I tardigradi sono una delle forme di vita più indistruttibili al mondo. Questi animali microscopici sono capaci di sopravvivere a temperature freddissime e caldissime, a pressioni equivalenti allo stare 10 chilometri sotto il mare, e persino nel vuoto dello spazio.
Ma due scienziati si sono posti un’altra domanda: cosa succede se spariamo un mucchio di tardigradi a tutta velocità come un proiettile?
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Oltre a essere una curiosità valida di per sé, esiste anche uno scopo scientifico legittimo per mettere in piedi un esperimento del genere. Per decenni, gli scienziati hanno speculato sulla possibilità che determinati organismi potessero sopravvivere a un viaggio interplanetario a bordo di un meteorite. Questa teoria di “impollinazione” interplanetaria, nota come panspermia, ha implicazioni importanti per comprendere come la vita possa essersi manifestata sulla Terra e se sia comune anche in altri angoli dell’universo.
Con questo in mente, Alejandra Traspas e Mark Burchell, rispettivamente dottoranda e professore di scienza dello spazio all’Università di Kent, hanno cercato di dimostrare se un tardigrado in viaggio per lo spazio potesse sopravvivere all’impatto improvviso su un mondo alieno.
In uno studio pubblicato a maggio 2021 sulla rivista Astrobiology, i ricercatori hanno spiegato che “non ci sono dati su come [i tardigradi] sopravvivano a uno shock da impatto” e per questo “abbiamo sparato dei tardigradi a tutta velocità da una pistola contro della sabbia, sottoponendoli a uno shock da impatto e valutando la loro capacità di sopravvivenza.”
“Non c’erano informazioni, solo ipotesi,” spiega Burchell a VICE in un’email, sottolineando che gli studi precedenti compiuti su semi grandi come tardigradi si concludevano con i semi che andavano in frantumi al momento dell’impatto se la velocità superava i 3.500 chilometri orari e la pressione superava un gigapascal (GPa). Dunque, mettere alla prova un po’ di tardigradi alle stesse condizioni “poteva essere interessante.”
“I risultati sono stati una sorpresa, perché i tardigradi sembravano riprendersi dall’impatto in certe condizioni, ma non oltre una certa velocità, che li facevano letteralmente a pezzi,” aggiunge Burchell.
Traspas e Burchell hanno impiegato uno speciale strumento scientifico apposito (chiamato in inglese “two-stage light gas gun”) per sparare dei proiettili pieni di tardigradi. Queste “pistole” sono usate dagli scienziati—per esempio alla NASA—per testare gli effetti degli impatti ad alta velocità (o iper-velocità). La polvere da sparo e l’idrogeno compresso permettono di raggiungere velocità alte quanto basta per testare, per esempio, gli effetti dei detriti spaziali che colpiscono i satelliti. Il team ha selezionato la specie tardigrada Hypsibius dujardini per questo studio e ha indotto gli animali in uno stato di animazione sospesa, congelandoli per due giorni prima dell’esperimento.
I ricercatori hanno poi sparato un totale di sei colpi a velocità variabili tra i 2.000 e i 3.500 chilometri orari, che è più della velocità di un proiettile tradizionale. Gli animali hanno colpito la sabbia con una pressione da impatto che andava dagli 0,61 agli 1,41 GPa.
Sorprendentemente, i tardigradi contenuti in quattro dei sei proiettili sono sopravvissuti, benché si siano ripresi molto più lentamente rispetto al gruppo di controllo in cui i tardigradi erano stati congelati per lo stesso tempo, senza essere però poi sparati da nessuna pistola. La differenza di ripresa “suggerisce che lo shock da impatto abbia avuto un effetto molto più significativo del solo congelamento,” dice lo studio.
I tardigradi sparati alle due velocità più alte, invece, non ce l’hanno fatta. Anzi, i loro corpi apparivano lacerati, a riprova del fatto che neanche lo stato di morte apparente indotto dal congelamento era riuscito a proteggerli. I risultati indicano che il limite massimo di velocità di impatto che un tardigrado può sostenere, dunque, si aggira intorno ai 2.970 chilometri orari.
La maggior parte degli impatti da meteorite raggiunge velocità e livelli di pressione maggiori rispetto a quelli dell’esperimento, il che fa pensare che “difficilmente un meteorite potrebbe essere un tramite efficace di trasferimento anche per organismi così resistenti,” spiega lo studio.
In altre parole, “qualsiasi processo di trasferimento tra corpi che coinvolge uno shock superiore a un GPa non è praticabile,” spiega Burchell.
“Se colpisci un materiale poroso, tipo l’aerogel”—cioè un materiale spugnoso usato per catturare polvere di cometa nella missione Stardust della NASA—“allora puoi mantenere la pressione sotto 1 GPa, fino a una velocità di impatto di 6 chilometri al secondo,” continua. “Ma non è uno scenario naturale; in natura devi trovare dei percorsi che minimizzino lo shock.”
Traspas e Burchell ipotizzano che gli organismi estremofili potrebbero avere maggiori speranze di sopravvivere viaggiando da un pianeta ai suoi satelliti naturali (tipo dalla Terra alla Luna, o da Marte a Fobos), ma non sarebbe comunque una missione facile. Anzi, anche se un organismo riuscisse a raggiungere da vivo un nuovo mondo, il lungo tempo di ripresa dimostrato nell’esperimento lascia pensare che i danni al corpo di questi organismi sarebbero tali da compromettere la riproduzione e dunque condannare i viaggiatori spaziali all’estinzione dopo una sola generazione.
Lo studio di Traspas e Burchell offre una nuova prospettiva sull’ipotesi della panspermia, ma è anche rilevante per prevenire contaminazioni nel nostro sistema solare in conseguenza a prossimi viaggi spaziali, che è un problema concreto: per fare un esempio, la navicella spaziale israeliana Beresheet avrebbe rilasciato tardigrati sulla Luna quando si è schiantata durante il tentato allunaggio del 2019.
I due scienziati hanno anche applicato le loro scoperte a simulazioni di missioni su Enceladus (una luna di Saturno) ed Europa (una luna di Giove). Si ritiene che questi due mondi nascondano oceani sotto le loro croste ghiacciate, il che li rende candidati interessanti per la vita nel sistema solare.
Queste lune emettono pennacchi acquosi nello spazio, da cui le sonde spaziali possono raccogliere campioni che contengono forse vita aliena. Lo studio in questione crea anche le basi perché le tecniche di raccolta non riducano in poltiglia questi organismi ancora ipotetici.
“Anzi,” hanno specificato nello studio Traspas e Burchell, “potremmo indagare l’idea stessa che questi pennacchi acquosi possano essere responsabili di una panspermia nei loro rispettivi sistemi planetari.”
Non c’è mistero più grande dell’origine della vita sulla Terra e della sua possibile esistenza altrove nell’universo. Ora, siamo un passo più vicini a comprendere queste domande, grazie a una pistola che spara proiettili pieni di tardigradi.