La “marcia su Roma” dei fascisti, avvenuta il 28 ottobre del 1922, è indubbiamente una delle più tragiche pagine della storia d’Italia. Quel giorno decine di migliaia di camicie nere sfilano per le strade nella Capitale e fanno cadere il governo guidato da Luigi Facta, dissodando il terreno per l’avvento del regime di Benito Mussolini.
Quell’evento è stato la drammatica conclusione di due anni di violenze squadriste, culminate nell’estate del 1922 in una serie di occupazioni e rovesciamenti delle amministrazioni comunali a guida socialista—molti dei quali avvenuti con la complicità degli apparati statali.
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Il più clamoroso di questi si è verificato il 3 agosto del 1922, esattamente cento anni fa, a Milano: centinaia di fascisti e militanti nazionalisti occupano Palazzo Marino (la sede del municipio) e cacciano la giunta socialista dell’epoca, guidata dal sindaco Angelo Filippetti.
La caduta di Milano, insomma, ha sempre rappresentato l’oscuro presagio di quello che sarebbe successo a breve nel resto del paese. Di quella storia, però, si sa molto poco; e ancora meno si sa di Filippetti, che non a caso è stato ribattezzato “il sindaco dimenticato.”
Sul tema vuole far luce una mostra curata dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e dalla Fondazione Anna Kuliscioff, che si intitolerà “Istantanee dal 1922” e si terrà alla Casa della Memoria di Milano dal 19 ottobre fino al 13 novembre del 2022. Alla fine del prossimo settembre, inoltre, uscirà il saggio Angelo Filippetti, l’ultimo sindaco di Milano prima del fascismo scritto dal ricercatore Jacopo Perazzoli, che ho contattato su Zoom in occasione del centenario.
Il progetto di ricerca, mi dice, nasce tra il 2018 e il 2019 quando l’Istituto Parri entra in possesso dell’archivio di Filippetti. “Quell’archivio è veramente una miniera,” aggiunge Perazzoli, “sia per ricostruire la sua personalità che il quadro generale. Parliamo di snodi storici fondamentali: Milano era la città socialista per eccellenza, e non è casuale che il fascismo abbia dato così tanta attenzione all’occupazione di Palazzo Marino.”
Dal 1914 fino al 1922, infatti, la città è retta da amministrazioni socialiste: prima quella di Emilio Caldara, e poi dal 1920 da Filippetti. Quest’ultimo, nato nel 1866 da una famiglia benestante di Arona, è una figura poliedrica, “anticonvenzionale e avanti sui tempi”: socialista, pacifista convinto (spesso in contrasto anche con la linea del partito), medico all’Ospedale Maggiore nonché presidente dell’Ordine dei medici di Milano, esperantista (dal 1913 al 1920 è presidente della Federazione Esperantista Italiana), appassionato di viaggi e fotografia.
A livello politico, racconta Perazzoli, Filippetti ha incarnato “le aspirazioni e la visione di un’epoca che credeva in un’idea di progresso che non lasciasse indietro nessuno.”
Da attivista e amministratore ha sempre posto grande attenzione alla lotta contro l’alcolismo, convinto che l’alcol fosse “una droga per le classi popolari” e che gli operai “non dovevano annegare i propri dispiaceri nella bottiglia.”
A colpire è anche la sua “idea di futuro,” prosegue il ricercatore, rintracciabile nei provvedimenti presi da assessore di Caldara e poi da sindaco—tra cui spicca la progettazione della metropolitana, la creazione di alloggi popolari con adeguati spazi verdi e persino l’ipotesi di una raccolta differenziata dei rifiuti. Filippetti è infatti convinto che il Comune non debba limitarsi all’ordinaria amministrazione, ma che sia un organismo politico con cui perseguire “gli obiettivi massimi, cioè la rivoluzione socialista, e un radicale miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari,” precisa il ricercatore.
Sin da subito, però, il sindaco si trova a fare i conti con una situazione complicatissima su diversi fronti. Anzitutto le casse comunali sono praticamente vuote, come conseguenza della Prima guerra mondiale e il mancato trasferimento dei fondi da parte dello stato centrale.
Poi deve confrontarsi con l’aperta ostilità di una parte della borghesia cittadina (di cui il Corriere della Sera si fa portavoce), e soprattutto del prefetto Alfredo Lusignoli, convinto che Filippetti sia un pericoloso sovversivo da ostacolare in ogni modo.
Infine, ci sono i fascisti e i nazionalisti: tra assalti alla sede del quotidiano socialista L’Avanti! e spedizioni punitive contro i nemici politici, l’escalation della violenza squadrista è inarrestabile. Basti pensare che la prima seduta comunale della giunta Filippetti viene presidiata in massa dalle forze dell’ordine per il timore di un’incursione fascista.
Alla fine del luglio del 1922, comunque, a Milano (e in molte altre città italiane) viene indetto uno sciopero generale legalitario contro lo squadrismo dilagante e l’incapacità dello stato di controllarlo. Per i fascisti—e le squadracce guidate dai dirigenti fascisti Roberto Farinacci, Aldo Finzi (che sarà coinvolto nell’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti) e Luigi Lanfranconi—è il pretesto ideale per portare a termine il loro disegno eversivo e scalzare Filippetti dal comune.
Dopo un primo tentativo fallito la mattina del 3 agosto, il pomeriggio centinaia di camicie nere fanno irruzione dentro la sede del municipio, allontanano gli assessori socialisti presenti e la occupano, il tutto con l’evidente appoggio del prefetto Lusignoli.
Qualche ora dopo l’assalto—in un episodio che la storiografia non ha ancora chiarito del tutto—lo scrittore e poeta Gabriele D’Annunzio (che si trovava a Milano per motivi imprecisati) si affaccia dalla ringhiera di Palazzo Marino e si rivolge alla folla con un discorso molto vago in cui invita alla “pacificazione nazionale,” ma che i fascisti interpretano come un appoggio al loro operato.
Il sindaco Filippetti, che si trova in Germania per una visita istituzionale, è costretto a tornare in città in fretta e furia. Al suo arrivo si scopre esautorato: Lusignoli ha infatti nominato un commissario prefettizio, il conte Ferdinando Lalli, che ha l’incarico di trattare il passaggio di consegne con le squadre fasciste che hanno preso Palazzo Marino con la forza.
Alla fine di agosto il Ministero degli Interni scioglie il consiglio comunale; a dicembre dello stesso anno diventa sindaco Luigi Mangiagalli, appoggiato da una coalizione composta da fascisti, liberali e nazionalisti. Per Perazzoli, la presa di Palazzo Marino è il “perfetto preludio alla drammatica evoluzione che avrebbe portato Mussolini alla guida del governo dopo la marcia su Roma.”
Filippetti, di fatto, è costretto a ritirarsi dalla politica. Nonostante la scomparsa dalla scena pubblica, il regime fascista continua a ritenerlo un soggetto pericoloso: nel 1928 gli viene ritirato il passaporto, mentre nel 1931 è raggiunto da un ammonimento che gli impedisce di uscire dalla città. Muore nell’ottobre del 1936 per un arresto cardiaco.
Il suo funerale, dice Perazzoli, è una delle ultime manifestazioni pubbliche dell’antifascismo milanese e più in generale italiano. Alle esequie “prendono infatti parte circa settecento persone, tra cui giovani esponenti antifascisti come Lelio Basso [che nel 1928 sarà rinchiuso dal regime sull’Isola di Ponza, e in seguito ricoprirà un ruolo importante nella Resistenza] e vecchi socialisti.”
La famiglia riceve centinaia di telegrammi di cordoglio, tra cui quelli di due esponenti importanti dell’antifascismo: uno di Ferruccio Parri, che diventerà uno dei capi della Resistenza, e l’altro di Antonio Greppi, che sarà il primo sindaco di Milano dopo la Liberazione. Lo stesso Greppi si richiamerà esplicitamente all’eredità di Caldara e Filippetti, a riprova del fatto che quell’esperienza socialista “ha lasciato molte tracce nella Milano del primo dopoguerra.”
È nella città del presente, sottolinea Perazzoli, che “ha invece lasciato ben poco: a Milano si parla spesso di antifascismo quando fa comodo; quando però bisogna riscoprire la lezione antifascista, nel vero senso di quello che è stato, si fa più fatica. E la lezione di Filippetti è stata una difesa degli ultimi a tutti i costi.”
Sebbene sia passato un secolo esatto, ad avviso del ricercatore quella storia è tutt’altro che inattuale. La sconfitta di Filippetti e della sua giunta ci insegna infatti che “non si può mai dare per scontata la persistenza della democrazia, e che per difenderla non si può essere in pochi: ci vuole un consenso di massa.”
Questo valeva nel 1922, chiosa il ricercatore, ma a maggior ragione vale adesso. Dopotutto, viviamo in un periodo storico in cui si sono moltiplicati gli attacchi ai parlamenti, da Capitol Hill negli Stati Uniti fino al Reichstag in Germania, mentre in Italia gli eredi degli squadristi sono tornati a fare ciò che facevano i loro progenitori—come ha dimostrato l’assedio alla sede della Cgil dell’ottobre del 2021.