All’inizio degli anni Ottanta, quando era solo un’adolescente, Justine Bateman fu scritturata per la sitcom NBC Casa Keaton. Sembrano ormai tempi lontani, senza i servizi streaming e l’offerta incredibile di cui disponiamo oggi. All’epoca, decine di milioni di persone guardavano la stessa cosa nello stesso momento. Ed è così che Bateman è diventata famosissima.
Nel suo libro, Fame: The Hijacking of Reality, Bateman racconta la sua esperienza, e il risultato è il libro che mi ha fatto più paura quest’anno. Sembra un romanzo horror, in cui il successo è un’entità minacciosa che distorce la realtà, ti fa dubitare di te stesso e trasforma amici, famiglia e pubblico in temibili nemici.
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“È come se tu non ci fossi, come se non fossi presente,” scrive Bateman. “Tutto cambia quando entri in una stanza, ma allo stesso tempo nessuno si accorge di te. La gente parla di te, ma tu sei una ‘non-persona’. Tutti si sentono in diritto di distruggerti, tanto non sei reale. È come nei film quando qualcuno uccide un robot dalle sembianze umane. Dovremmo davvero sentirci in colpa, moralmente?”
Ho parlato con Justine del suo libro, del successo e di cosa significa perderlo. L’intervista è stata editata per chiarezza.
VICE: Essere famosi era così terribile come racconti nel libro? Dici che la gente ti avvicinava al supermercato dicendoti che si masturbava pensando a te, che avevi degli stalker e che le persone parlavano di te come se tu non ci fossi. Era davvero come vivere in un’altra dimensione rispetto a tutti gli altri? È stato difficile?
Justine Bateman: Ogni esperienza è diversa, penso. Ma io non me la sono mai goduta. Era il successo che controllava me. Io stavo solo cercando di sopravvivere. Ero anche piuttosto giovane. A 16 anni, ma anche 20, ti lasci trasportare dagli eventi. Non sei determinato come un adulto. E in particolare quando tutto accade così in fretta, come nel caso del successo: arrivano le interviste, i servizi fotografici, nuove opportunità di lavoro, tutto va velocissimo.
Poi, ci sono anche le cose positive. La gente ascolta quello che dici. Hai molte opportunità, e quando hai 20 anni e riesci a entrare in tutti i locali che vuoi senza fatica, essere famosi è bello. Ma gestire tutto era difficile. È come correre una maratona con un caldo infernale mentre qualcuno cerca di farti vedere una fotografia o qualcosa di bello, non riesci a concentrarti perché tutte le tue energie sono già altrove.
È stato difficile scrivere questo libro? In alcune parti dici chiaramente che non vuoi essere compatita o vista come una che si lamenta perché ha perso i suoi privilegi.
Quello è perché conosco abbastanza bene le reazioni del pubblico per aspettarmi quel tipo di risposte. E va bene così. Quindi sì, non era assolutamente il mio obiettivo scrivere un libro di lamentele. Oggi non vivo più quella situazione problematica. L’idea era mostrare alle persone cosa significa essere molto famosi, cercare di capire perché la gente si comporta così in presenza del successo, e cercare di spiegare le teorie sociologiche che si applicano a queste situazioni. Volevo parlare del ciclo del successo ed esaminare il motivo per cui diamo così tanto valore alla notorietà.
Ancora oggi frequenti persone famose, e hai un fratello che è molto conosciuto. Come pensi sia cambiato il successo rispetto a quando eri famosa tu?
Quando io ero famosa, c’era una forte distinzione tra chi era famoso in TV e chi lo era al cinema. Non credo che oggi ci sia ancora questa differenza. I personaggi sono molto più trasversali e poi—anche se, ripeto, oggi non sono più così famosa quindi non lo so—da quello che vedo, il più sembra manifestarsi online. Ai miei tempi, non esisteva internet. L’unico modo in cui entravi in contatto con i fan era dal vivo, o via lettera. Mentre ora è tutto online, sia i messaggi di supporto che quelli di odio.
Penso che una delle parti più inquietanti del libro sia quella dove tu cerchi online il tuo nome.
Sì quello è stato un momento terribile. Ho fatto un errore, vorrei poter tornare indietro per non rifarlo mai più: ho cercato il mio nome e ho visto l’autocompletamento di google, quello che ti mostra cosa hanno cercato gli altri in relazione al tuo nome. Venivano fuori cose come “Justine Bateman sembra vecchia” e io avevo… non ricordo nemmeno quanti anni avessi.
Penso [che il libro dica] 44.
Ok. E sono sempre sembrata più giovane della mia età. Con il rischio di sembrare arrogante, è qualcosa che ho nei geni, come avere i capelli castani. E poi, la società aveva stabilito che io ero bellissima. Probabilmente se fossi esistita 100 anni fa non sarebbe stata la stessa cosa, sono le tendenze e la società a stabilire i canoni di bellezza, giusto?
Giusto.
E io ero sempre stata definita come una ragazza attraente. Non ero mai stata criticata per il mio aspetto. Questo fin da quando avevo 20 anni, nella mia testa non vedevo l’ora di assomigliare alle grandi star del cinema come Anna Magnani o Isabelle Huppert. Così quando ho avuto le prime rughe, ne sono stata felicissima, peccato che la società avesse già cambiato idea a riguardo. Quello che un tempo faceva la chirurgia estetica, poi il trucco e ora addirittura i filtri Instagram, è cancellare ogni segno del tempo, cercare di farti apparire il più simile possibile alle tue foto da bambina. Per questo trovare quelle insinuazioni online mi aveva davvero scioccato. Non avrei dovuto cliccare, approfondire, leggere tutto. Era molto peggio di quello che pensassi.
Capisco.
Guardavo quello foto ma non capivo a cosa facessero riferimento. Era un po’ come il dilemma del vestito blu o oro. C’è uno studio straordinario che analizza il comportamento delle persone in relazione al gruppo: c’è una persona in una stanza a cui vengono mostrate delle linee, la linea A è molto più lunga delle altre, e quando alla persona viene chiesto quale sia la linea più lunga, questa risponde “A”. Poi altri soggetti entrano nella stanza e tutti rispondono che la linea C è la più lunga. A questo punto la certezza del primo soggetto vacilla, e quando l’intervistatore gli ripone la stessa domanda, lui risponde nuovamente “A” ma con meno convinzione. Al terzo tentativo però, la sua risposta cambia e dice “C,” perché non si spiega come lui possa vedere qualcosa di così diverso dagli altri. E la stessa cosa è successa a me. Mi sono convinta che quelle cose terribili su di me fossero vere. È stato questo che mi ha distrutto.
Come l’hai superata? Nel libro dici che è durata per molti anni, giusto?
Sì esatto. La mia paura principale era dettata dal fatto che una delle componenti essenziali della mia realtà—il successo—era scomparsa. Mi sono sentita come quando perdi un familiare, o devi trasferirti improvvisamente in una nuova città, o perdi il lavoro. Anche queste cose fanno parte della realtà, e quando non ci sono più, per molti è un trauma.
Com’è stato passare dalla fama assoluta al livello di notorietà che hai oggi? Si è trattato di un processo graduale o improvviso?
È stato graduale. Ma all’inizio pensi “Ok, è comprensibile.” Inizia così, sei ancora famoso ma la gente non parla più così tanto di te. Pensi che sia perché non stai partecipando a nessun programma di punta. E quindi che sia normale. Pensi che arriveranno altri progetti, altro successo e che tornerai all’apice. Come in borsa, no? In realtà non ti accorgi che stai solo calando senza mai risalire.
Uno dei giornalisti con cui ho parlato mi ha detto, “Cosa succederebbe se questo libro ti rendesse di nuovo, improvvisamente, famosissima?” Nonostante io fossi consapevole che le possibilità fossero estremamente ridotte, in quel momento, ho sentito un brivido di paura. E ho detto “Non voglio.” Non credo che ne trarrei nulla di buono.
Fame: The Hijacking of Reality è disponibile dal 2 ottobre. Il breve documentario diretto da Bateman Five Minutes, è su Amazon Prime dal 1 ottobre.
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