Ho vissuto una settimana in ostello per provare a risolvere il problema dell’affitto

L’autore nel suo letto d’ostello. Tutte le foto di Jake Lewis.

Una tipica notte nella camera 25 va più o meno così: ti svegli per la prima volta alle tre del mattino, quando gli ultimi festaioli rientrano alla base. Le scale che portano alla stanza sono sgangherate, e qualche sadico le ha rivestite di plastica. Così, ogni volta che qualcuno ci cammina sopra, l’impressione è di una grandinata su una distesa di sacchi per cadaveri. Mentre i festaioli si muovono per la stanza a tentoni, il chiudiporta cigola con la forza di un trabucco medievale.

Alle 4.30 partono le prime sveglie. I mattinieri scendono dalle file di letti a castello e strisciano fuori dalla stanza con le tute ad alta visibilità. Il dormitorio puzza di sudore e umidità come una borsa da calcio dimenticata nel baule della macchina. Dall’unica finestra in fondo filtra una debole luce arancione.

Alle 5 l’uomo nella cuccetta accanto inizia a vestirsi, un processo che sembra richiedere il ripetuto scontro della fibbia di metallo della cintura contro le sbarre del letto in cui stai cercando di dormire. Dal letto accanto si avverte un delicato sfregamento accompagnato da tenui sospiri, il suono di un prurito soddisfacente o di una masturbazione furtiva.

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Alle 6.45, qualcuno di fronte inizia a parlare al telefono in francese. “Oui,” dice. “Oui. Oui, oui, oui.” Provi a coprirti le orecchie con il cuscino, ma ha lo spessore di una fetta di prosciutto a buon mercato.

Alle 7, il tuo vicino francese si è espresso affermativamente per più di 40 volte.

Alle 7.11, uno con un accento delle Midlands grida: “Silenzio cazzo, stiamo cercando di dormire.”

Alle 7.12 termina la conversazione telefonica.

Alle 8.00 ti svegli di nuovo di soprassalto, scosso in ogni tua fibra dal rumore di un boato. Balzi fuori dal letto in preda al panico per scoprire che è l’uomo brizzolato alla fine della fila che russa.

Alle 10.00 arrivi al lavoro con gli occhi rossi e i capelli tutti spettinati. Il tuo studente di otto anni ti osserva per un istante e dice: “Ed, perché sei triste?”

Mi ero trasferito al No.8 Hostel di Willesden, a Londra, dove per un po’ ho condiviso il dormitorio con una ventina di persone. Diciamo che c’erano tutti i presupposti perché la mia permanenza si trasformasse in un incubo: non sono un adolescente. Non è il mio anno sabbatico. Ho il sonno molto leggero. Ho un lavoro. E vivo già a Londra.

Se devo dirla tutta, non ho mai avuto grandi esperienze con gli ostelli. Una volta sono stato lasciato durante una conversazione su Skype nella hall di un ostello. Un’altra volta il water malfunzionante di un altro ostello ha spruzzato merda sul mio zaino. Il barman canadese di un altro ostello ancora mi ha intrappolato in una conversazione lunghissima il cui apice è stato toccato nel momento in cui ha definito Ace Ventura “una bomba di film, il migliore della storia.” Quindi, perché mi ero trasferito in un ostello nella mia stessa città?

L’affitto, è stata colpa dell’affitto. A Londra, una notte in un ostello senza fronzoli costa otto sterline, che è quello che pago per due pinte di birra o una stagione in dvd de La signora in giallo. È anche la metà del prezzo a notte della mia camera formato tascabile a Tulse Hill.

A quanto pare, comunque, trasferirsi in ostello per risparmiare sull’affitto non è un’idea innovativa. Mentre la maggior parte dei residenti del No.8 sono dei turisti, una minoranza significativa vive lì in pianta stabile, e ogni mattina lascia il dormitorio per andare a lavorare.

Jordy, 25 anni, insegnante australiana che vive nell’ostello mentre cerca lavoro a Londra.

Tendenzialmente, i forestieri sono giovani. Sono a Londra per una vacanza o usano l’ostello come base temporanea mentre cercano casa. Quando ho parlato con loro, l’opinione diffusa era che il No.8 fosse stata una buona scelta: pulito, atmosfera amichevole, molto economico.

Colm, un artigiano irlandese sulla ventina, era in procinto di trasferirsi in una casa a Neasden. Ma gli era piaciuto soggiornare in ostello, sorprendentemente privo di “stronzi e gentaglia varia.”

Giulia, una studentessa italiana di 18 anni, aveva deciso di prolungare la permanenza a Londra dopo aver fatto amicizia con un gruppetto proprio in ostello. Da quel momento ha avuto una serie di avventure molto interessanti. “Tipo, uno si è ubriacato e si è addormentato di botto. Gli ho fatto una pizza, ma lui non arrivava più,” mi ha spiegato. “Il motivo? Era crollato di nuovo, stavolta fuori dal bagno!” Ma cosa pensava Giulia degli inquilini permanenti? Ci ha riflettutto per un attimo. “Qui sono tutti un po’ strani. Io ero normale, ma sto diventando strana anch’io.”

Gli inquilini permanenti sono più grandi, tra i 30 e i 40 anni. Arrivano dal Regno Unito o da altri paesi europei, e la precarietà e il basso stipendio fanno sì che non possano trovare una sistemazione più stabile. E questo può inevitabilmente avere delle conseguenze. Una mattina in cucina ho incontrato un uomo con dei pantaloni militari sudici e il codino. L’ho salutato, e lui mi ha risposto con un risolino catarroso. “Com’è andato il fine settimana?” gli ho chiesto tanto per dire qualcosa.

Ha aggrottato la fronte. “No, ma dove fine settimana,” mi ha detto. “Oggi fine settimana. Oggi è sabato.”

Era lunedì.

Przemek

Przemek, un altro ospite di lunga data, è magro e ha i capelli brizzolati. Sembrava serissimo—il primo giorno gli ho accennato un sorriso amichevole, e lui mi ha fissato come se avessi cercato di dargli un pugno in faccia—ma durante le nostre conversazioni ho scoperto una risata rauca che riesce a scomporre anche la sua espressione stoica.

Originario di Poznań, in Polonia, vive a Londra da quattro anni, e ha fatto diversi lavori. Quando può manda soldi a casa. Sua figlia è nata poco prima che partisse per il Regno Unito. “Non è facile quando hai dei figli. È difficile mantenere il rapporto con tua moglie. A lungo andare non ci riesci. Non si può vivere così,” mi ha detto.

Prima di arrivare al No.8, quattro mesi fa, aveva già provato altri ostelli. “L’ostello non è male se sei solo, se non hai soldi e se ti piace legare con gente di culture diverse.”

Ma ci avrebbe vissuto lo stesso, se non avesse avuto problemi economici? “No, assolutamente no,” mi ha detto. “Lo faccio solo per i soldi, è la scelta più economica.” Gli aspetti negativi, ovviamente, non mancano. “Le stanze sono lontanissime dai bagni. Non hai un tavolo, una scrivania o mobili in generale. Troppe persone, poco spazio. Zero privacy.”

L’autore di

fianco al suo letto.

Ma era riuscito a risparmiare stando in ostello? “Non proprio. Voglio guadagnare qualcosa e tornarmene in Polonia. È la scelta più giusta per la mia famiglia.”

Ma c’è anche chi al No. 8 vive da molto più tempo. Ho sentito di permanenze che hanno superato i cinque anni, ma nessuno dei residenti di lunga data con cui ho interagito si è detto disposto a farsi intervistare per questo pezzo. A molti, vivere in ostello crea non poco imbarazzo.

La mancanza di spazi personali è una delle ragioni dietro questo disagio, e c’è chi cerca di rimediare nei modi più ingegnosi. Uno aveva avvolto intorno al suo letto a castello delle lenzuola per creare una specie di “tana buia”. Un altro indossava costosi tappi per le orecchie realizzati su misura ogni volta che stava in un’area comune. In cucina ho anche visto una signora nascondere il piatto nell’angolino più lontano della stanza, lontano da tutti gli altri, e contorcersi il più possibile per ghermirlo, per quanto fisicamente possibile.

Rachel

Secondo Rachel, la direttrice dell’ostello, i residenti a lungo termine dell’ostello sarebbero circa il 10 percento della clientela; dal mio conteggio, il numero potrebbe essere più alto. Perché la gente finisce a a vivere qui?, le ho chiesto: “Non è che sai le storie di tutti. Io lavoro nel settore alberghiero, e non ho alcuna intenzione di chiedere conto alla gente dei propri problemi personali,” ha risposto. “Ma credo ci sia chi ha dei problemi, o chi ne ha avuti, persone per cui l’ostello è la soluzione più semplice. A Natale compro dei biglietti d’auguri e dei regali, perché queste persone non sono a casa con la propria famiglia. Non so cosa sia abbiano passato, ma è bello farli sentire accolti, non farli sentire soli.”

Una settimana di sonni interrotti mi aveva lasciato in difficoltà. Dopo essermi svegliato 15 volte a notte, le borse sotto gli occhi, pesanti e cadenti, mi facevano passare per un avversario di Manny Pacquiao. Ma perdere il sonno è solo metà del problema. La parte peggiore del vivere in un ostello è l’impossibilità di poter avere del tempo per te stesso. Quando sei sul water, sai che fuori c’è la fila per il bagno. Le luci nella doccia si spengono automaticamente dopo dieci minuti. Da tutte le altre parti, c’è sempre qualcuno—e la gente si comporta in modo strano quando i propri comportamenti privati diventano uno spettacolo pubblico.

Gli ospiti dell’ostello giocano a freccette nel pub della struttura.

Quella sera, quando ho fatto il mio ingresso al pub dell’ostello, era in corso la “serata karaoke”. Due signore erano alle prese con il testo di “Do not Stop Believin’” con due tonalità completamente diverse. Mentre mi trascinavo verso la mia camera, il DJ con la coda di cavallo tuonava al microfono: “Ma bravissime le due signore. Bravissime.”

A letto, nella mia ultima notte in ostello, ho completato il mio rituale della buonanotte—sistemare il cuscino in modo tale da coprire la misteriosa macchia di sangue sul lenzuolo. Accanto al mio letto, un uomo russo parlava a bassa voce al telefono anche se era mezzanotte passata. Tutto preoccupato, si è girato su un fianco.

“Scusate,” ha gridato con la voce rotta. “Scusate se vi sto disturbando, scusatemi tutti. Scusate per il rumore. Ma mi manca mia moglie. Devo parlare con mia moglie.”

@Jake_Photo