E alla fine è arrivato. Dopo annunci su annunci, cancellazioni, smentite, ritardi su ritardi, Jesus Is King è uscito per davvero. Da qualche giorno sta su tutte le piattaforme di streaming e per il momento non ne è ancora stato tolto (con lui—non Gesù, Kanye—non si sa mai).
A un primo ascolto Jesus Is King è stato una mezza delusione, perché è difficile essere all’altezza di un hype come quello che gli si era creato attorno. Credo abbastanza alla buona fede di Kanye, penso che nelle sue mosse ci sia più la spontaneità di un genio pazzo che (soltanto) attentissime operazioni di marketing. E che annunciare dischi che poi non escono e date di uscita che non rispetta siano cose che fa in buona fede. Come credo alle sue sbandate, come quella per Trump prima e quella per Gesù ora.
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È un dato di fatto però che il suo disco precedente non era stato un avvenimento memorabile: Ye, solo sette pezzi per 23 minuti, era stato buttato lì in mezzo a una serie di cinque dischi da lui prodotti, usciti a cadenza più o meno settimanale e nonostante le bontà che conteneva non ha lasciato una grande impronta. Non ha fatto troppo rumore, e se ci pensiamo bene il rumore che dura nel tempo è una delle caratteristiche che rendono i dischi di Kanye i dischi di Kanye.
Non a caso, soltanto tre mesi dopo si è cominciato a parlare di Yandhi, un album che in teoria avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere degno del nome del suo autore. Avrebbe dovuto essere il vero successore di The Life of Pablo, un altro disco lungo e magniloquente, pieno di ospiti e di mille cose diverse tra loro. Avrebbe dovuto essere il disco con cui Kanye si ricongiungeva alle radici africane, registrando sul posto (una testimonianza di questa volontà resta nella sua immagine del profilo su Twitter, che non ha ancora cambiato da allora).
Insomma, Yandhi avrebbe dovuto essere tante cose che non sono state, perché nel frattempo ci si è messo di mezzo Gesù: “Tutti volevano Yandhi / Ma poi Gesù Cristo ha lavato i panni”, rappa Kanye oggi su “Selah”. Sono cominciati i Sunday Service con il coro gospel, arrivati fino al Coachella, e il nono album di uno dei nomi più importanti e influenti della musica contemporanea ha cominciato a prendere la forma che ha ora.
Chiunque sia un appassionato di black music ha—voglia o non voglia, condivida o non condivida—in casa dischi che parlano di quanto siano belli Dio e Gesù.
Il fatto che Jesus Is King sia un disco interamente dedicato al celebrare Dio e Gesù non mi disturba troppo: per quanto sia qualcosa di estremamente distante da me, la storia della musica è stracolma di cose del genere, e chiunque sia un appassionato di black music ha—voglia o non voglia, condivida o non condivida—in casa dischi che parlano di quanto siano belli Dio e Gesù.
Quello che inizialmente mi ha deluso quando ho ascoltato Jesus Is King è il fatto che fosse un’altra volta un disco breve, fatto di poche canzoni, peraltro piuttosto semplici. Non uno di quei kolossal in cui Kanye dà il meglio di sé, quelli che poi andiamo a chiamare “capolavori”. È strano: nel momento in cui, a causa dello streaming oppure per manie di grandezza, molti tendono a fare uscire dischi inutilmente lunghissimi e pieni di ospiti, generi e cose diverse tra loro, generando spesso solo delle versioni meno belle di My Beautiful Dark Twisted Fantasy, l’unico dal quale avrei effettivamente voglia di sentire un disco di un’ora si mette a fare progetti semplici e che non arrivano alla mezz’ora.
A questo aggiungiamo il fatto che su undici pezzi il primo è puramente un coro gospel in cui il titolare non compare e l’ultimo non dura neanche un minuto, ed è dura a considerarli propriamente brani fatti e finiti di Kanye West. Mettiamoci anche che altri due pezzi erano già usciti in forme diverse nei leak di quest’estate, ma manca quello che era forse il più bello di quel gruppo: “We Got Love”, con Teyana Taylor. Quella che resta è davvero poca ciccia.
Poi, però, è successa la solita magia di Kanye, che un disco brutto non lo ha mai fatto e non lo sa fare. Cominciare a supportare Trump e prendersi una sbandata per Gesù, infatti, non ha rovinato quella capacità di scrittura mostruosa a cui ci ha abituato—insieme al suo team di autori, perché da un certo punto in poi i credit dei suoi pezzi hanno cominciato a sembrare i titoli di coda di un film.
L’unico dal quale avrei effettivamente voglia di sentire un disco di un’ora si mette a fare progetti semplici e che non arrivano alla mezz’ora.
E così mi viene da dire che, anche se non è propriamente il disco che volevamo, Jesus Is King è comunque un bel disco. Ascolto dopo ascolto ci si rende conto che, anche se tutto estremamente ridotto all’osso e probabilmente chiuso un po’ di fretta per uscire a tutti i costi—alcuni mix avrebbero forse meritato qualche ora in più—si tratta comunque di un bel disco. Il gospel iniziale è una buona introduzione, “Selah” è l’apertura epica che apre le danze con un mix tra Yeezus e, appunto, un gospel. “Follow God” è un grande pezzo rap classico con un flow da paura—e il solito buon vecchio trick di Kanye che rappa senza farsi problemi anche sopra le parti vocali di un sample che si ripete per tutto il brano.
“Closed On Sunday” è un pezzo un po’ minimale con una punta di elettronica che ricorda le cose più scure di Pablo, con un problemino a livello testuale a cui arriviamo dopo. “On God” è il pezzone generatore di fotta in cui riesce a essere zarro anche parlando di Gesù. “Everything We Need” è un po’ una summa del disco, ottimo esempio di come tenere insieme cori, rap e una base ridotta all’osso. “Water” è un po’ moscia ma tutto sommato ok in quanto intermezzo, con quell’andamento quasi funkeggiante e il cantato un po’ “buttato via” che ricorda il Frank Ocean di channel Orange.
“God Is” è uno dei punti migliori del disco: dopo il sample pitchato che la introduce parte una vera e propria ballata in cui Kanye, su una produzione fatta di poche cose ma tutte giuste, canta come forse non ha mai fatto, ricordandoci che alla fine uno dei suoi pregi più grandi è proprio quello di essere un grande autore di melodie. “Hands On” è il pezzo in cui forse sperimenta di più sulle voci, e che più dà al disco il carattere di “album in cui gioca su cori modificati in fase di produzione”.
“Use This Gospel” ha il valore di avere sopra le strofe dei ritrovati Clipse, Malice e Pusha-T, che non stavano insieme su una traccia da nove anni, oltre che il sassofono di Kenny G: l’assurda scelta di essere così cool da potersi permettere di chiamare uno dei musicisti più storicamente “da sfigati” di sempre è puro genio, e un’altra dimostrazione del fatto che in pochi sanno scrivere melodie come questo tizio di Chicago (se non bastassero il beat, il coro e tutto il resto). “Jesus is Lord” è la chiusura, epica il giusto, che in nemmeno 50 secondi sintetizza il senso del tutto.
L’unico vero difetto di Jesus Is King sono i testi, non tanto per l’argomento che trattano, ma per il modo in cui lo fanno.
L’unico vero difetto di Jesus Is King sono i testi, non tanto per l’argomento che trattano, ma per il modo in cui lo fanno. Per forza di cose l’argomento è uno solo, ma viene trattato con pochi guizzi e creatività. Una delle cose che da sempre hanno formato l’identità dei dischi di Kanye sono le cazzate, le cose divertenti, le storie che racconta anche quando sarebbe meglio non farlo: in “Real Friends”, da Pablo, raccontava del cugino che gli aveva rubato il laptop contenente dei sextape e che aveva voluto 250.000 dollari per restituirlo, per dirne una.
Insomma, in tutti i dischi di Kanye ci sono sempre state barre assurde e profondamente divertenti, elemento fortissimo della sua identità di artista e del carattere dei suoi lavori. Una a caso? “A volte vorrei che il mio cazzo avesse una GoPro / Per potermi riguardare tutto in slo-mo“. Qui quella cosa manca, e molto: i testi sono quelli che potrebbe scrivere più o meno qualunque rapper nel momento in cui decidesse di dedicare un disco alla celebrazione del Padre Eterno. Uno dei pochi guizzi alla Kanye è quel “chiuso la domenica, sei il mio Chick-Fil-A”, in cui paragona Dio a una catena di fast food i cui negozi, per motivi religiosi, da sempre restano chiusi la domenica—anche se la frase ha scatenato qualche polemica perché si tratta di un’azienda nota per avere supportato economicamente alcune associazioni anti-LGBT.
Alla fine, che fosse fatto apposta o meno, il continuo rimandare l’uscita del disco ha pagato, come anche la svolta a livello tematico: negli ultimi giorni chiunque si interessi di musica, che si consideri ascoltatore di rap o meno, si è sentito in dovere di ascoltare almeno una volta Jesus Is King, anche solo per farsene un’idea. È un carattere di “disco che comunque va sentito” che Ye non aveva avuto in misura neanche lontanamente paragonabile.
Ascolto dopo ascolto è finita che anch’io, nonostante alcune perplessità iniziali, mi sono convinto che Jesus Is King sia un lavoro più che buono e che mescolare la dimensione spiritual alle produzioni di Kanye sia venuta bene—anche nella sua estrema essenzialità, anche se non è il disco che volevo io. E che ancora una volta si tratti, in fondo, di un album riuscito. Però Kanye, fidati: adesso vai un anno in Africa e torni con un disco di un’ora con 40 ospiti e fai un capolavoro vero. Hallelujah.
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