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L’architetto che sogna una prigione più umana

Presidio Modelo prison. Photo: Cuba/Wikimedia Commons

Le carceri sono presumibilmente teatro delle peggiori trasgressioni dei diritti umani d’America, nonché un commercio sempre più redditizio. Mentre negli Stati Uniti altri settori produttivi sono in declino, quello delle prigioni è in continuo aumento. Il numero dei carcerati è quadruplicato dal 1980, tanto che, secondo l’Economist, sul suolo americano vive solo il cinque percento dell’umanità, ma ben il 25 percento della popolazione carceraria mondiale.  

I numeri sono impressionanti, ma quello che le statistiche non rivelano sono l’architettura e il design su cui si regge la detenzione di massa. Ci capita raramente di pensare a chi progetta una camera a gas o una cella di isolamento. 

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Raphael Sperry vuole cambiare le cose. Sperry è un architetto, docente presso la fondazione Soros e presidente dell’ADPSR (Architects/Designers/Planners for Social Responsibility), e sta spingendo l’American Institute of Architects a proibire la progettazione di spazi che violino implicitamente l’etica dei diritti umani. Domenica l’ADPSR ha lanciato una campagna di crowd-sourcing per raccogliere fondi e far conoscere i propri sforzi per disegnare luoghi di detenzione più umani. L’organizzazione sta anche raccogliendo da detenuti e ex-detenuti i disegni dei luoghi dove sono stati confinati, che verrano esposti in autunno alla Wurster Hall Gallery, all’interno del campus di Berkley. 

In poche parole, Sperry vuole che in futuro l’industria carceraria plasmi la propria tecnologia e la propria forma tenendo conto dei diritti umani fondamentali. Il suo lavoro si va a inserire in una lunga storia di riforme istituzionali, che vanno dal progetto di detenzione psicologica tramite somministrazione di LSD di un architetto canadese alle più recenti argomentazioni in favore dell’uso di “prigioni mentali” e droghe psicoattive per alleviare la condizione di sovrappopolazione delle carceri tradizionali. Io e Sperry abbiamo parlato della cultura della prigionia, della punizione e della privazione, e di quel che si può fare a riguardo. 

MOTHERBOARD: Quando ha cominciato a interessarsi al lavoro sulle carceri? 

Sperry: Direi ai tempi della guerra in Iraq, a cui ero fortemente contrario. Partecipavo spesso a manifestazioni ma trovavo difficile stabilire una connessione con la gente parlando di questo argomento. Volevo trovare un modo per affrontare con gli architetti l’argomento della violenza come strumento di controllo sociale, e quello che stava succedendo in Iraq ne era un esempio lampante. Ma era con gli architetti che volevo parlarne, quindi il soggetto dovevano essere gli edifici. Le prigioni sono edifici, e più ne sapevo, più mi sembrava giusto affrontare con loro anche quel tipo di violenza. 

I suoi sforzi si concentrano principalmente attorno a due tipologie di costruzioni detentive: le stanze dedicate alle esecuzioni e le celle di isolamento, comuni nelle prigioni di massima sicurezza. Ci può spiegare quanto può essere estrema la condizione di isolamento? Quando penso a uno di quei luoghi mi viene in mente una segreta medievale con una fessura nella porta da cui spuntano due mani, ma so che al giorno d’oggi vi sono celle automatizzate in cui anche questo contatto personale viene eliminato.      

Il livello di massima sicurezza è quello dei grandi edifici adibiti esclusivamente all’isolamento. Nelle prigioni convenzionale esiste di solito un’ala denominata di segregazione amministrativa in cui viene somministrato un trattamento più o meno equivalente. Te ne stai 23 ore al giorno in una cella di cemento. A volte c’è una piccola finestra che guarda su un cortile interno. Il cortile è spoglio e il muro di cinta alto, quindi ti rimane solo un rettangolo di cielo. 

Non sempre c’è la finestra. Quando non c’è al suo posto c’è un oblò nella porta di metallo che da su un corridoio di acciaio e cemento, illuminato da un abbaino. E quella è l’unica luce solare che ti raggiunge. Alcune celle sono completamente d’acciaio. 

Le porte sono equipaggiate di feritoie con vassoi montati su guide, come in alcuni sportelli di banca. Le guardie usano il vassoio per passarti il cibo, le medicine, le lettere, qualsiasi cosa. Se devi uscire dalla cella prima metti le mani nel vassoio per farti ammanettare, e in basso c’è un’altra feritoia per le caviglie. Tutto senza nemmeno il bisogno di uscire. 

Un’ora al giorno, a volte meno—onestamente, la legge parla di un’ora al giorno cinque volte la settimana, ma in molte prigioni ciò non accade—la porta si apre e vieni scortato verso una zona ricreativa all’aperto, spesso un cortiletto di cemento spoglio circondato da alte mura.

In molte carceri la cella, il corridoio e il cortile—“la passeggiata del cane” come viene chiamato—sono controllati in remoto, in modo che tu non interagisca con nessuno. 

Quali sono le conseguenze documentate di questo tipo di isolamento?   

Uno dei numeri che mi turbano maggiormente è il quattro percento della popolazione carceraria che vive in isolamento. Non sembra molto, ma in quel quattro percento c’è la metà di tutti i suicidi.

Gli esseri umani sono animali sociali. La nostra psicologia ha bisogno di un minimo di interazione, e quando questa viene negata la nostra mente va in pezzi e il suicidio è una delle possibili conseguenze. Si procurano tagli. Danno testate contro le pareti. Sviluppano sintomi psicotici. È una cosa pericolosa e distruttiva. 

E sembra ancora più incredibile che a questi regimi detentivi siano sottoposti anche i minorenni. 

Lo so. Ed è una vera dimostrazione di mancanza di creatività da parte delle istituzioni americane; come se ammettessero di non sapere che pesci pigliare. E allora li chiudono in una scatola. L’isolamento non migliora nessuno né prepara nessuno ad affrontare i propri problemi. Le organizzazioni per i diritti umani sostengono che nessun ragazzo dovrebbe esservi sottoposto. 

Allora perché continuare a usarlo? È documentato che provoca danni psicologici, ed è anche più costoso della detenzione tradizionale. Eppure è un metodo in continua diffusione.

Credo che il motivo sia la volontà di infliggere una punizione coerente con l’idea di giustizia degli americani. È idea piuttosto diffusa che una pena sia una cosa buona a priori. È una visione chiaramente miope della situazione. Le pene solitamente non riescono a risolvere il problema alla base dei comportamenti devianti. Ma penso che le prigioni di massima sicurezza e l’isolamento siano frutto di questa visione. 

Queste misure estreme come si inseriscono nella dinamica di sempre maggior privatizzazione del settore? C’è una relazione? 

Penso il legame con la politica americana sia evidente: i movimenti di destra tendono a voler favorire gli affari e non vogliono che il governo metta loro i bastoni tra le ruote, non importa quale sia il prezzo sociale da pagare; e sono anche a favore di una visione incentrata sulla punizione. Queste due tendenze non sempre vanno di pari passo, ma nella destra sono comunque molto legate. La privatizzazione delle carceri è l’aspetto lucrativo dell’amministrazione penitenziaria, mentre la teoria del pugno di ferro ne è l’aspetto culturale. E sono spesso associati. 

Cosa cambia per un architetto, se sta disegnando una prigione pubblica o privata? 

Per quel che ne so la maggior parte delle aziende cui viene appaltata la gestione dell’amministrazione penitenziaria hanno propri gruppi interni di designer. Tendono a selezionare i detenuti più semplici da gestire in modo da aumentare i  margini di profitto. Agli appaltatori privati non vengono affidati impianti di massima sicurezza, ma prendono talmente tante scorciatoie nelle gestione delle carceri convenzionali che alla fine il trattamento risulta altrettanto inumano. 

Per quel che ne so la maggior parte delle aziende cui viene appaltata la gestione dell’amministrazione penitenziaria hanno propri gruppi interni di designer. Tendono a selezionare i detenuti più semplici da gestire in modo da aumentare i  margini di profitto.

Ma gli interessi quanto sono elevati? Quanta parte dell’industria della progettazione architettonica si occupa effettivamente di carceri? 

Molte firme importanti hanno un’unità che si occupa di questo settore. A volte se ne occupa quella parte dello studio che tratta gli edifici militari o quelli governativi, ma la progettazione penitenziaria è un settore piuttosto specializzato. Per un gruppo che fa capo a una grande firma può rappresentare il cinque percento del fatturato, ma a volte arriva anche al 15. Alcuni studi si specializzano in questo settore, e quelli che ho incontrato tentano davvero di essere progressisti. Hanno una visione lungimirante e basano i propri ragionamenti sui numeri. 

Le prigioni sono un elemento peculiare della storia dell’architettura, del design e delle costruzioni, ma dobbiamo impedire che facciano affidamento a pratiche che violano i diritti umani. Non vogliamo che chi si occupa di disegnare prigioni esca dal mercato; vorremmo soltanto che considerassero i diritti umani nel lavoro che fanno, e pensiamo che sarebbe meglio se lo facessero in maniera collettiva. È a questo che serve il codice. Se solo un’azienda o due dicessero, “Non progetteremo prigioni che violano i diritti umani,” finirebbero fuori mercato e qualcun altro le costruirebbe al loro posto. È importante che si tratti di una posizione condivisa. 

Parte dell’obiettivo consiste nel far cambiare opinione alla gente? Anche chi fosse a conoscenza delle condizioni inumane dei detenuti potrebbe non sapere che le cose potrebbero essere diverse. 

Parte del nostro obiettivo è diffondere la consapevolezza. Il sistema penitenziario americano, di cui la pena di morte e l’utilizzo dell’isolamento sono solo gli aspetti peggiori, non è solamente una continua fonte di spesa e una macchia sulla nostra coscienza. Si tratta di imperdonabili violazioni dei diritti umani che devono cessare. A molti cittadini americani viene impedito di sapere. È la politica del governo. 

In un certo senso si suppone che viviamo in una democrazia, quindi questa politica dovrebbe riflettere il volere popolare. Se le persone non sanno, non possono tentare di cambiare le cose. I libri e le informazioni circolano liberamente, ma qual è il loro impatto sulla gente? La gente non sa. O almeno, non sa quanto questo problema sia grave.