La sera del 12 giugno 2018 oltre 250 persone hanno sfilato a Sestri Ponente chiedendo giustizia per Jefferson Tomalà, il 21enne ucciso domenica pomeriggio da un agente di polizia durante un TSO. Il poliziotto, che ha sparato cinque, forse sei colpi di pistola al torace per difendere un collega aggredito, è attualmente indagato per eccesso colposo di legittima difesa. La procura ha aperto—e subito chiuso causa decesso—un fascicolo anche per Tomalà, accusato di tentato omicidio per aver gravemente ferito con un coltello l’agente più anziano.
Come sempre in questi casi, l’episodio è complesso e controverso e la versione dell’accaduto è cambiata più volte con le testimonianze delle numerose persone che quel giorno erano presenti a casa di Jefferson (otto agenti, almeno quattro familiari, personale medico non specificato).
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A far parlare sono state però soprattutto le dichiarazioni di Salvini e del prefetto Gabrielli, accorso subito al capezzale dell’agente ferito. Il ministro, mentre si destreggiava con una crisi umanitaria, si è espresso con uno dei suoi soliti, eloquenti tweet: “Non solo da ministro, ma da cittadino italiano e da papà sarò vicino in ogni modo possibile a questo poliziotto che ha fatto solo il suo dovere salvando la vita a un collega,” con l’hashtag #iostoconchicidifende.
Gabrielli, invece, ha rilasciato una dichiarazione appena uscito dall’ospedale, nella quale sostiene di aver “trovato bene entrambi gli agenti,” definisce “risolutivo” l’intervento del collega più giovane, anche se “queste vicende lasciano sempre un aspetto di amarezza, perché quando muore una persona, anche se è una persona che delinque, che si è posta in una condizione di offesa nei nostri confronti, credo che non sia mai una cosa positiva.”
I toni sono più pacati e meno provocatori di quelli salviniani e in apparenza il discorso può sembrare la misurata presa d’atto di un fatale incidente nel quale, pur rispettando il protocollo, il risultato non è stato dei migliori (“un aspetto di amarezza”), perché la morte di una persona “non è mai una cosa positiva,” anche se “è una persona che delinque.”
Peccato che Jefferson Tomalà non fosse nemmeno un delinquente, ma un giovane padre con un lavoro stabile e un problema medico. E questo è solo uno degli aspetti che il discorso di Gabrielli affronta in modo volutamente vago.
Facciamo un po’ d’ordine sulla vicenda. Domenica pomeriggio la madre di Jefferson è preoccupata: vede che il ragazzo è in uno stato alterato, agitato e confusionale, che brandisce un coltello da cucina con il quale lei teme si possa ferire—e infatti alcuni tagli auto-inferti sono stati rivenuti sul suo corpo dal medico legale. I carabinieri erano già intervenuti la sera prima a causa di una lite molto accesa tra Jefferson e la madre, in seguito alla quale la compagna del ragazzo aveva deciso di andarsene momentaneamente insieme alla loro figlia di due mesi.
Per i familiari di persone in preda a una crisi psicotica—soprattutto quando si tratta di uomini giovani e forti—c’è poco da fare se non richiedere un intervento delle autorità. La donna chiama quindi il 118, convinta che sarebbe accorso solo del personale sanitario, senza forze dell’ordine: “Chiedevo l’intervento di un medico, invece sono arrivati i poliziotti. Aveva preso un coltellino dalla cucina e avevo paura che si facesse male. Ma io non temevo per me, lui era un bravissimo ragazzo.”
In realtà in casi di sospetto TSO l’intervento di agenti che affianchino la guardia medica e gli ambulanzieri è previsto dal protocollo, per salvaguardare l’incolumità di tutti i presenti. Di solito la polizia viene chiamata proprio dal personale medico se il paziente (perché di questo si tratta) si mostra violento e potenzialmente pericoloso.
Stando alle prime ricostruzioni, basate sulle dichiarazioni della questura, la polizia invece è stata chiamata direttamente dalla madre e il colpo che ha ucciso Jefferson è stato accidentale. Il Fatto Quotidiano del 10 giugno riferisce infatti che: “A un certo punto del colloquio con gli agenti, secondo quanto riferito dalla questura, il ventunenne all’apparenza sembrava essersi calmato. Si è seduto su un letto ma quando un poliziotto gli si è avvicinato con un movimento fulmineo ha afferrato un coltello da sotto le lenzuola e ha aggredito l’agente. Nella confusione della lotta il giovane è stato colpito con un colpo di pistola ed è morto.” In questa prima ricostruzione non tornano almeno tre punti: la polizia, che tutti in casa negano di aver chiamato; l’estrazione a sorpresa del coltello, che invece era in possesso del ragazzo fin dall’inizio, e il numero di colpi sparati.
Le versioni successive sono più ricche di particolari e più plausibili, ma non riportano mai la testimonianza del personale medico. Ciò che sembra emergere è che il grosso della trattativa per il ricovero sia stata condotta dalla polizia: ben otto agenti accorsi sul posto, che hanno allontanato i familiari dalla stanza e che per disarmare il ragazzo hanno spruzzato dello spray urticante.
Nella piccola camera di Jefferson—che stando alla madre è stato tutto il tempo sul suo letto—l’effetto è stato di panico: il ragazzo ha iniziato a brandire il coltello colpendo più volte il sovrintendente. L’agente più giovane ha quindi reagito sparando una serie di colpi, uno dei quali ha colpito di striscio il sovrintendente stesso. Secondo la madre, è stato proprio lo spray a innescare la reazione violenta.
I primi a porsi dubbi sull’accaduto sono infatti i parenti stessi: perché usare lo spray? Perché non permettere alla compagna, che era accorsa per vederlo, di entrare? “Io potevo salvare Jeff,” spiega la ragazza: “ma quando sono arrivata, dieci minuti prima che fosse ucciso, i poliziotti mi hanno impedito di entrare nella camera dove si era rinchiuso. Io lo avrei calmato. Poi ho sentito i colpi di pistola, tanti…”
Santiago, il fratello che era in casa domenica pomeriggio, ha aggiunto che secondo lui Jefferson “si sentiva provocato. C’era un poliziotto che si toccava la pistola e si metteva e toglieva i guanti. Lui diceva loro di andarsene, di non toccarlo e che voleva vedere solo la sua compagna e la bambina. Poi mi hanno fatto uscire e non so cosa sia successo. Abbiamo sentito urlare più volte ‘No, no’ e poi abbiamo sentito i colpi di pistola.”
Se le dinamiche precise sono ancora poco chiare, alcune considerazioni meritano di essere fatte. Innanzitutto un trattamento sanitario obbligatorio è una procedura delicatissima, che ha già portato negli anni scorsi a esiti drammatici e che meriterebbe di essere rivisto, sia dal punto di vista normativo che da quello procedurale. In particolare ci sono molte zone grigie su quale autorità sia chiamata ad agire e in che modo, e anche sulla stessa procedura burocratica, che da una parte è complessa per garantire che si tratti davvero di un’estrema ratio dovuta a circostanze limite, ma che fa a pugni con la tempestività che questo tipo di interventi spesso richiede.
In secondo luogo, come in ogni altro TSO, gli agenti non si sono trovati improvvisamente coinvolti in una situazione di pericolo imprevisto, ma hanno partecipato a un’operazione con un preciso protocollo d’azione. Se durante un normale arresto, poi, l’incolumità dell’arrestato è (o dovrebbe essere) considerata fondamentale, a maggior ragione lo si può dire in casi come questi, in cui le forze dell’ordine sono chiamate a tutela sì della comunità, ma anche di un paziente che si trova in una condizione psichica più o meno grave (in genere una crisi psicotica).
Se la presenza della polizia ha le sue ovvie ragioni, l’approccio psicologico, inoltre, dovrebbe essere prevalente in quella che è pur sempre una procedura medica, richiesta spesso da familiari che—come la madre di Jefferson—stanno agendo in primis per salvaguardare la persona cara e che tutta la vita saranno tormentati dal rimpianto di non essersela “sbrigata da soli,” evitando di chiedere aiuto. (E questo aprirebbe un discorso sul grande nervo scoperto del TSO e della psichiatria in Italia, la condizione cioè di formale abbandono in cui si ritrovano le famiglie di malati psichiatrici gravi).
Né Gabrielli né Salvini naturalmente hanno contattato la famiglia della vittima. Gabrielli però una soluzione l’ha pensata: “Presto i poliziotti avranno in dotazione i taser (pistole elettriche),” ha aggiunto dopo la visita all’agente ferito. “Così potranno agire in ulteriori condizioni di sicurezza e non arrecare danno eccessivo alle persone in certi interventi.”
Peccato che i taser non sostituiranno le pistole tradizionali. Di fatto si aggiungeranno come ulteriore arma a disposizione. Un’arma molto pericolosa e potenzialmente letale, come denuncia Amnesty International.
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