Se avete già sentito parlare di JPEGMAFIA sono sicuro che il suo nome fosse associato ad aggettivi quali “pazzo”, “matto totale” e altre cose del genere. Dopo due dischi (Black Ben Carson del 2016 e Veteran del 2018) in cui dissava, tra gli altri, Drake, i Death Grips, 50 Cent, Morrissey, la alt-right e il mondo intero, dopo aver creato basi che definire sperimentali è riduttivo e dopo essersi abbattuto con la furia di un uragano sui palchi di mezzo mondo (Coachella, Primavera e Pitchfork, giusto per dirne tre), era più che lecito chiedersi che piega avrebbe preso il suo art-rap. Arrivati a questo punto, con l’effetto sorpresa diradato e il successo alle calcagna, il rischio di fare un passo falso o di suonare “già sentito” era molto alto.
All My Heroes Are Cornballs, il suo terzo disco pubblicato a poco più di un anno di distanza dal precedente, però, è qui proprio per dimostrare che no, la fiamma di JPEGMAFIA non accenna a spegnersi.
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All My Heroes Are Cornballs è il caos primordiale mescolato alla contemporaneità più rivoltante, un boccone indigesto rigurgitato dalla internet-era in infinite forme, nessuna delle quali sembra avere un lieto fine. Chitarre sature, beat zoppi, synth riverberati e rumori non meglio identificati: chiamatelo art-rap, trap-punk, noise-soul o nonsense d’avanguardia, sbizzarritevi pure con le etichette che tanto, alla fine, non avrete mai ragione. Attenzione però, AMHAC non è un’accozzaglia casuale di suoni e parole spacciata per arte; è un album maturo e calibrato che suona sì più accessibile rispetto al passato (probabilmente anche grazie ai contributi nell’ombra di James Blake, Flume e Jeff Tweedy dei Wilco), ma che al tempo stesso riesce a mantenere intatte l’urgenza espressiva e l’autenticità originarie (“Imbucato al Coachella con un bong, amico, non sono mica Jaden Smith”).
Se Black Ben Carson era una bomba inaspettata e Veteran una scheggia impazzita, All My Heroes Are Cornballs riesce a suonare fresco grazie ad un perfetto bilanciamento di calci sui denti e carezze. JPEGMAFIA riesce a far convivere e, soprattutto, a far fluire naturalmente lungo diciotto tracce, rap più o meno canonico e cantato in falsetto, grida scellerate e spoken-word riflessivi, silenzi assordanti e pop radiofonico (riprendendo addirittura “No Scrubs” delle TLC e “No Letting Go” di Wayne Wonder).
Il rapper di Baltimora continua a esternare il suo odio per un mondo sbagliato tra disparità sociali (i bianchi sono sempre chiamati “crackers”), ipocrisie e ingiustizie, per aizzare la sua gente e portarla fuori dal torpore digitale (“Dimmi quello che hai detto su Twitter adesso / Sei coraggioso solo con una tastiera e un mouse”). Tutti i suoi idoli sono sdolcinati, lo dice nel titolo del disco, ma lui stesso si guarda bene dal presentarsi come un maschio alfa pronto a guidare la battaglia: “Bitch, sono una diva, non c’è punk in me”, “È il giovane Brian Wilson nero”, “Giovane Peggy, sono un falso profeta”, “Gesù perdonami, sono un thot” e via così, tra fluidità di genere (proprio il nomignolo Peggy, auto-affibbiatosi, è femminile) e un bel dito medio agli stereotipi del rapper macho. Qua e là ci sono anche dei rari e imprevisti momenti di pace, che vengono però subito dilaniati da rumori lancinanti. Non si capisce dove voglia andare a parare né tanto meno cosa voglia da se stesso, ma il punto del discorso è proprio qui.
JPEGMAFIA non è un “matto totale” come spesso si sente dire; è lo specchio della generazione millenial, tra vulnerabilità distorta e temibile rabbia intrinseca, instabilità quotidiana e conseguente menefreghismo per il futuro. E non importa se formalmente rifugga il ruolo di portavoce che si è creato (“Spero che deluda ognuno di voi”), io sono convinto che in fondo lui lo sappia che quando salta sul palco, a torso nudo, gridando in un microfono in un bagno di folla non lo sta facendo solo per sé, ma per tutti gli spiriti affini. Quelle non sono semplici canzoni, sono inni liberatori che provano a veicolare la catarsi del presente.
Arrivato a questo punto, a questo livello di consapevolezza e di maturità artistica, Peggy avrebbe potuto fare qualsiasi cosa ma al successo (“M’innervosisco quando la gente mi chiede i feat”) ha preferito scrivere il suo “punk musical” (come lo chiama lui), una rappresentazione veritiera di se stesso, della sua rabbia e delle ansie che gli rimbombano nel cervello. All My Heroes Are Cornballs è un delirio generazionale lucidissimo, un errore musicale a tratti inascoltabile, e proprio per questo è un disco imperdibile.
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