L’ultimo libro di Veronica Raimo non sarebbe potuto uscire in un momento più adatto

Ho letto Miden dallo schermo del mio iPhone mentre ero in treno tra l’Italia e la Svizzera. Mi sono procurato un gran mal di testa, ma oltrepassare il confine e le Alpi mi ha aiutato a figurarmi il luogo immaginario in cui Veronica Raimo ha ambientato il suo romanzo, che—senza ‘volerlo’, dato che la stesura risale al pre-Weinstein—irrompe nel dibattito contemporaneo per consegnarci una storia che tocca, tra gli altri, un tema come la violenza di genere.

Miden, la città-utopia-distopia che dà nome al libro, l’unica uscita rinvigorita dal “crollo” (del capitalismo?), sembra una comune anni Settanta fondata sui rigidi valori del modello economico scandinavo ed è un luogo “al primo posto per qualità della vita.” Ora ha accolto la coppia di protagonisti del libro—il Compagno e la Compagna—scappati dal Paese d’origine che li aveva messi ai margini. La loro quotidianità viene sconvolta quando una studentessa—la Ragazza—si presenta dalla Compagna e accusa di violenza il Compagno, suo ex professore di filosofia, a due anni di distanza dalla loro relazione. Il processo che si avvia e che coinvolge tutta la comunità, chiamata a decidere sull’espulsione del Compagno da Miden, offre lo sfondo per raccontare con delicato cinismo e acume molte dinamiche della vita di coppia.

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Penso che questo connubio tra la profondità conferita ai personaggi e la narrazione dell’attualità che sta sullo sfondo renda il terzo romanzo di Veronica Raimo, uscito in questi giorni, un lavoro destinato ad arricchire il dibattito sui temi più discussi della contemporaneità. Al tempo stesso non faccio fatica a inserirlo all’interno del panorama letterario internazionale che sta raccontando i sentimenti, gli individui e il sesso nella maniera più interessante in termini di linguaggio narrativo: da Catherine Lacey a Sally Rooney, ai revival di I love Dick e Clarice Lispector. L’ho incontrata per parlare di tutto ciò.

VICE: Le vicende raccontate in Miden si aprono con il trauma della scoperta di una violenza sessuale, descritto come “trauma 215”. Di che si tratta?
Veronica Raimo: Nel romanzo parlo di “Trauma 215” senza mai esplicitare a cosa si riferisca, ed è una scelta strutturale per creare una dissonanza rispetto alla società di Miden dove tutto è “normativizzato”, tanto che esiste un “Codice Traumatico”. Ho provato a ipotizzare una specie di meta-trauma: il trauma che elaboriamo nel renderci conto di aver subito un trauma. Se l’elaborazione è un processo che avviene in un arco temporale, qual è il punto in cui possiamo cristallizzare questa elaborazione e arrivare a un momento di verità?

Eppure parte del dibattito sui recenti fatti di cronaca è stata attorno ai tempi di elaborazione del trauma di aver subito una violenza sessuale. Penso a una frase del tuo libro: “Io ero il Perpetratore. Quello che perpetra violenza. La ragazza la subisce. Lei è la Subente. La Violenza è questa specie di palla che le rimbalzo addosso e lei non si scansa, però quasi due anni dopo si rende conto che è piena di lividi. E prima dov’erano i lividi? Prima lei non lo sapeva che poteva anche scansarsi.” Ecco, sembra un articolo di un quotidiano italiano dopo il caso Weinstein.
Ho scritto il libro prima del caso Weinstein, ma ci sono stati due eventi precedenti che mi hanno suggestionato. Anzitutto Linda Lovelace, che nella sua biografia racconta di un’intera vita di abusi e minacce da parte del marito, compreso l’essere stata costretta a girare Gola profonda. Nel 1986 Lovelace ha dichiarato, “Ogni volta che qualcuno vede quel film, sta assistendo a uno stupro.” Eppure molti si sono chiesti perché lei non si fosse rifiutata, come se non esistessero condizionamenti o semplicemente l’incapacità a farlo. Il secondo episodio è legato a Maria Schneider e alla famosa scena del burro in Ultimo tango a Parigi. “Non volevo che Maria recitasse la sua umiliazione e la sua rabbia, ma che le provasse,” aveva spiegato Bertolucci, spostando il dibattito su cosa fosse lecito fare in nome dell’arte. Per me la questione era piuttosto: perché lui voleva che lei le provasse?

In una lunga intervista apparsa proprio in questi giorni su La Repubblica, Bertolucci ricorda che qualcuno aveva invocato il sequestro del film. Il punto non sono la censura o le punizioni esemplari, ma indagare cosa ci fosse di così forte e vitale dietro quel desiderio di umiliazione. Ciò che ho tentato di fare nel mio romanzo è un’indagine simile intorno alla natura del desiderio, ai deliri narcisistici che prendiamo per forme d’amore, alla violenza che esercitiamo sugli altri a diversi livelli di consapevolezza.

E però “punizioni esemplari” ci sono state—giustamente—dopo le prime denunce del caso Weinstein.
Spero soltanto che oggi non si prenda una deriva di sospensione del garantismo, e soprattutto che vicende legate a personaggi famosi come Louis CK o Kevin Spacey non diventino casi eclatanti narrati al fine di generare una specie di godimento “spettacolare”. Non bisogna dimenticare discorsi con meno appeal su realtà funzionanti e già esistenti come i centri antiviolenza, che magari non ricevono finanziamenti. Ecco, io non vorrei che anche in questo caso la questione di classe diventasse un discrimine, come curarsi i denti: solo se si hanno i soldi ci si può permettere di denunciare e di affrontare le conseguenze. E dall’altro lato: solo se si è ricchi e potenti la caduta in disgrazia suscita un interesse.

Cosa pensi in questo senso del movimento #metoo? Secondo te potrà portare a una maggiore sensibilizzazione sul tema delle molestie?
È un discorso complesso, e probabilmente un hashtag che racconta storie molto diverse tra loro è per forza rischioso. Quando ho letto le testimonianze raccolte sotto l’hashtag #quellavoltache, mi è capitato in alcuni casi di pensare, “Per me questa non è forma di violenza.” Ma poi mi sono resa conto che il mio era un falso ragionamento. Possiamo empatizzare con il dolore degli altri, oppure scegliere di non farlo, ma non possiamo provarlo. In un’intervista, David Pears ha detto a proposito di Le ricerche filosofiche di Wittgenstein: “Se si vuole comprendere il linguaggio del dolore, bisogna porlo al suo posto proprio nella vita umana e prendere le mosse di lì, senza intellettualizzarlo partendo da un uomo che sa tutto del proprio dolore e che non è affatto certo del dolore degli altri.”

Cosa pensi abbia sortito il dibattito sui nuovi femminismi fino a oggi, anche in termini generazionali?
Quello che vedo che sta veramente cambiando è l’insorgere di una certa insofferenza nel liquidare in maniera fintamente dissacrante il concetto di femminismo, o nel trasformarlo in una parodia. Questo permette di parlarne in differenti modi e contesti, facendone emergere la natura, che non è quella di un pensiero unico e totalitario o di una macro-categoria fuori moda. Il fatto che si torni a parlarne, spero, farà anche crollare quella sorta di bonario “maternalismo” di chi è si è trovato al momento giusto nel posto giusto a fare le lotte giuste. Le ragazze e le donne di oggi faranno le loro lotte: vorrei che non ci fosse la graduatoria di chi è stata “più femminista” delle altre.


Guarda la nostra intervista a Chiara Barzini:


E dove collochi Miden all’interno di questo dibattito?
Per una contingenza che non potevo prevedere, Miden si è ritrovato a intercettare una serie di questioni legate all’attualità e non posso che prenderne atto, perché quell’attualità fa parte dei miei giorni, ci vivo dentro. Ma io ho scritto un romanzo, ho creato dei personaggi e attraverso di loro ho raccontato una storia. Chi scrive un romanzo si limita a questo, almeno io. Quindi non lo colloco da nessuna parte all’interno di questo dibattito, posso solo augurarmi che entri all’interno di un dibattito letterario.

Un altro tema che affronti nel tuo romanzo è quello generazionale: parli di una generazione perduta dopo “il crollo”, in cui “l’infelicità era svanita dai discorsi, c’erano solo disagio, frustrazione, immobilismo,” ma soprattutto parli di una generazione che si sente ancora figlia. Quanto c’è del nostro vissuto di oggi, nel disegnare quella generazione?
La mia generazione non ha ottenuto una vera emancipazione dai genitori in termini economici e di conseguenza si considera che non abbia fatto un vero passaggio verso l’età adulta o la responsabilità. Io penso che da un punto di vista esperienziale, invece, la mia generazione abbia un vissuto molto più ampio rispetto a quelle che le hanno precedute: abbiamo alle spalle amicizie e amori perduti, matrimoni finiti, abbiamo cambiato lavoro, case, città, lingua, convivenze. Abbiamo fatto tantissime scelte, molte più di quante ne abbiano mai fatte i nostri genitori.

Prendi anche il fatto che molti di noi sono in analisi: io non lo vedo solo come un sintomo di malessere, ma come un tentativo di diventare persone migliori e di mettersi in crisi. Il senso di responsabilità per me non coincide solo col senso del dovere, ma anche col tentare di capire cosa ci fa stare bene.

Miden è uscito per Mondadori.