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Un paio di risposte per chi continua a filmare la gente in coda o sui mezzi

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Forse è solo una mia impressione, ma la retorica sull’“orgoglio nazionale” e sull’“uniti ma distanti” sta rapidamente lasciando il campo a qualcosa di più sinistro.

Stando sui social, si è ormai perso il conto di delazioni di massa (con tanto di gruppi Facebook dedicati) e video di inseguimento degli “untori”, conduttori che sgridano la gente in diretta, condivisioni compulsive di code fuori dai supermercati, e la richiesta forsennata di schierare l’esercito in città.

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Ora, le misure di contenimento sono assolutamente necessarie per i motivi che ormai sappiamo; e sì, naturalmente ci sono dei comportamenti irresponsabili da parte di cittadini e negozianti (ampiamente enfatizzati dai media, dalla politica e dai singoli utenti sui social) che non sono accettabili. Mi è capitato di incazzarmi parecchio per certe assurde violazioni della quarantena, o per certi video. Allo stesso tempo, credo che buona parte delle persone abbia capito perfettamente che bisogna restare a casa—e ci resta, anche con enormi sacrifici—per appiattire la curva e aiutare chi è in prima linea negli ospedali.

Tuttavia, mi sembra che stiamo perdendo un sacco di tempo ed energie nella ricerca di facili capri espiatori su cui scaricare le tensioni che stiamo accumulando in questo periodo di isolamento. In altre parole: ci stiamo focalizzando quasi esclusivamente sulla responsabilità individuale—che in un’epidemia è un fattore importante—perdendo di vista quelle collettive e politiche.

Dietro ogni foto c’è una spiegazione, oppure ci sono fattori e scelte che non conosciamo—e che possono derivare non solo da un errata percezione del pericolo o dal menefreghismo, ma anche da grandi difficoltà sociali o economiche. Ecco quindi un paio di risposte che si possono dare a chi condivide compulsivamente post e articoli di persone per strada.

LA CONFUSIONE GENERALIZZATA DERIVA DA ANCHE DA COME SONO SCRITTE LE NORME, E DALLA LORO APPLICAZIONE

Partiamo dall’elefante nella stanza. Sin dal primo momento della pubblicazione dei dpcm (decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) si è capito che una delle disposizioni più restrittive si sarebbero prestati a incertezze. Si può uscire per fare una camminata? Dove si può andare a correre [secondo l’ultima disposizione del governo del 21 marzo, solo nei pressi della propria abitazione]? Quanto ci si può muovere?

La raccomandazione generale era di non farlo, certo, ma in realtà non è mai stato così tanto chiaro; mentre prima dell’11 marzo a dominare è stata l’ambiguità, come dimostra il caso di Alzano Lombardo. A complicare ulteriormente il quadro si è poi aggiunto un diluvio di ordinanze comunali e regionali, con divieti aggiuntivi spesso e volentieri scoordinati tra loro. In poche parole: si è formata una giungla di norme e regole in cui è difficile districarsi.

Poi ci sono anche i dubbi sulla validità delle autocertificazioni e sull’applicabilità delle sanzioni (l’articolo principale è un reato bagatellare, il 650 del codice penale). Oltre al rischio di ingolfare i tribunali, diversi giuristi e magistrati sottolineano come i divieti alla libertà di circolazione hanno forza solo se adottati con norme di legge, e non con un dpcm che è un atto amministrativo. Non si tratta di un aspetto di poco conto: “lo stato di eccezione nel nostro assetto costituzionale,” ha scritto il professore di diritto penale Gian Luigi Gatta, “giustifica sì deroghe ma non indiscriminatamente.”

Tra l’altro, e l’abbiamo visto più volte, ogni anticipazione (più o meno confermata) di nuove strette ha un effetto deleterio. Prendiamo quella sulle riduzioni d’orario dei supermercati: il risultato immediato è quello di far ammassare la gente, che ha paura di trovarselo chiuso in assenza di informazioni certe. Le code, dunque, si formano anche a causa della cattiva comunicazione.

IL PROBLEMA NON È SOLO LA “CORSETTA,” MA GLI SPOSTAMENTI OBBLIGATI PER IL LAVORO

Il tiro al podista è diventato il nuovo passatempo di sindaci e singoli utenti sui social. Anche qui, mi ripeto: sono certo che ci siano stati comportamenti sbagliati. Come dice all’Agi Susanna Esposito, presidente dell’Associazione Mondiale delle Malattie Infettive e i Disordini Immunologici, “se fatto in solitudine e con la mascherina chirurgica [il jogging] non è rischioso per nessuno.”

Le immagini più preoccupanti, insomma, non sono tanto quelle dei parchi. Sono piuttosto quelle della metro di Milano stipata di persone alle sei e mezza del mattino, perché sono la plastica rappresentazione di una cosa: gli spostamenti principali sono quelli dei lavoratori ancora costretti a recarsi con i mezzi pubblici (che fanno pure orario ridotto) nelle sedi o nelle aziende.

Secondo l’elaborazione della Cgil di Milano, raccolta dal giornalista di Radio Popolare Massimo Alberti, “300 mila persone [sono] costrette ogni giorno a spostarsi, nell’area metropolitana di Milano, da imprenditori che rifiutano di chiudere produzioni non essenziali.” Gli stessi lavoratori e sindacati, inoltre, denunciano come le misure di sicurezza (mascherine, guanti, il rispetto del metro di distanza, ecc.) all’interno dei posti di lavoro non sono affatto rispettate.

La verità è che troppe fabbriche di servizi non essenziali rimangono aperte; e a dirlo non sono io, ma il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. A questo proposito, non si può dimenticare neppure il fatto che solo poche settimane fa la Confindustria locale aveva lanciato la campagna #Bergamoisrunning, perché non ci si poteva e doveva fermare.

Sul punto, il sindaco di Brescia Emilio Del Bono è stato l’amministratore locale a pronunciarsi più duramente. “Se fossimo partiti tutti prima, il contagio quanto meno sarebbe stato più diluito,” ha spiegato al Giornale di Brescia. “Il numero dei lavoratori nelle fabbriche è molto elevato. Fontana ha sempre tenuto una posizione severa, ma il peso del mondo industriale sia su Roma che su Milano si è sentito.” [Il 22 marzo il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha firmato un decreto che blocca le attività produttive considerate “non essenziali,” anche se secondo i sindacati la lista è ancora troppo lunga.]

NON È LA SIGNORA CHE PORTA A PASSEGGIO IL CANE AD AVER DEVASTATO LA SANITÀ PUBBLICA

È molto facile prendersela con chi usa il proprio cane come scusa per allungare la passeggiata, vero? Ecco: è molto meno immediato prendersela con chi ha devastato la sanità pubblica in questi anni. Sarebbe però molto più utile e produttivo.

Un rapporto della Fondazione Gimbe dello scorso settembre ha evidenziato come il sistema sanitario nazionale sia stato depredato di ben 37 miliardi di euro, tra definanziamento e tagli. Tutti i governi e le forze politiche hanno contribuito a questo saccheggio; nessuno può tirarsene fuori.

E ancora, il cittadino che pedala nel cortile di casa sua—venendo ripreso e sbeffeggiato dai vicini—non ha alcuna colpa per la drammatica mancanza di protezioni individuali del personale sanitario, che sta pagando un conto altissimo tra decessi e contagi (ormai siamo a più di 3500 medici e operatori, quasi il 9 percento del totale).

PENSIAMOCI DUE VOLTE, PRIMA DI CHIEDERE L’ESERCITO OVUNQUE

Per finire, non penso di essere l’unico a notare che—sotto ogni post di questo tipo—c’è un torrente di commenti che pretende l’intervento risolutivo dell’esercito. Se fino a poco tempo fa era una richiesta strisciante, adesso è sempre esplicita e gridata.

A parte il fatto che i militari sono già in strada da un pezzo, si tratta più che altro di un placebo. Esattamente come scattare foto di persone a caso e metterle sui gruppi Facebook. Eppure, questo atteggiamento così diffuso è il segno di un enorme sfasamento delle priorità; e come scrive la politologa Nadia Urbinati, “più delle norme emergenziali si deve temere l’espansione di questa mentalità dispotica, che vorrebbe neutralizzare dubbi e domande.”

E mai come in questi giorni è difficile capire dove finisce la richiesta di soluzioni drastiche per riavere una parvenza di normalità, e dove iniziano le pulsioni autoritarie.

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