Raccontare storie è il miglior antidoto a questa politica – Intervista a Michela Murgia

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Nel 1979 il sindaco di Ulassai, un piccolo comune in provincia di Nuoro, in Sardegna, aveva chiesto all’artista Maria Lai di realizzare un monumento ai caduti in guerra per il paese. Lai, che lì era nata nel 1919, si rifiutò dicendo che avrebbe preferito fare qualcosa che avesse senso per i vivi. Così, l’8 settembre del 1981, legò interamente il paese con 27 km di nastro di cotone celeste. L’impresa fu compiuta assieme agli abitanti di Ulassai, che annodarono il filo casa per casa, fino ad arrivare in cima alla montagna che sovrastava il centro abitato.

Al di là della resa finale, quello che è più interessante di “Legarsi alla montagna” è la genesi: per dieci mesi l’artista sarda trattò con i suoi conterranei per convincerli a partecipare all’opera e mettere da parte dissapori e litigi pluri-generazionali.

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La storia di Maria Lai è tra quelle contenute nell’ultimo libro di Michela Murgia, Noi siamo tempesta. Storie senza eroe che hanno cambiato il mondo, che racconta vicende di persone comuni che hanno compiuto grandi imprese grazie alla collaborazione, alla fiducia e al contributo di altri. Il 10 luglio la scrittrice ne parlerà durante un incontro al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, che all’artista sarda dedica la mostra “Maria Lai. Tenendo per mano il sole.

Ho contattato Murgia, e abbiamo parlato del significato politico di storie che raccontano imprese collettive e di persone che dissentono.

VICE: Come mai la scelta di parlare di Maria Lai?
Michela Murgia: La domanda dovrebbe essere: “Come mai non parlano tutti di Maria Lai?” È stata una delle voci più significative dell’arte contemporanea della seconda parte del ‘900. È un’artista che è stata riconosciuta a tutti i livelli, più all’estero quasi che in Italia. Questa del Maxxi è una specie di restituzione simbolica per una donna che ha veramente cambiato la storia dell’arte.

Prima che lo facesse lei in Italia nessuno aveva mai fatto una performance di arte relazionale, che è quella cosa per cui non basta la volontà e l’intenzione dell’artista, ma è necessario che qualcuno partecipi ed entri a fare parte dell’opera. In “Legarsi alla montagna” la vera performance sono quei mesi in cui Lai cerca di convincere persone che tra loro nemmeno si parlano a legare le case le une alle altre.

E ci sono due cose belle in questo: uno è che lei insista per farlo, e due che la sua comunità creda così tanto alla verità della performance, che si rifiuta di farla propria se non corrisponde a quello che sente.

Oltre a quella di Lai, il tuo libro parla di storie di persone comuni che hanno compiuto imprese facendo squadra con altri. È un tipo di narrazione a cui non siamo molto abituati.
Perché siamo schiavi della retorica dell’eroe. Sono storie poco raccontate perché si innesca meno il meccanismo dell’immedesimazione. Ciascuno tende a immaginare se stesso dentro le storie, ed è più difficile che questo avvenga in un gruppo. In realtà è un meccanismo perverso, perché un solo personaggio ti restituisce un solo modo di stare dentro la realtà e di provare a cambiarla. Quello che puoi fare tu si ferma a un certo punto, quello che puoi fare con qualcun altro invece può moltiplicare le potenzialità all’infinito.

Raccontare queste storie ha una valenza politica?
Totalmente, e questo libro in assoluto è uno dei più politici che ho scritto. È politico perché si rivolge ai ragazzi, cioè alla generazione dei cittadini che verranno. C’è un po’ una dichiarazione di resa dentro, è come se la nostra per certi versi fosse già perduta. E poi per il tema, che in questo momento è particolarmente attuale: in un paese che si sta consegnando mani e piedi al “capitano,” raccontare storie di squadra diventa contronarrativo rispetto alla politica che stiamo vivendo.

A proposito di questo: a gennaio, durante un altro caso Sea-Watch, sei scesa in piazza per manifestare contro i “porti chiusi.” Anche opporsi a determinate politiche è un’impresa collettiva?
Certo che lo è, e dovrebbero farlo tutti. Dovrebbe risultarci insopportabile che ci siano politiche nel nostro paese democratico o sedicente tale che consentono e addirittura strutturano possibilità per la morte in mare. Questo mi sembra doveroso come cittadina, e ancora di più come intellettuale, perché quando hai la possibilità di influire anche solo su una minima parte dell’opinione pubblica, stare in disparte davanti a cose come queste non è perdonabile.

Per le tue prese di posizione sei stata attaccata direttamente dal ministro dell’interno, ed è successo lo stesso ad altri personaggi noti. C’è un problema con il dissenso in Italia?
In Italia in questo momento c’è un problema serissimo con la manifestazione del dissenso. Le persone normalmente non si rendono conto di aver perso una parte delle libertà espressive, perché la maggior parte non le usa comunemente, per cui pensa che siano lì e quando gli serviranno le troverà.

Invece chi milita, chi esprime tutti i giorni una posizione politica spesso in disaccordo con il potere, misura continuamente quanto si siano ridotti gli spazi di espressione di un contrasto. Che poi l’espressione di un contrasto è l’elemento fondativo della democrazia. Se io non posso esporre uno striscione con scritto “Ama il prossimo tuo,” esattamente che paese è questo?

Le donne che dissentono danno più fastidio?
Enormemente più fastidio. Se la capitana della Sea Watch 3 Carola Rackete fosse stata un uomo, il caso sarebbe stato raccontato dai giornalisti come uno scontro tra titani. “Poseidone in mare e Zeus a terra”: si sarebbero sprecate parole come duello, sfida, scontro. Perché tra uomini anche quando si è contrastivi ci si legittima.

Carola, invece, è una donna, e non ha solo cambiato metodo, ha proprio cambiato campo. Quando le chiedevano “ha visto cosa ha detto il ministro di lei?” lei ha sempre ribattuto: “Non ho tempo di rispondere, Salvini si metta in fila.” Questa cosa detta da una donna per lui è inaccettabile—e infatti l’ha fatto uscire proprio dai gangheri.

A proposito di Carola Rackete, mi hanno colpito le minacce e gli auguri di stupro che le sono stati rivolti, dal vivo e sui social. Usare lo stupro per colpire una donna non è una novità, ma credi che in generale per quanto riguarda i commenti violenti si sia superato qualche limite?
Naturalmente si è superato. Perché prima il tizio che commentava al bar era un solitario che non produceva permanenza. Oggi abbiamo un ministro dell’Interno, uno che dovrebbe garantire la sicurezza degli italiani e delle italiane, che posta le nostre fotografie sui suoi social e dice “Ecco chi mi contrasta, che cosa gli direste?” Nel momento in cui questo metodo diventa istituzionale, la violenza è pedagogia di stato.

Secondo te qual è il ruolo del femminismo oggi?
Sta continuando a cambiare la storia, anche perché si è evoluto con un’intelligenza che altri movimenti non sono stati capaci di sviluppare. In particolare sull’intersezionalità: il femminismo di oggi non si occupa più solo di donne, ma anche di questioni razziali, questioni di classe. Il punto non è più migliorare la nostra posizione dentro al sistema, ma cambiare il sistema, perché tutto quello che opprime noi, opprime anche altre categorie.

I partiti al potere odiano—e non ne fanno alcun mistero—i movimenti femministi. Ma anche buona parte dell’opposizione fatica a intestarsene battaglie e tematiche. Perché ?
Credono che questa cosa faccia loro perdere consenso. La sinistra, anziché costituire un’alternativa, continua a inseguire la destra sulla sua agenda. Ma io se devo scegliere tra una destra originale e una destra finta preferisco l’originale, no?

Escluse alcune voci che si stanno facendo sentire in questi mesi, se ad esempio guardiamo al PD le posizioni sono esattamente quelle di quando governavano: democristiane, centroidi. Se sei a sinistra e vai al centro, a casa mia significa che vai a destra.

Esiste un pericolo fascismo in Italia in questo momento? In molti ritengono di no perché Casapound e Forza Nuova hanno preso alle ultime elezioni europee percentuali bassissime.
Il pericolo fascismo non riguarda Casapound o Forza Nuova, riguarda il metodo che stanno utilizzando le persone che governano. Il fatto che quei partiti siano allo zero virgola significa semplicemente che, a questo giro, ha vinto il voto utile. Gli stessi militanti di CPI o FN si sentono meglio rappresentati da Matteo Salvini. Direi che questa non è una buona notizia.

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