrive questo status: “All’HIAS [Hebrew Immigrant Aid Society, un’associazione nata nel 1881 che aiuta i migranti] piace portare qui invasori che ci uccidono. Non posso starmene con le mani in mano mentre la nostra gente viene massacrata. Pensate quel che volete, io vado.”
Due ore dopo, l’uomo entra nella sinagoga “Tree of Life” di Pittsburgh armato di fucile AR-15 e due pistole. Urla “tutti gli ebrei devono morire” e apre il fuoco. Perdono la vita undici persone, mentre sei rimangono ferite; di queste ultime, quattro sono agenti di polizia. Wendell Hissrich, responsabile della sicurezza pubblica della città, dice in una conferenza stampa che “è una scena del crimine davvero orrenda. Una delle peggiori che ho visto, e ho avuto a che fare con disastri aerei.”
Videos by VICE
Non appena viene catturato dalle forze dell’ordine, l’attentatore spiega i motivi che l’hanno spinto ad agire: pensava di dover fermare gli ebrei dal “compiere un genocidio” ai danni della “razza bianca.” Oltre a essere un feroce antisemita e un complottista, Bowers era immerso nel mondo del suprematismo bianco. E in quell’ambiente, sono in molti a credere fermamente che sia in corso un vero e proprio “sterminio razziale”—un “genocidio dei bianchi” (white genocide), per l’appunto.
Secondo questa teoria del complotto, i grandi cambiamenti demografici e sociali che interessano gli Stati Uniti e molti altri paesi—come l’immigrazione, i matrimoni misti, il multiculturalismo, il liberalismo e il femminismo, solo per citarne alcuni—fanno in realtà parte di un piano segreto per annientare la razza bianca.
Per quanto possa sembrare assurda, una simile fantasia non va assolutamente sottovalutata. Come fanno tutte le altre teorie del complotto, “parte da problemi reali ma ingigantisce dettagli, ne dà interpretazioni distorte e addita capri espiatori, dunque distoglie dal lavoro per risolvere i problemi reali.”
È proprio questa sua caratteristica ad averla resa sorprendentemente persistente: nel corso di svariati decenni è rimbalzata su entrambe le sponde dell’Atlantico (e anche oltre) arricchendosi di nuove varianti e declinazioni; ha tratto profitto dall’evoluzione dei mass media, esplodendo con l’avvento di Internet e dei social network; e, come nel caso di Pittsburgh, ha lasciato dietro di sé una scia di sangue e devastazione.
Tuttavia, la convinzione che la “razza bianca” sia sotto attacco—o in via di estinzione forzata—non è circoscritta alle frange della destra più estrema e radicale: sempre più partiti e leader di quella “istituzionale” (nuova e vecchia) l’hanno adottata più o meno apertamente.
Ma dove e quando è nato tutto questo? Qual è stata la sua progressione? E perché fa così tanta presa nel mondo occidentale, Italia compresa?
ROMANZI DISTOPICI E TERRORISTI RAZZISTI: LE ORIGINI STATUNITENSI DEL MITO
Per iniziare a rispondere bisogna andare negli anni Settanta, quando compaiono i primi riferimenti al “genocidio dei bianchi.”
Su White Power, rivista ufficiale del National Socialist White’s People Party, nel 1972 viene pubblicato un pezzo che si intitola “Over-Population Myth Is Cover for White Genocide” (“Il mito della sovrappopolazione è una copertura per il genocidio dei bianchi”). L’articolo accusa le “campagne per il controllo delle nascite” di focalizzarsi solo sui bianchi e di non intaccare il resto del mondo non bianco, con l’esito di condannare alla scomparsa i primi.
Alla fine del decennio, la paura della “contaminazione razziale” e dell’“eliminazione dei bianchi”—già profondamente radicata negli ambienti razzisti e suprematisti statunitensi—forma il nucleo di un romanzo molto particolare: The Turner Diaries, tradotto in Italia con La seconda guerra civile americana.
Scritto e auto-pubblicato nel 1978 da William Luther Pierce, fondatore del partito neonazista National Alliance, il libro è una distopia razzista ambientata negli anni Novanta. La trama è questa: un gruppo di nazionalisti bianchi, riuniti sotto il nome The Order e guidati dal protagonista Earl Turner, rovescia il governo statunitense (controllato da “minoranze etniche” ed “ebrei”) a forza di attacchi terroristici e provoca una guerra atomica planetaria—da cui, ovviamente, i bianchi escono vincitori.
Secondo il ricercatore J. M. Berger, autore di un lungo paper sull’eredità di questo romanzo “di culto,” I diari di Turner si trasformano velocemente in una vera e propria bibbia per terroristi bianchi. Il caso più eclatante è quello di Timothy McVeigh: nel 1995, ispirato dalle imprese di Earl Turner, l’estremista e un suo complice piazzano un’autobomba in un palazzo federale di Oklahoma City e uccidono 168 persone. Prima di lui, all’inizio degli anni Ottanta, un pugno di neonazisti sparge il terrore negli Stati Uniti rifacendosi direttamente al libro, dal nome scelto per la cellula (“The Order”) fino alle tattiche d’azione.
In poco più di dodici mesi, dal 1983 al 1984, il gruppo mette a segno diverse rapine che fruttano milioni di dollari (soldi poi distribuiti a leader suprematisti e mai recuperati), mette bombe in teatri e sinagoghe, e uccide Alan Berg—un conduttore radiofonico che, stando al militante Denver Parmenter, aveva l’imperdonabile colpa di essere “anti-bianco e giudeo.”
Tra i membri di The Order ne spicca uno in particolare: David Lane. Prima di aderire al gruppo, aveva militato nella John Birch Society, nel Ku Klux Klan e nella Nazione Ariana (Aryan Nations). Arrestato nel 1985 e condannato a 190 anni di reclusione per una sfilza di reati, una volta in carcere Lane si immerge nei libri di storia, filosofia e religione misterica e si riscopre un prolifico scrittore.
In un primo momento pubblica i suoi testi su riviste legate all’Identità Cristiana. Nel 1986, in un pezzo intitolato “Identity: Under This Sign You Shall Conquer” e distribuito in un congresso della Nazione Ariana, il suo principale obiettivo polemico è la Chiesa cattolica, incapace di difendere le “prerogative razziali dei bianchi”. Nello stesso testo Lane arriva a dire che Gesù Cristo era ariano (uno dei punti fondanti della dottrina del “cristianesimo positivo” nazista) e accusa gli ebrei di diffondere “omosessualità, pornografia, aborto, meticciato e comunismo.”
In seguito il neonazista abbandona il cristianesimo e si rifà al movimento Völkisch. Ovvero a quella corrente nazional-patriottica, sorta in Germania a cavallo tra l’800 e l’inizio del ‘900, che mescolava misticismo naturistico, culto del sole, teosofia, neo-romanticismo, razzismo pseudo-scientifico e antisemitismo. Come ha ricostruito lo storico George Mosse in Le origini culturali del Terzo Reich, gran parte di questa ideologia—inclusi gli uomini che la propagavano—confluì nel nazionalsocialismo.
Lane si converte all’Odinismo, un culto neo-pagano che reputa molto più adatto del cristianesimo a instillare nella “razza bianca” un “ethos guerriero,” e fonda addirittura una religione (il “Wotanismo”). Inoltre, assume tratti sempre più messianici: si convince di essere una specie di profeta che ha il dovere sacro di “raccontare l’assoluta e pura verità” e di condurre “l’Ariano” alla vittoria finale contro gli ebrei.
A partire dalla fine degli anni ’80, la sua produzione si concentra esclusivamente su questo. Lane conia lo slogan delle “14 parole” (“Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi”), che tutt’ora è un mantra usato dall’estrema destra di tutto il mondo; e cerca di “educare” i suoi seguaci con gli “88 precetti” (il numero che, nella terminologia neonazista, significa “Heil Hitler”) e numerosi sermoni.
Uno dei più famigerati è il “Manifesto del genocidio dei bianchi” (White Genocide Manifesto). In esso, Lane sostiene che i governi occidentali sono infiltrati dalla “cospirazione sionista” che punta a “imbastardire, sopraffare e sterminare la razza Bianca.” Anche l’aborto, i programmi di inclusione delle minoranze (l’affirmative action) e gli “sport multi-razziali” fanno parte del complotto perché contribuiscono “a diluire il senso di unicità e i valori necessari alla sopravvivenza della nostra razza.” Dopo aver compilato questa lista di “crimini,” Lane ritiene che l’unica salvezza stia nel cosiddetto “separatismo bianco”—che consiste nella creazione di etno-stati “esclusivamente Bianchi.”
Come ricorda Kevan Feshami in un lungo articolo apparso su Lapham’s Quarterly, il “manifesto” è stato scritto in un periodo di forte disoccupazione causata dal crollo dell’industria manifatturiera americana. Questa contingenza socio-economica porta Lane a esprimere ripetute critiche al capitalismo: nel pezzo “Revolution by Number 14,” ad esempio, lo descrive come una “stupida ricerca di soldi e piacere mentre la razza muore.” Feshami nota che l’enfasi su “anticapitalismo, natura e paganesimo anti-cristiano” separa le idee di Lane da quelle del vecchio suprematismo bianco, tendenzialmente a favore del capitalismo e protestante. L’altra grande differenza è che il militante di The Order vede il nazionalismo come un ostacolo al consolidamento della “grande Famiglia Bianca che si trova in Europa e in America, e ovunque sia sparso il nostro Volk.”
Gli slogan di Lane, che conoscono una grande diffusione attraverso i primi forum su Internet, definiscono così i contorni di “una nuova identità pan-ariana basata su razza e civiltà, capace di superare i confini nazionali.” E quello che succede dopo la sua morte—avvenuta il 28 maggio 2007 nel carcere federale di Terre Haute per cause naturali—è una plastica rappresentazione dell’appeal mondiale delle sue teorie. Il 30 giugno dello stesso anno, infatti, si svolgono manifestazioni in suo onore negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania, Russia e Ucraina (dove più di cento persone marciano a Kiev fino all’ambasciata americana).
Pur rimanendo ancorato all’estrema destra, Lane ne ha incarnato un’avanguardia concettuale per aver posto al centro delle proprie riflessioni il declino demografico, l’aumento dei flussi migratori e l’impoverimento della classe lavoratrice. Fattori che, secondo lui, portano fatalmente al “genocidio dei bianchi.”
Al contempo, non è stato di certo l’unico ad aver coltivato e nutrito questa ossessione. In parallelo, diversi pensatori europei hanno elaborato un’autonoma versione del mito del “genocidio”—una versione più raffinata, ma altrettanto insidiosa e paranoide.
A questo punto, tocca tornare ancora una volta agli anni Settanta; spostandosi, però, in Francia.
“IL CAMPO DEI SANTI” E “LA GRANDE SOSTITUZIONE”: IL MITO SFONDA IN EUROPA
Una mattina qualsiasi del 1972, l’esploratore e scrittore francese Jean Raspail è nello studio di casa sua a Vallauris, un piccolo paese della Costa Azzurra tra Nizza e Cannes. Guarda fuori dalla finestra, che affaccia sul mare, e si ritrova a pensare: “E se loro arrivano?”
Come dirà in un’intervista a Le Point, all’inizio quel loro non era definito; poi, Raspail s’immagina uno scenario in cui “il terzo mondo si precipita in massa in questo paese benedetto che è la Francia” e si mette a scrivere in preda a una “strana ispirazione.” Il risultato è uno dei romanzi più controversi della letteratura francese contemporanea: Il campo dei santi, uscito nel 1973.
Il titolo è preso da un passo dell’Apocalisse di Giovanni, mentre la storia narra la pacifica invasione di un milione di indiani—guidati dal “coprofago”, un migrante che di mestiere impasta escrementi, e da un “bambino-mostro” deforme—e il repentino collasso della società francese bianca in un turbinio di esodi, rivolte, stupri e assalti ai supermercati.
Sebbene Raspail abbia ripetutamente detto di non essere razzista né di appartenere all’estrema destra, il libro è una lunghissima tirata contro quelli che da noi sarebbero chiamati “falsi buonisti” (preti, intellettuali, giornalisti, attivisti e politici “di sinistra”) e trabocca di descrizione razziste. Il “popolo del Gange” è costantemente disumanizzato e ridotto a una massa informe che sguazza nelle proprie feci, si abbandona a orge promiscue, contrae ogni tipo di malattia ed è mossa da impulsi ferini.
Verso la metà de Il campo dei santi compare un dialogo tra il presidente francese e il segretario di stato in cui si valuta l’ipotesi di usare l’esercito per bloccare lo sbarco imminente. “Per un nuovo genocidio, non faccia affidamento sull’esercito, signor Presidente!” dice il segretario. “E su chi, allora?” chiede il presidente. “Su nessuno, signor Presidente. La partita è persa,” continua il segretario. “Vi sarà comunque un altro genocidio, cioè la nostra scomparsa,” chiosa il presidente.
Il libro ha una tiratura iniziale di 20mila copie, ma incontra l’ostracismo della stampa e dell’intellighenzia francese—all’epoca, il Front National era un partito marginale e il dibattito sull’immigrazione non esisteva. Riesce comunque a venderne 15mila grazie al supporto di alcuni intellettuali di estrema destra come Jean Cau, Louis Pauwels e Michel Déon.
Nel 1975, spinto dal passaparola, arriva a 40mila copie. Alla fine degli anni Ottanta viene tradotto negli Stati Uniti e finisce persino nelle mani di Ronald Reagan, che ne rimane impressionato. Raspail approfitta delle nuove edizioni per spiegare con più precisione il messaggio di fondo del romanzo: “Il nostro occidente ipersensibile e cieco,” scrive nel 1982, “non ha ancora capito che i bianchi […] ora sono una minoranza, e che la proliferazione delle altre razze inevitabilmente condanna la nostra razza, la mia razza, all’estinzione.”
Nel corso degli anni Novanta, in Francia diventa un long-seller ripubblicato più volte; negli Stati Uniti macina ancora bene; e in Italia è pubblicato dalla casa editrice di Franco Freda. La novità è che il libro viene circonfuso dall’aura della “profezia”. In un lungo articolo su The Atlantic, ad esempio, lo storico Paul Kennedy ricorda di averlo sentito per la prima volta dopo l’approdo della nave Vlora a Bari nel 1991. E a ogni grosso sbarco Il campo dei santi consolida la sua nomea di Libro-Che-Aveva-Previsto-Tutto, raggiungendo nuovi lettori.
Si arriva così allo scoppio della primavera araba. L’ottava edizione esce nel febbraio del 2011: vende 60mila copie in breve tempo e assume una centralità mai avuta prima, beneficiando del peggioramento del dibattito pubblico sull’immigrazione. Contestualmente alla nuova vita de Il campo dei santi, nello stesso anno esce un altro libro destinato a far discutere parecchio: Le Grand Remplacement (“La Grande Sostituzione”).
L’autore del pamphlet è Renaud Camus, un intellettuale con trascorsi nel Partito Socialista e da ex redattore di riviste come Le Gai Pied, accusato più volte d’antisemitismo e vicino all’estrema destra. A suo dire, la “sostituzione etnica” è talmente evidente da non aver nemmeno bisogno di spiegazioni o definizioni; più che di un concetto, si tratta di un “fenomeno” per cui un “popolo che occupa lo stesso territorio da quindici o venti secoli” è rimpiazzato da “un altro popolo” nell’arco di “una o due generazioni.” La causa fondante sarebbe un “moto in tre tempi con il quale il mondo s’è di volta in volta de-industrializzato, de-spiritualizzato e de-civilizzato.”
Nel 2013 il polemista amplia la sua teoria in un altro libro, Le Changement de peuple. I “padroni della finanza internazionale” e i “cavalieri dell’industria globalizzata,” afferma, hanno trasformato ciascun francese in una “pedina sradicata scambiabile a piacimento […] e delocalizzabile, […] spogliato di tutte le sue specificità nazionali, etniche e culturali.”
Secondo diversi studiosi, Camus non si è inventato nulla. Il ricercatore Laurent Joly sostiene che i padri della “grande sostituzione” siano in realtà Maurice Barrès e Charles Maurras, figure di primo piano del movimento proto-fascista Action française e teorizzatori—già nel lontanissimo 1900—del “nazionalismo etnico.” Lo storico Nicolas Lebourg, in un’intervista a Le Figaro, parla di una tematica presente all’interno dell’estrema francese sin dagli anni Cinquanta; Camus l’ha solo “svuotata dei suoi tratti antisemiti per integrarlo al tema dello ‘scontro di civiltà’,” donandogli così maggiore rispettabilità e visibilità.
Il sociologo Yannick Cahuzac, invece, ha trovato forti corrispondenze tra la “grande sostituzione” e il mito dell’“Eurabia.” Coniata nel 2005 da Bat Ye’or (pseudonimo di Gisèle Orebi) e resa celebre da Oriana Fallaci, questa teoria del complotto vede nell’immigrazione proveniente dai paesi arabi un “piano delle élite” per “islamizzare” l’Occidente.
Dietro a queste idee si celano comunque una forma di “neorazzismo differenzialista”—che, secondo il politologo Pierre-André Taguieff, prevede la “separazione tra razze” su base “culturale” e non più biologica—e un netto rifiuto della modernità su basi “identitarie.” Non a caso è proprio Generazione Identitaria, movimento giovanile di estrema destra nato nel 2012 e presente in diversi paesi, ad appropriarsi e propagandare più di ogni altro la “grande sostituzione,” seguito a ruota da partiti neofascisti come Forza Nuova e CasaPound (basta scorrere l’omonimo tag su Il Primato Nazionale per rendersene conto).
Chiaramente, come hanno dimostrato (tra gli altri) un articolo di Le Monde e un video de L’Obs, la teoria non ha la minima base statistica. Ma l’aderenza alla realtà non è mai stata il suo punto di forza. La sua attrattiva, scrive il giornalista Guido Caldiron su il manifesto, risiede nella “dimensione cospirativa la cui posta in gioco è riassumibile nella sopravvivenza o meno” della “razza bianca.” Una simile posizione, pertanto, traccia una “sorta di linea invisibile che, data l’ampiezza del ‘pericolo’ annunciato, si può essere pronti a varcare per passare dalla parole ai fatti.”
Purtroppo, quella soglia verrà varcata svariate volte sia in Europa che negli Stati Uniti.
“L’ULTIMO RHODESIANO”: IL MASSACRO DI CHARLESTON
Il 21enne Dylann Roof è seduto fuori dalla chiesa episcopale “Madre Emanuel” di Charleston, nella Carolina del Sud, e sta sorseggiando dello Smirnoff Ice. Dentro c’è un piccolo gruppo di preghiera composto da 13 persone: il pastore, un altro sacerdote, otto donne, un uomo e una bambina. Sono tutti neri; quella, infatti, non è una chiesa qualunque.
Fondata nel 1816, ha sempre rivestito un ruolo di primo piano nella cultura afroamericana—prima durante la schiavitù, poi nell’era del movimento per i diritti civili, e infine con Black Lives Matter. Nel 1822 fu il teatro di uno dei più orridi massacri razziali negli Stati Uniti: uno dei co-fondatori, Denmark Vesey, fu ingiustamente accusato di voler fomentare una rivolta insieme ad altre 35 persone; vennero impiccati insieme, e la chiesa data alle fiamme.
Roof conosce perfettamente quella storia e l’importanza di “Madre Emanuel.” La scelta dell’obiettivo è estremamente oculata: nella sua testa, rappresenta il simbolo da abbattere per dare il via a una “guerra razziale” sul modello dei Diari di Turner.
Il ragazzo entra nella chiesa nel tardo pomeriggio del 17 giugno 2015, il 193esimo anniversario dell’uccisione di Vesey, e chiede di parlare con il pastore. Clementa Pinckey (che ha rivestito anche la carica di senatore statale per i Democratici) lo accoglie, invitandolo a partecipare alla sessione di catechismo che inizia alle otto. In un primo momento Roof rimane in ascolto, poi diventa sempre più aggressivo finché non estrae dal marsupio una Glock. Ha con sé 88 proiettili a punta cava; e no, il numero non è scelto a caso.
Il primo a essere colpito a morte è Pinckley. Il 26enne Tywanza Sanders prova a parlare con Roof: gli chiede perché stia sparando, e gli dice che non deve farlo. “Avete stuprato le nostre donne e vi state prendendo il paese. Devo farlo,” è la risposta. Poi continua a sparare, uccidendo altre otto persone. Si salvano solo Felicia Sanders—madre di Tywanza—e la nipotina di cinque anni, che si fingono morte.
L’impatto della strage è enorme, e scuote profondamente gli Stati Uniti. Anche perché le motivazioni di Roof appaiono drammaticamente chiare. Nei giorni precedenti aveva pubblicato sul suo sito, TheLastRhodesian.com, un manifesto di cinque pagine. L’ultimo paragrafo, intitolato “una spiegazione,” cita una frase di American History X e si conclude così: “Ho scelto Charleston perché è la città con più storia nel mio stato, e allo stesso tempo ha il più alto tasso di neri-su-bianchi nel paese. Non ci sono skinhead, né il vero KKK, e nessuno fa qualcosa tranne che parlare su Internet. Bene, qualcuno deve avere il coraggio di fare qualcosa nel mondo reale, e penso che questo compito tocchi a me.”
L’intero testo di Roof è un compendio dell’ideologia suprematista del Ventunesimo secolo. Nelle prime righe l’attentatore spiega di essere stato “risvegliato” dal caso di Trayvon Martin, un 17enne nero ucciso nel 2012 da un vigilante, che gli aveva aperto gli occhi sull’“epidemia dei crimini dei neri sui bianchi”—un’ossessione portata avanti da gruppi ultraconservatori come il Council of Conservative Citizens, che sul proprio sito cura una lista di tali crimini.
Più avanti esprime le sue preoccupazioni sulla perdita di centralità della “razza bianca” negli Stati Uniti e in Europa, con un linguaggio che riecheggia quello di David Lane. Per Morris Dees e J. Richard Cohen del Southern Poverty Law Center, è l’ennesimo segno della “crescente globalizzazione del suprematismo bianco”; un trend anticipato dallo stesso Lane.
Roof era anche affascinato dalla storia della Rhodesia, considerato da lui e molti altri suprematisti un eroico esempio di “resistenza etnica” e al contempo il terribile presagio di un futuro apocalittico per la “razza bianca.” L’ex colonia britannica (che oggi si chiama Zimbabwe) è stata retta da una minoranza bianca tramite un regime di apartheid fino al 1979, anno in cui termina la sanguinosa guerra civile tra il Fronte Rhodesiano di Ian Smith e lo Zanu del futuro dittatore Robert Mugabe.
Sebbene non sia mai citato, il “genocidio dei bianchi” è comunque presente nella Weltanschauung di Roof. Ed è molto probabile che ne fosse direttamente a conoscenza, se non altro per ragioni geografiche: nella stessa città dell’attentatore, Columbia, viveva Robert “Bob” Whitaker. Scomparso nel 2017, era un suprematista bianco che aveva lavorato nell’amministrazione di Ronald Reagan e si era inventato il cosiddetto “Mantra.”
Apparso nel 2006 sotto forma di post sul suo blog, il “mantra” è una tirata di dieci paragrafi sul “genocidio in corso della mia razza, la razza bianca.” La frase conclusiva, “anti-racist is a code word for anti-white” (“anti-razzista è una parola in codice per anti-bianco”), è diventata un vero e proprio tormentone negli ambienti suprematisti, venendo forsennatamente diffusa dai suoi seguaci. Questi ultimi hanno anche organizzato manifestazioni contro il “genocidio dei bianchi,” e affisso grossi cartelloni razzisti in giro per gli Stati Uniti.
Al di là di questa coincidenza, l’impressione di inquirenti ed esperti è che la rapida radicalizzazione di Dylan Roof sia avvenuta esclusivamente online, con modalità per certi versi inedite. Heidi Beirich, direttrice dell’Intelligence Project del Southern Poverty Law Center, ha spiegato che “la maggior parte dei killer suprematisti spende molto tempo per l’indottrinamento: fanno parte di qualche gruppo, parlano con le persone, vanno alle manifestazioni. Con Roof non è successo nulla di tutto questo.” Il paragone più adatto, ritiene Beirich, sarebbe con i giovani che si radicalizzano con il materiale propagandistico dell’Isis e poi vanno a combattere in Siria o compiono attentati nei paesi in cui vivono.
Il SPLC ha anche scoperto che alcuni passaggi del manifesto sono stati presi di peso da alcuni commenti lasciati dall’utente “aryanblood1488” sul sito neo-nazista The Daily Stormer, fondato nel 2013 da Andrew Anglin (segnatevi questo nome, perché tornerà più avanti). Keegan Hankes, l’autore dell’articolo, sostiene che il coinvolgimento di Roof nella subcultura online di estrema destra fosse ancora più profondo. Del resto, scrive la giornalista Rachel Kaadzi Ghansah su GQ, “pensare che Roof avesse bisogno di un reclutatore equivale a sottovalutare il ruolo che Internet ha avuto nel rivitalizzare e indottrinare una nuova generazione di suprematisti.”
Insomma: il 21enne ha in qualche modo rappresentato una figura di passaggio tra il vecchio movimento suprematista e l’insorgente fenomeno dell’Alt-Right. Ma quando è avvenuta la strage, in pochi conoscevano il significato di quest’ultima espressione; di lì a poco, nel corso della campagna elettorale per le presidenziali americane del 2016, lo avrebbero saputo tutti quanti.
“YOU WILL NOT REPLACE US”: L’ASCESA DELL’ALT-RIGHT E IL #WHITEGENOCIDE
La prima ondata dell’alt-right, abbreviazione di alternative right, risale al 2008. In un articolo pubblicato su Taki’s Magazine, il filosofo “paleoconservatore” Paul Gottfried parla della necessità di creare una nuova entità per chi, da destra, non si riconosceva nel neoconservatorismo.
Il termine vero e proprio non è però suo: lo conia Richard Spencer, un giovane nazionalista bianco che lavora per Taki’s e nel 2010 apre AlternativeRight.com. Gottfried, dirà in seguito, è colui che “gli ha messo in testa l’idea”; il resto l’ha pensato lui.
Nella prima versione delineata dallo stesso Spencer, l’Alt-Right è un’ideologia dai contorni abbastanza incerti che mescola alcune idee minoritarie dell’area estremista—il “neo-reazionarismo,” la “biodiversità umana” e il “realismo razziale”—con quelle della Nouvelle Droite francese. L’obiettivo è staccarsi dalla tradizione conservatrice e rappresentare i giovani che non si riconoscono più in quei valori.
Nonostante gli sforzi di Spencer, la prima Alt-Right non si tramuta in un movimento; e con la chiusura di Alternative Right nel 2013, il termine sembra aver esaurito la sua funzione. Eppure, in qualche modo sopravvive su 4chan, Reddit e Twitter. E non solo: evolve in un qualcosa che fonde trolling, cultura di Internet, utilizzo dei meme, shitposting, complottismo, libertarismo, identitarismo, misoginia moderna (la cosiddetta manosphere), rigetto del conservatorismo, vecchio suprematismo bianco e razzismo.
Come scrive il politologo George Hawley nel libro Making Sense of the Alt-Right, siamo di fronte a un movimento inconsueto per l’estrema destra: “atomizzato, amorfo, anonimo, principalmente online” e senza un leader, in cui convivono diverse anime molto diverse tra loro. Una di queste, la più ripugnante e radicale, è capeggiata da Andrew Anglin. In un lungo profilo che gli ha dedicato The Atlantic, il trentenne—che al liceo era vegano e antirazzista—è definito “il discendente ideologico” di George Lincoln Rockwell (fondatore dell’American Nazi Party negli anni Cinquanta) e dell’autore dei Diari di Turner William Luther Pierce. A differenza loro, Anglin può però contare su uno strumento molto più potente per diffondere il suo veleno: Internet.
The Daily Stormer, che prende il nome dalla rivista nazista Der Stürmer, è indubbiamente il sito politico più estremo al mondo. Anglin non si fa mancare nulla: appelli allo sterminio di “ebrei” e “negri,” complottismo con la bava alla bocca, doxxing (la pratica di diffondere dati sensibili di una persona con intento malevolo), trollaggio spinto, e violentissimi attacchi contro i nemici di turno.
Se i temi sono quelli classici del neonazismo e suprematismo americano, è lo stile a marcare una forte discontinuità. La grafica del Daily Stormer è curata, e i post sono permeati dall’ironia sadica di Anglin. L’esito finale è una sorta di “Gawker nazista,” o—per citare le sue stesse parole—un “nazismo non ironico mascherato da nazismo ironico.”
Quando la seconda ondata dell’Alt-Right fa la sua comparsa nei recessi di Internet, Anglin è uno dei primi a saltare sul carro intravedendoci un grande potenziale. In “A Normie’s Guide to the Alt-Right” il neonazista fornisce la sua definizione di Alt-Right: “un movimento di massa […] composto in gran parte da “giovani bianchi emarginati” che “può esistere solo su Internet, dove la voce di chiunque può essere sentita se è abbastanza forte.”
Il concetto chiave del movimento, quello “su cui si basa ogni altra cosa,” è che “i bianchi stanno per essere sterminati dall’immigrazione di massa, promossa da una corrosiva ideologia liberale di odio autoinflitto verso i bianchi. Gli ebrei sono i principali responsabili di questo piano.” Per Anglin, quindi, il nucleo dell’Alt-Right coincide con la teoria del “genocidio dei bianchi.”
Nel corso della campagna elettorale del 2016, come ha rilevato il paper di J. Berger Nazi vs. Isis on Twitter, l’hashtag più usato dai suprematisti è stato proprio #whitegenocide, che veniva costantemente associato agli hashtag più popolari legati a Trump (su tutti #MAGA, dallo slogan Make America Great Again) e funzionava come una sorta di “ponte” tra gli estremi e il mainstream. Trump in persona ha ripreso un tweet dell’utente @WhiteGenocideTM per attaccare Jeb Bush, uno dei suoi avversari alle primarie repubblicane.
Questi episodi sporadici—incluso un altro tweet di Trump in cui compare “Pepe the Frog,” il meme-mascotte dell’Alt-Right—non vanno letti come un’adesione ideologica al movimento; è vero, piuttosto, il contrario. Pur riconoscendo che Trump “non è veramente uno di loro,” dice Hawley, l’Alt-Right lo ha supportato fin dall’inizio perché “ha inferto un colpo devastante all’establishment conservatore” e “spostato molto più a destra il dibattito nazionale, dando spazio alle loro idee.”
Paradossalmente, la connessione tra Trump e l’Alt-Right non l’hanno fatta né l’uno né l’altra. È farina nel sacco dei media liberal, preoccupati da questo nuovo fenomeno, e soprattutto di Hillary Clinton. Nell’agosto del 2016, la candidata democratica ha incentrato un intero discorso sul movimento, dicendo che “non si tratta del conservatorismo che conoscevamo.” All’epoca Clinton stava cercando di dividere i repubblicani tradizionali—che odiano l’Alt-Right—da Trump, nella speranza di seminare ancora più zizzania nel partito. In retrospettiva, si è trattato di un clamoroso errore strategico: legando in maniera così stretta Trump al movimento, una sua eventuale vittoria avrebbe comportato anche il trionfo dell’Alt-Right.
E infatti, quando conquista la Casa Bianca, succede proprio questo. Complice anche una copertura giornalistica decisamente sensazionalista, che allarga a dismisura i confini del movimento e addirittura attribuisce “poteri magici” all’Alt-Right, per un momento sembra che l’Alt-Right stia davvero “vincendo.” Tuttavia, la luna di miele con Trump non dura molto.
La conferenza post-elezioni al National Policy Institute di Washington, quella in cui Richard Spencer urla “Hail Trump!” e viene salutato da una selva di braccia tese, rivela al grande pubblico che l’Alt-Right, al di là della dimensione “ironica” e “controculturale,” rimane una frangia politica impresentabile. Trump stesso ne prende le distanze, disconoscendo il gruppo.
L’altro grande problema che il movimento deve fronteggiare è quello di passare dai social media alla realtà: farlo, infatti, richiede un certo livello di serietà e organizzazione. In una conferenza a Stoccolma tenutasi nel febbraio del 2017, Colin Robertson (conosciuto su YouTube come Millennial Woes) spiega alla platea che “non è più un gioco. È una roba seria. Penso anche che l’idea di cambiare ci spaventi un po’. Perché è un qualcosa di nuovo, che richiede disciplina. E mentre lo dico, mi rendo conto che l’Alt-Right non sarà più una cosa divertente.”
Il tentativo di darsi una struttura sfocia nella manifestazione “Unite the Right,” che si svolge l’11 e il 12 agosto 2017 a Charlottesville (Virginia). In piazza sfilano praticamente tutte le sigle dell’estrema destra, dal vecchio Ku Klux Klan a nuovi partiti come il Traditionalist Worker Party, e la crème de la crème del suprematismo bianco statunitense.
L’evento si apre con centinaia di militanti che marciano nel campus dell’Università della Virginia, reggendo delle torce e cantando slogan che rimandano simultaneamente al “genocidio dei bianchi” e alla “grande sostituzione” (un aspetto notato anche da Renaud Camus): “You will not replace us” e “Jews will not replace us”—“non ci rimpiazzerete” e “gli ebrei non ci rimpiazzeranno.”
Il giorno dopo, lo stato della Virginia dichiara lo stato d’emergenza. A causa di una gestione disastrosa dell’ordine pubblico, gli scontri tra estremisti di destra e antifascisti si protraggono per tutta la mattina e finiscono nel peggiore dei modi. Verso le due di pomeriggio, il neonazista James Alex Fields si lancia con un’automobile sulla folla: ferisce 19 persone e uccide la 32enne Heather Heyer.
Per l’Alt-Right è una catastrofe politica. Angela Nagle, autrice del saggio Kill All Normies, scrive che “l’esibizione di forza [ che si è vista nella città] ha messo sotto gli occhi di tutti che i leader del movimento non sono dei geek da cameretta”: sono militanti violenti e armati. Invece di “unire,” Charlottesville “ha segnato la fine di una fase importante” del movimento.
In effetti, i mesi successivi sono un incubo contrassegnato da feroci liti interne, chiusure di account su Facebook e Twitter, e mobilitazioni sempre più efficaci degli antifascisti. Che qualcosa si sia rotto lo ammette anche Richard Spencer, costretto a interrompere un tour perché “non è più divertente.”
Ma se l’Alt-Right entra in una fase di declino irreversibile, il mito del “genocidio dei bianchi” trova nuova linfa vitale in un paese lontano sia dall’Europa che dagli Stati Uniti: il Sudafrica.
“PLAAS MOORDE”: L’INVENZIONE DEL “GENOCIDIO DEGLI AGRICOLTORI BIANCHI”
La formazione di un “etno-stato” per bianchi—o una riserva “incontaminata”—è un tema ricorrente nel suprematismo bianco della seconda metà del Ventesimo secolo e dell’inizio del Ventunesimo. È presente in forme diverse nei Diari di Turner, negli scritti di David Lane, nella parte finale de Il campo dei santi, e nei meme dell’Alt-Right.
Chiaramente, nulla di tutto ciò si è mai concretizzato. In Sudafrica, però, c’è qualcuno che ci sta provando sul serio: gli Suidlanders.
Fondato nel 2006 da Gustav Müller, questo “gruppo conservatore cristiano” è convinto che a breve una “rivoluzione violenta” sconvolgerà il paese e spazzerà via la minoranza afrikaner, e quindi la “razza bianca.” Di fatto, gli Suidlanders sono dei prepper millenaristi: oltre alla Bibbia, credono anche a Niklaas Van Rensburg—il cosiddetto “profeta dei boeri,” morto nel 1926, che con le sue allucinazioni aveva pronosticato una terribile “guerra razziale.”
A loro avviso, la situazione del Sudafrica post-apartheid è costellata di pessimi segni premonitori. Nel 2010, ad esempio, le forze dell’ordine avevano perquisito diversi membri degli Suidlanders sospettati di voler sabotare la Coppa del Mondo attraverso “l’istigazione alla violenza nei ghetti neri.” Sempre nello stesso anno, l’omicidio di Eugène Terre‘Blanche—fondatore del Movimento di Resistenza Afrikaner (AWB), accanito sostenitore dell’apartheid, nonché uno dei più noti e violenti estremisti di destra sudafricani—aveva fatto temere per il peggio. Anche la morte di Nelson Mandela, avvenuta nel 2013, li aveva convinti che l’insurrezione contro di loro fosse alle porte.
Ma sono soprattutto i cosiddetti “assalti alle fattorie” (plaas moorde in afrikaner) a costituire, nella visione degli Suidlanders e di altri gruppi di destra sudafricani, la prova regina del fatto che il “genocidio” sia già in corso.
Ora, il fenomeno dei crimini violenti nelle fattorie—che colpisce tutti gli agricoltori—non è un’invenzione, né un qualcosa di recente: risale agli anni Novanta, ed è stato subito denunciato da alcune unioni di agricoltori. La AgriSA, ha anche fornito delle stime (da prendere con le pinze) sul periodo tra il 1991 e il 1997: più di 3mila attacchi e 677 omicidi; una percentuale comunque “bassa”, se rapportata al numero totale degli omicidi in Sudafrica. La polizia sudafricana, invece, ha iniziato a registrare i dati relativi agli assalti alle fattorie dal 1997 in poi. Gli ultimi disponibili mostrano che nel 2017/2018 ci sono stati 564 attacchi e 62 omicidi.
Per quanto riguarda il profilo delle vittime nelle fattorie, nel 2001 la polizia aveva rivelato che—delle 1398 persone aggredite in quell’anno—il 61.6% erano bianchi, il 33.3% neri, il 4.4% asiatici e lo 0.7% era nella categoria “altro.” Le statistiche ufficiali del 2017/2018 dicono che delle 62 persone uccise nel corso dell’ultimo anno, 46 erano bianche. Stando al fact-checking di BBC e Africa Check, non ci sono tuttavia abbastanza dati per sostenere che gli agricoltori siano più a rischio d’omicidio rispetto al sudafricano medio.
Arriviamo al punto: la motivazione dietro questo assalti è razziale? Il rapporto finale della commissione d’inchiesta sul fenomeno, uscito nel 2003, lo smentisce categoricamente. Nell’analizzare 3.544 casi verificatisi tra il 1998 e il 2001, la commissione ha rilevato che l’89,3 percento era dettato da ragioni economiche (rapine, furti, ecc.), mentre appena il 2 percento da ragioni politiche. Nel 2015, un rapporto della polizia ha ribadito che la stragrande maggioranza degli assalitori vuole rapinare e basta, senza secondi o tripli fini “genocidiari.”
Per capire a fondo il contesto sociale di questi crimini, bisogna spostare il focus sulle disparità economiche e la spinosa questione della proprietà terriera in Sudafrica. Nel 1913 venne emanato il Natives Land Act, una legge che dava ai neri sudafricani appena il 7 percento della terra coltivabile, e il rimanente alla minoranza bianca. Una tale politica di segregazione continuò sotto il regime di apartheid, e i suoi effetti si vedono ancor oggi: nel febbraio del 2018 una ricerca del governo ha rilevato che i bianchi possiedono il 72% del 37 milioni di ettari destinati all’uso agricolo, nonché le fattorie più redditizie.
Dal quando è al potere, il Congresso Nazionale Africano (ANC) ha sempre avuto l’obiettivo di redistribuire equamente i terreni. Negli ultimi anni il partito ha anche avanzato diverse proposte di legge, e ventilato una modifica costituzionale che permetterebbe al governo di espropriare i terreni senza pagare indennizzi. Ovviamente, il processo legislativo è tortuoso e complicato; ma è bastato solo l’annuncio per gettare nel panico più totale agricoltori bianchi, associazioni di categoria e l’estrema destra afrikaner.
Come ha detto alla BBC l’analista politico Somadoda Fikeni, questi gruppi sono immediatamente entrati in “una mentalità d’assedio” perché “non riescono a vedere un mondo dove il loro privilegio è messo in discussione, e ignorano la storia.” Inoltre, “il nazionalismo afrikaner è stato costruito sull’agricoltura e sulla lingua, quindi vedono tutto ciò come una crisi esistenziale.” Il mito del “genocidio dei bianchi” ha fatto il resto, rendendo problemi estremamente locali—quali la (possibile) riforma agraria e le ruberie nelle fattorie—comprensibili anche all’estero in quanto minaccia per l’intera “razza bianca.”
Così, almeno, è come l’hanno venduta gli Suidlanders. Nel 2017 il portavoce Simon Roche si reca negli Stati Uniti per raccogliere soldi e sensibilizzare sulla “causa.” Il tour dura ben sei mesi: Roche trova parecchie sponde tra suprematisti, nazionalisti, neonazisti, complottisti e siti legati all’Alt-Right, riuscendo a far penetrare il “massacro degli agricoltori bianchi” nel circuito mediatico americano.
Da lì in poi, la storia si gonfia a dismisura. L’inglese Katie Hopkins, una personalità mediatica razzista e di estrema destra, dedica al caso un intero documentario; la youtuber canadese Lauren Southern, molto vicina all’Alt-Right, produce a sua volta un lungo reportage sul campo (realizzato con l’aiuto di Roche e degli Suidlanders); e Ann Coulter, una popolare opinionista ultraconservatrice, afferma in un tweet che “gli unici veri rifugiati sono gli agricoltori bianchi sudafricani che rischiano il genocidio.”
All’inizio del 2018 il tema è ripreso e amplificato da giornali e trasmissioni di proprietà della News Corp, il conglomerato mediatico di Rupert Murdoch, e si affaccia per la prima volta sul palcoscenico della politica istituzionale. Nel marzo dello stesso anno il ministro dell’interno dell’Australia Peter Dutton propone di concedere visti speciali agli agricoltori bianchi del Sudafrica—una proposta che non troverà mai applicazione.
Un meccanismo simile si ripete qualche mese più tardi, ma su scala ben più grande. Nella puntata del 23 agosto del Tucker Carlson Tonight, un seguitissimo talk show serale su Fox News, il conduttore Tucker Carlson dedica un segmento di sei minuti alla “pulizia etnica” degli agricoltori bianchi sudafricani, riciclando la propaganda degli Suidlanders e dei suprematisti. Trump, che notoriamente è un grande appassionato di Carlson e di Fox News, annuncia in presa diretta su Twitter di aver incaricato il segretario di stato Mike Pompeo di “studiare molto attentamente” gli “espropri di terreni e fattorie e le uccisioni di massa degli agricoltori” in Sudafrica.
Il tweet di Trump è a tutti gli effetti il coronamento di una campagna che, pur partendo dagli anfratti più oscuri del suprematismo, è riuscita ad arrivare fino alla Casa Bianca. “Cinque, dieci anni fa il genocidio dei bianchi in Sudafrica era confinato a Stormfront [il più famoso forum neonazista al mondo],” commenta il conduttore del podcast di estrema destra White Rabbit Radio, “mentre adesso è del tutto mainstream.”
DA TRUMP A ORBÁN: IL FASCINO GLOBALE DEL MITO
Qualche settimana prima di quel tweet, a un anno esatto dai fatti di Charlottesville, a Washington c’è stata la manifestazione “Unite the Right 2.” Nelle intenzioni dell’organizzatore, Jason Kessler, doveva essere un’altra prova di forza dell’Alt-Right e del suprematismo bianco: è finita invece malissimo. I manifestanti erano una ventina, circondati da poliziotti e migliaia di contestatori; Kessler si è limitato a qualche lamento con la stampa, e poi è sparito.
Un fallimento tali proporzioni non deve però trarre in inganno. Come movimento politico su strada, infatti, l’Alt-Right era destinata a rimanere marginale e ininfluente. Il suo vero campo di battaglia, del resto, è sempre stato un altro: quello delle idee. E lì, le cose sono andate decisamente meglio.
Una ricerca di George Hawley, pubblicata sul sito dell’Institute for Family Studies, ha rilevato che il 5,64 percento dei 198 milioni di bianchi americani ha “posizioni in linea con la visione del mondo dell’Alt-Right.” Questo non vuol dire che facciano parte del movimento; significa piuttosto che la loro identità politica si basa sulla persuasione che i bianchi siano le vittime per eccellenza, e che la sola esistenza delle minoranze sia un pericolo mortale.
Il giornalista Adam Serwer, in un articolo apparso su The Atlantic, ha spiegato che “i nazionalisti bianchi vincono quando fanno scattare il ‘panico bianco’, instillando la convinzione che il loro stile di vita può essere protetto solo ridisegnando la cittadinanza americana in termini razziali, e che la politica americana è un gioco a somma zero in cui i bianchi vincono quando le persone di colore perdono.”
Diversi studi hanno dimostrato che il “risentimento razziale” e il “panico demografico” sono stati componenti decisivi nella vittoria di Trump, il quale continua a sfruttarli con un’intensità senza precedenti. Nei primi due anni di mandato, l’amministrazione Trump ha perseguito politiche apertamente razziste culminate nella separazione dei bambini migranti dai propri genitori; nella proposta di abolire lo ius soli; o nei terribili epiteti rivolti alla “carovana” di migranti partita dall’America Latina, conditi anche dalle minacce di far sparar l’esercito.
L’aver sposato la teoria del “genocidio dei bianchi”, tuttavia, è un salto di qualità non da poco. Se dalla Casa Bianca in giù l’immigrazione è vista come un pericolo mortale per gli Stati Uniti e “l’americanità,” allora non c’è più spazio per il compromesso. E così, da un lato si rendono “necessarie” misure come il muslim ban; dall’altro, gli estremisti più inclini alla violenza dispongono di una potente “giustificazione” per passare all’atto—cosa che stanno facendo sempre più spesso, secondo le statistiche.
E l’aspetto davvero inquietante è che Trump, su questo versante, è in ottima e nutrita compagnia.
In Italia, Matteo Salvini ha agitato più volte lo spauracchio della “sostituzione etnica” o del “genocidio contro il popolo italiano.” Per rimanere in ambito leghista, il ministro Lorenzo Fontana ha parlato di “un annacquamento devastante dell’identità del paese che accoglie [i migranti]”; mentre il governatore della Lombardia Attilio Fontana, intervenendo su Radio Padania, ha detto che “non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate.”
In Francia, Marine Le Pen è arrivata a consigliare ai francesi di “leggere e rileggere” Il campo dei santi per capire l’attuale “sommersione migratoria.” E in Ungheria, Viktor Orbán è stato ancora più esplicito: “dobbiamo affermare che non vogliamo che nella nostra società ci siano la diversità, la mescolanza. Non vogliamo che il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelle degli altri. […] Vogliamo essere quello che eravamo mille e cento anni fa.”
Posizioni di questo genere, che accomunano sempre più partiti e leader di destra, testimoniano anche che la loro retorica e le loro politiche sono ormai infarcite di “xenofobia apocalittica, complottismo antisemita e allarmismo razzista”—cioè di suggestioni attinte a piene mani dal repertorio del suprematismo bianco.
Lo sdoganamento di certe parole d’ordine fa tornare in mente la storia del movimento Völkisch. Secondo lo storico George Mosse, “a contare non furono mai le effettive dimensioni dei gruppi portatori dell’ideologia, ma piuttosto le istituzioni che se ne lasciarono infettare e lo stato d’animo che essi seppero diffondere e mantenere in vita, in attesa che i tempi fossero maturi: cosa questa che va tenuta presente, per quanto sopito l’incendio possa apparire in un determinato momento.”
In questo momento, il crescente successo dei miti del “genocidio dei bianchi” e della “grande sostituzione” significa un’unica cosa: che l’incendio sta divampando di nuovo.