Da sinistra a destra: Mark Mulholland, Tony Allen, Olaf Hund e Jean-Philippe Dary / Foto di Bruno Lemonnier, per gentile concessione di Glitterbeat Records
C’è mancato poco che l’album della Afro-Haitian Experimental Orchestra non vedesse mai la luce. In un periodo in cui quasi ogni attimo, per vanità, per i posteri o per lo stato, è documentato, può essere addirittura liberatorio perdere una registrazione. Ed è quasi successo a questa eccezionale collaborazione musicale, concepita da Corinne Micaelli, direttrice dell’Istituto Francese ad Haiti.
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L’Orchestra ha messo insieme il leggendario batterista Afrobeat Tony Allen e un supergruppo dei migliori musicisti haitiani, tra cui il pilastro della musica roots Sanba Zao, membro dei Racine Mapou de Azor, ed Erol Josué, direttore dell’Istituto Nazionale di Etnologia di Haiti. Ha suonato una sola volta dal vivo, a Port-au-Prince nel 2014, un concerto interrotto da un lacrimogeno e una registrazione rovinata. La perdita di questa musica sarebbe stata, se non tragica, almeno estremamente triste. Ma invece di arrendersi ai dispetti dell’universo, i membri della Afro-Haitian Experimental Orchestra hanno preso le loro grezze registrazioni da sala prove e le hanno modellate fino ad arrivare a un album coeso, un documento fondamentale.
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L’omonimo album risultante, disponibile su Glitterbeat Records, mescola le variegate influenze musicali di Haiti, Mali, Afrobeat e elettronica inglese e francese risultando in un panorama sonoro rinfrescante che ignora i confini ma allo stesso tempo abbraccia le tradizioni che danno senso al caos della vita. Il chitarrista e co-organizzatore Mark Mulholland ha risposto alle nostre domande dalla sua casa di Bamako.
Noisey: Come sono state scritte le canzoni? C’erano degli autori principali? Gli scheletri dei brani sono stati composti in anticipo o è stato tutto improvvisato e poi arrangiato collettivamente?
Mark Mulholland: I percussionisti hanno fatto una prova prima che arrivassero Tony e Jean-Phi (Jean-Philippe Dary), più che altro per capire chi avrebbe suonato quale tipo di tamburo e per conoscersi, visto che non avevano mai suonato insieme in questa configurazione. Sanba Zao coordinava i musicisti haitiani, e sono state buttate giù approssimativamente alcune idee di canzoni, perlopiù basate sul repertorio di Zao di canzoni originali e tradizionali e un paio di melodie cantante da Erol.
Quando abbiamo cominciato le prove, alternavamo un ritmo haitiano a uno dei groove Afrobeat di Tony, e aggiungevamo il resto a partire da quello. I primi due giorni sono stati pure jam, tentativi, cercare di conoscersi e di capire dove si era. Abbiamo registrato tutto in maniera molto spartana, solo per avere un punto di riferimento, e ci siamo concentrati su sette o otto idee di base, che poi abbiamo rifinito fino a trasformarle in canzoni. Per le canzoni iniziate da Zao o Erol c’era già un testo base o una melodia base, quindi si trattava solo di arrangiarle, con cambi e cori, e per me di trovare un semplice riff su cui improvvisare.
Jean-Phi ha assunto il ruolo di direttore musicale, il che è stato di grande aiuto, e si è anche limitato a linee di basso estremamente semplici e ripetitive, che sono diventate la spina dorsale del gruppo e una cosa costante a cui tornare quando si rischiava di finire fuori carreggiata. Per le canzoni partite dai beat di Tony, lui ci dava un groove, Jean-Phi ci aggiungeva una linea di basso, io cercavo qualche nota per il riff e i percussionisti seguivano Tony.
Il cantato è arrivato verso la fine, con Marco, Zikiki e Mimi che improvvisavano. Olaf (Hund) è arrivato al secondo giorno, quindi le strutture di base erano già lì, e ci siamo scambiati idee di melodia. Sfortunatamente Erol non è stato in grado di prendere parte all’ultimo giorno di prove, quando abbiamo registrato sul multi-traccia, visto che oltre a un artista è anche Direttore dell’Istituto Nazionale di Etnologia e aveva impegni improrogabili, per cui non è rientrato nella registrazione multi-traccia.
Tuttavia, era importante per tutti che lui rientrasse nell’album, visto che era stato parte integrante del processo creativo. Io stavo registrando un’altra cosa con lui al tempo, una canzone che voleva usare per il suo album, e quando è venuto in studio io stavo lavorando a una strumentale. Ha immediatamente chiesto di cantarci sopra, e la canzone è diventata “Mon ami Tezin”. In quel momento c’era un’epidemia di chikungunya e lui aveva la febbre alta, cosa che penso abbia conferito alla sua voce quella patina sognante. “Poze” è arrivata dopo—Erol è venuto nello studio di Olaf a Parigi una sera, dopo un concerto, e ha aggiunto la voce a una strumentale di Olaf, e poi io ho aggiunto la chitarra e Tony ha messo la batteria su entrambe le canzoni. A quel punto mi ero già trasferito in Mali, e penso che la chitarra sia più influenzata dal Sahara che dai Caraibi.
Tony Allen / Foto di Bruno Lemonnier, per gentile concessione di Glitterbeat Records
Dato che il gruppo proviene da varie band haitiane, si è creata una tensione creativa tra i musicisti?
C’erano svariate personalità forti, confinate in un piccolo spazio con la pressione di dover creare un repertorio che combinasse una varietà di stili differenti in pochi giorni, e doveva essere perfetto perché l’avrebbero suonato nella piazza principale e in diretta TV nazionale. Quindi un certo attrito era in evitabile. Scorrevano anche fiumi di rum.
A ogni modo il fatto che tutti, senza eccezioni, sono stati obbligati a lasciare le proprie zone di comfort e trovare uno scambio e un dialogo con musicisti che non conoscevano, ha creato un’energia e una tensione creativa uniche.
L’unico concerto è stato, brevemente, interrotto da un lacrimogeno esploso sul palco. Si è trattato solo di pubblico troppo esuberante o è stato un gesto politico?
Girava insistentemente una voce di cui non posso garantire l’affidabilità—ma sembra plausibile—che l’attacco con il gas lacrimogeno sia stato provocato dal fatto che c’era un altro evento alla stessa ora non molto lontano a cui si era presentato poco pubblico, e gli organizzatori avrebbero avuto questa brillante idea per spostare un po’ di gente da un luogo all’altro. Abbiamo effettivamente perso una parte del pubblico, ma una volta diradato il fumo molti dei partecipanti sono tornati, e il numero di spettatori è rimasto più che dignitoso.
Immagino che siate rimasti molto delusi dalla fallita registrazione del concerto. L’idea di usare il materiale da sala prove è arrivata immediatamente?
Non avere una registrazione accettabile del concerto è stato una delusione, ma è una possibilità da mettere in conto quando si tratta di un evento unico, anche in location più ordinate di Haiti. È anche per questo che abbiamo registrato sul multi-traccia alle ultime prove, così quando siamo tornati dopo il concerto Olaf, Jean-Phi e io abbiamo ascoltato velocemente alcuni estratti delle sessioni. La cosa più deludente dopo il concerto è stato scoprire che l’unico canale che non funzionava era quello della voce principale, ma che era entrata in sottofondo in ogni altro microfono perché c’era una cassa spia nella stanza. Voleva dire che per sovraincidere le voci, era necessario cantarle precisamente uguali a quelle originali, che spesso erano improvvisate. I cantanti non erano molto preoccupati, ma alla fine di giorni e giorni di registrazioni frase per frase a casa mia, eravamo tutti molto stanchi.
Foto di Bruno Lemonnier, per gentile concessione di Glitterbeat Records
Consideri il disco un documento fedele della visione iniziale o più un trionfo nell’aver salvato qualcosa di grandioso da un processo di registrazione complicato?
Per quanto ci fosse l’idea di mettere insieme tutti questi elementi diversi, credo che nessuno sapesse che risultato aspettarsi. Penso che fotografi molto bene l’atmosfera, energia e spontaneità in un modo che, probabilmente, sarebbe andato perduto o appiattito con una registrazione più ordinata e convenzionale. Allo stesso tempo, avere una registrazione dritta, pulita, con tutti gli strumenti ben separati ognuno sulla sua traccia avrebbe reso il mixaggio e l’editing e l’arrangiamento molto, molto più facili, per cui siamo anche molto soddisfatti di essere riusciti a estrarre un disco di cui andiamo orgogliosi da un materiale estremamente grezzo.
Essendo un americano medio che parla soltanto inglese, mi trovo in svantaggio. Qual è l’argomento generale? Avete parlato in anticipo dei soggetti da coprire, che si trattasse di amore o politica o altro? C’erano argomenti vietati o inevitabili?
Non c’è stata alcuna discussione riguardo il contenuto dei testi o alcuna materia off-limits. Alcune canzoni sono canti tradizionali haitiani, come “Wongolo”, “Bade Zile”, “Poze” e “Mon Ami Tezin”. Per esempio, quest’ultima si basa su una favola in cui una giovane ragazza, mentre prende l’acqua al fiume, fa amicizia con un pesce magico e da quel momento l’acqua che lei porta alla sua famiglia è buonissima, mentre quella che porta suo fratello non lo è. Lui si ingelosisce e comincia a spiarla, scopre il suo secreto e racconta tutto al padre, che uccide il pesce. Quando lei capisce cos’è successo, scoppia in un fiume di lacrime, e gradualmente si scioglie finché non rimane soltanto una pozzanghera d’acqua. “Chay la lou”, il cui testo è stato scritto da Marco Pierre durante la session, significa “il peso è grande” e parla di rimorso e senso di colpa.
Se l’album viene ricevuto positivamente, pensi che il collettivo sarà in grado di farne altri? O sarebbe logisticamente impossibile?
Sarebbe sicuramente problematico dal punto di vista logistico, e richiederebbe una grande quantità di risorse e di organizzazione, ma non è totalmente fuori discussione. La risposta iniziale all’album è stata molto positiva, e ci sono già state delle richieste riguardo alla possibilità di suonare dal vivo. Se ci sarà adeguata richiesta, considereremo senza dubbio ogni possibilità.