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Cosa fa uno psicologo per cyborg, e perché presto ne avremo bisogno

Qualche tempo fa, intervistando Nicola Vitiello, project manager di CYBERLEGS—progetto di sviluppo per esoscheletri che supportano il movimento fisico durante la vecchiaia—sono giunto alla conclusione che il nostro futuro è quello di trasformarci in nonni cyborg. Una volta che l’articolo è stato pubblicato, uno dei commentatori su Twitter avvertiva che siamo già tutti cyborg, dobbiamo solo rendercene conto. Incuriosito da questa affermazione, ho deciso di approfondire la mia conoscenza del suo autore, uno dei primi, se non il primo, medico psichiatra e psicoanalista per cyborg: Augusto Iossa Fasano.

Motherboard ha sempre trattato temi cari ai movimenti transumanisti, uno degli aspetti che in effetti non avevamo ancora coperto è proprio la tutela della psiche dell’uomo bionico, quale occasione migliore per parlarne direttamente con un esperto?

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Motherboard: Buongiorno, perché ritiene che possiamo definirci tutti cyborg?

Augusto Iossa Fasano: il preludio fondamentale all’identità cyborg è il processo di espansione del corpo per mezzo di una protesi esterna. Ne esistono esempi antichissimi—si pensi ai reperti dell’uomo di Similiaun sul quale sono stati reperiti ben 61 tatuaggi oltre a fori sui lobi delle orecchie.

Nell’homo habilis e sapiens, l’identità protesica è anche alla base del tentativo di prolungamento della mano tramite utensili esterni come il chopper e la clave—processo rappresentato, per esempio, da Kubrick in 2001 Odissea nello Spazio con la famosa scena dell’osso.

Quindi chiunque abbia un piercing o un tatuaggio può essere definito cyborg?

No, non esattamente. Gli elementi discriminanti tra una qualsiasi protesi esterna e l’identità cyborg sono l’elettrificazione, l’elettronica e la nascita dei supporti impiantati stabilmente. Questo aspetto ha preso piede dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’elettricità è entrata anche nel mondo della medicina e della chirurgia.

Più tardi, negli anni Sessanta, la fantascienza ha contribuito a rendere popolare il termine comune Cybernetic Organism per indicare un qualsiasi organismo integrato con elementi cibernetici. L’idea è stata poi approfondita da pensatori come Donna Haraway attraverso il suo manifesto cyborg.

E la sua definizione di cyborg corrisponde a quella di Donna Haraway?

La mia definizione si estende ulteriormente: siamo tutti cyborg in quanto portatori di materiale estraneo alle cellule del nostro corpo naturale. Ritengo che si debbano studiare gli aspetti della personalità cyborg che coinvolgono anche chi si sottopone a pratiche non comunemente identificate come tali, ad esempio l’inseminazione artificiale, la chirurgia estetica e persino la semplice assunzione di psico-farmaci. L’errore di fondo è pensare che esista l’uomo nudo: la stessa identità umana è artificiale, e quindi protesica.

Cosa distingue i cyborg della fantascienza da quelli della vita reale?

Da Verne fino agli anni Quaranta e Cinquanta, lo scarto era notevole. Ora la rappresentazione del cyborg data dall’immaginario fantascientifico e la condizione umana del vecchietto con il peacemaker e il defibrillatore sono praticamente identiche, certo, persiste quella sorta di limite asintotico per il quale certe nuove opere, che siano film o romanzi, anticipano quanto verrà realizzato nella nostra vita quotidiana ma non è più una regola generale—spesso è la realtà a superare la fantascienza.

Perché lei, da psicoterapeuta, ha deciso di occuparsi di cyborg?

Ho iniziato nella pratica generalista, assistevo pazienti affetti da disturbi comuni: ansia, insonnia, depressione, attacchi di panico. Molti di loro o dei loro parenti avevano subito degli interventi che spesso andavano a buon fine, ma che sembravano avere delle conseguenze psicologiche. Ho cercato di correlare una delle cause di quello che all’apparenza si presentava come un problema puramente psicologico, all’ambito psico-fisico.

E l’incrocio di casistiche è riuscito. Tuttavia, questo genere di studi sono molto costosi e in certi casi non sono graditi da tutti i colleghi medici. Chi, al contrario, ha sempre apprezzato il nostro intervento sono stati i pazienti: erano contenti che qualcuno si interessasse alle conseguenze complessive che le loro vicende mediche avevano sulla loro persona.

Prendiamo ad esempio la chirurgia estetica: è dimostrato che l’intervento al seno incrementi il tasso di depressione e dei suicidi.

E cosa avete scoperto?

Abbiamo scoperto che le persone a cui sono applicati impianti permanenti sviluppano vulnerabilità ulteriori. L’evento che rende cyborg destabilizza drammaticamente la persona, ed è necessario un intervento di counseling o brevi terapie che ottimizzino anche a livello psicologico i risultati ottenuti attraverso la medicina e la chirurgia.

In molti casi ho riscontrato un aumento dell’impulsività e un’aggressività più difficile tenere a freno. Certi squilibri sono frutto della mancanza di protesi esterne, che danno la possibilità all’individuo di realizzare i propri limiti, e quindi di stabilizzarlo.

Invece la protesi interna, invisibile e non liberamente rimovibile, spesso causa manifestazioni autodistruttive, come se la persona avvertisse che l’inserto non le appartiene. Mi sono capitati pazienti che, dopo aver subito il trapianto del fegato, indulgevano in pratiche autodistruttive come l’alcolismo e sembravano non riuscire ad accettare il fatto che fosse stata salvata la loro vita.

Il cyborg, quindi, è più fragile.

Esatto. Molti hanno in mente l’idea di un potenziamento, come in Robocop, ma il cyborg in realtà è un essere alla ricerca di una nuova identità. Non si parla molto delle conseguenze psicologiche di certi tipi di interventi.

Prendiamo ad esempio la chirurgia estetica: è dimostrato che la mastoplastica addittiva e riduttiva incrementi il tasso di depressione e dei suicidi. Spesso chi sceglie di sottoporsi a questi interventi possiede un identità vacillante, di fatto si illude di poter raggiungere un certo ideale estetico. Molti chirurghi, pur capendo che la persona non è stabile, decidono di operarla lo stesso.

Vuole dire che la chirurgia plastica crea problemi, più che risolverli?

Secondo alcuni studi la chirurgia risolve i problemi psicologici delle persone, ma si tratta di dati raccolti analizzando pochi casi a tre mesi di distanza dagli interventi. Io credo che, prima di affermare una cosa del genere, sia necessario uno studio esteso a migliaia di persone e follow up a distanze di tempo meno ravvicinate—sei mesi, un anno, quattro anni.

Prima o dopo un certo tipo di interventi, la persona ha bisogno di recuperare un suo senso di identità, mettendo in gioco le sue capacità di adattamento cognitivo, razionale ed emotivo-affettive nei confronti dell’ambiente. Il messaggio implicito dell’individuo bionico è “ridatemi un pezzo della mia identità protesica”.

Insieme ai colleghi del suo studio lei ha teorizzato il Paradigma Bionico-Protesico. Di cosa si tratta?

Volendo semplificare: il fenomeno Bionico Protesico (BP) si registra ogni volta che all’introduzione di un oggetto nel corpo a scopo di cura, il soggetto reagisce con un ausilio che monta all’esterno a scopo funzionale o ornamentale. Si tratta di uno modo per supplire agli scompensi identitari derivanti dall’aver assunto la configurazione cyborg.


Alex Zanardi

Ci può fare qualche esempio?

Parliamo di personaggio famosi. Un storia finita bene è quella di Alex Zanardi: il grande pilota d’auto che perse le gambe in seguito a un incidente d’auto, si fece impiantare delle protesi esterne e riprese a correre, rilanciando la sua sfida contro la morte. Così si diede al paraciclismo diventando campione paraolimpico. L’uso delle protesi esterne ha contribuito a incanalare le sue energie in modo positivo, e non autolesionista.

Capisco. A quali altri progetti state lavorando?

Intendiamo creare un network di chirurghi e psicologi che da tempo sono giunti a conclusioni simili alle nostre, per contribuire alla costruzione di un paradigma unificato. All’estero viene condotto un buon lavoro nel caso di amputazioni per mine antiuomo e petardi, ma solo sul piano comportamentale per riabilitare la persona. Ma esistono anche gli aspetti quotidiani, gli affetti, per cui il nostro lavoro andrebbe a colmare una lacuna.

Inoltre stiamo sviluppando una tecnica di psicoterapia breve con cicli di lavoro da uno o due mesi al massimo che fornisca una risposta tempestiva ai pazienti. Molti amputati e trapiantati non sono in pace con la loro nuova condizione, ed è un peccato perché basterebbe poco a condurli verso un senso di identità aggiornata. Al contrario, spesso finiscono per mandare in crisi persino i loro familiari e gli operatori sanitari: certi medici arrivano addirittura ad essere trascinati in giudizio.

Un altro dei nostri obiettivi, in effetti, è trovare una azienda di assicurazioni che finanzi le nostre ricerche, in fondo il nostro lavoro contribuirebbe a ridurre i contenziosi, facendo risparmiare anche molti soldi.