Quando ho proposto questo pezzo mi è stato risposto: “ok, ma fallo subito, che non se ne può più sentire parlare.” E in effetti in parte è vero. Mi rendo conto che in un paio di settimane dall’uscita, di Yeezus ha scritto praticamente chiunque, ed è anche comprensibile. Già, per una volta non mi sto lamentando dell’hype e degli inutili carrozzoni costruiti attorno a un’uscita discografica voluta “rilevante” a tutti i costi. La differenza con casi tipo Random Access Memories è che qui c’è effettivamente qualcosa di cui discutere, qualcosa su cui riflettere dal punto di vista artistico e non solo promozionale. Mi pare già tanto. Anzi, in realtà mi pare veramente poco, ma lasciamo stare.
Il primo ascolto dell’album ha lasciato praticamente tutti interdetti—anche qui, con buona ragione. Non si può infatti non ammettere che sia di fatto un album complessissimo, pieno di scelte di produzione che si possono tranquillamente definire coraggiose, e pure “sperimentali”, se non altro in seno all’ambito di riferimento. Certo, pezzi tipo “New Slaves”, sono ripoff totali dei Death Grips, così come “On Sight” è praticamente una rapina ai danni del molto meno conosciuto CX Kidtronik, quello che è stato il rapper degli Atari Teenage Riot all’inizio della reunion e poi è tornato da dove era venuto mentre loro si pigliavano uno zarro alto sei metri. Ci sono comunque momenti davvero sorprendenti: “Black Skinhead”, che cambia continuamente di umore e che ha suoni molto interessanti—anche se le percussioni paiono campionate da Marilyn Manson, gli inserti rumorosi di “I Am A God” e, soprattutto, “Hold My Liquor”, dove si sente pesante la mano di Justin Vernon (che, per inciso, solitamente a me fa cacare sciolto) e che finisce con una coda di synth onirica semi-prog. Allo stesso tempo ci sono tamarrate indifendibili come “I’m In It”, la dancehall a cazzo di cane di “Bound 2” e l’abisso di merda con abuso di vocoder di “Guilt Trip”. Quanto a “Blood On The Leaves”, preferisco seriamente fare finta che non esista.
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Chiariamoci, però: anche le tracce di cui ho apprezzato qualche elemento, o in cui sono stato colpito da parte della produzione, non mi convincono appieno. Mi spiego: la storia è piena di artisti pop che, a un certo punto della loro carriera, hanno deciso di realizzare album molto ambiziosi, che hanno fatto funzionare in termini orecchiabili influenze pescate da mondi underground e più sonoramente radicali. Alcuni ci hanno sensibilmente svoltato, Kanye invece toppa in maniera piuttosto grossolana.
Il tono generale dell’album è oscuro, contorto, fatto di suoni pesanti e produzioni fortemente stratificate, molto poco commerciali, apparentemente frutto di una creatività sempre fresca, orientata verso il futuro. Il problema è che Kanye si è dimenticato di inserirla in un contesto che valorizzasse le conquiste di tanta ricerca. Sembra invece che si sia fermato a metà, e anziché controbilanciare le trovate sperimentali, i trick ritmici e il rumorismo con una forma-canzone altrettanto raffinata, abbia deciso di piazzare sull’altro lato della bilancia il peggio dei suoni beceri che l’elettronica e il rap di più basso livello commerciale abbiano da offrire oggi. Autotutune ovunque, melodie cialtrone e, soprattutto, la sua voce che mai è stata così irritante, autocompiaciuta e sfrangiacoglioni. E allora ci si chiede perché mai si sia sforzato così tanto in studio se poi, tutto sommato, non gliene fregava un cazzo di fare un album davvero “di prestigio”. Non che volere essere acclamato a tutti i costi dalla critica sia una buona cosa, fatto sta che l’album suona talmente inautentico, con tutti gli elementi sperimentali di cui sopra che chiedono fortissimo e disperatamente di essere notati, che l’obiettivo sembrava proprio quello.
La chiave sta tutta nei testi: sono anni che West la mena con il suo rapporto con i media, sulla fama che lo nutre e lo divora quanto una rota da crack. Ha giocato ampiamente sulla morbosità parassitaria che il pubblico ha nei confronti della sua persona, del suo personaggio pubblico, dei suoi atteggiamenti. Giocato sì, ma in maniera neanche troppo interessante, al punto che sembra colpevole a sua volta della meschinità che rinfaccia al resto del mondo. Ha bisogno delle loro attenzioni, ed è perfettamente integrato nel sistema in cui si trova. Mai come in Yeezus la tematica centrale è stata questa, e mai è stata sviluppata con così poca autoironia e autocritica, con così poca onestà intellettuale. Potrebbe sembrare che ce ne sia nei due pezzi “politici”, i già citati “New Slaves” e “Black Skinhead”: nel primo protesta contro la seconda schiavitù, quella consumistica, a cui gli afroamericani sono andati incontro dopo la prima; nel secondo prende per il culo ipiù risaputi cliché dell’ambiente.
Sarò stronzo io, ma mi pare non abbia davvero le capacità di scrittura adatte a convincermi di essere consapevole di quanta ironia ci sia nel fatto che lui per primo sia l’incarnazione di tutto quello su cui sputa in questi pezzi. Quando ci prova finisce per sembrare la versione adulta e rincoglionita di Tyler, The Creator, a cui invece certe operazioni di decostruzione dei cliché riescono benissimo. Troppo palese “I Am A God” per suscitare davvero qualche tipo di controversia o quantomeno di reazione, così come la noia fatta testo di “I’m In It”, storia di fisting anale che non sciocca nessuno. Ho letto su Ad Hoc che, alla luce di questo pezzo, tutto il disco potrebbe essere una sorta di provocazione alla Whitehouse, con Kanye che fa la parte del mostro tirannico per denunciare le meccaniche del potere. È un parere interessante ma è anche una forzatura micidiale. Probabilmente chi l’ha scritta aveva bisogno di giustificare in maniera pretenziosa il fatto che il disco gli fosse piaciuto.
Narcisismo e megalomania sono qualcosa di molto importante nell’hip-hop, ma direi che West li ha definitivamente consacrati come, oramai, perfettamente integrali al sistema. Lo stesso vale per la misoginia, latente o palese che sia. Oramai è come se avesse deciso di sintetizzare bullismo G e ignoranza borghesuccia tipica della middle class bianca che dice tanto di disprezzare. Mi chiedo solo quanto ne sia davvero consapevole e quanto questo possa, in definitiva, fare parte della sua tragedia personale. Che sia così o meno, ad ascoltare la sua musica non riesco a non lasciarmi irritare da da un ego così obeso. Una faccia come il culo che non si vedeva dal Lou Reed di metà anni settanta, che però aveva dalla sua l’eroina, un’infanzia condita di elettroshock, e il fatto che Metal Machine Music era tutto sommato una bomba in mezzo a dischi molto meh (sì, compreso Berlin). Non mi fa comunque strano che a Lou il disco sia piaciuto abbestia.
La reazione della critica è stata perlopiù entusiasta: subito sono scattati paragoni con altri “suicidi commerciali”, album che rappresentavano una svolta pericolosa per la carriera dell’autore, ma che magari sulla lunga distanza hanno reso parecchio. Sulle prime, infatti, mi stavo quasi convincendo che la sua fosse una mossa alla Scott Walker, che dopo avere assaggiato un successo pop-stellare negli anni Sessanta, negli ultimi 30 si è richiuso in una specie di eremitaggio a sfornare album uno più difficile e radicale dell’altro. La differenza è che, dove uno ha dimostrato di non avere davvero a cuore cosa sarebbe rimasto della sua immagine pubblica, l’altro ha un bisogno disperato che si parli di sé. Ha deciso di spingersi musicalmente oltre i limiti della commercialità solo per dimostrare a tutti di non avere limiti, rivelandoli paradossalmente tutti, ma proprio tutti. Perché davvero, quando hai risorse illimitate, decine di collaboratori e mesi da spendere in studio, sono davvero buoni tutti a tirare fuori i suoni matti. Altra cosa è saperli far funzionare.
Ambigua pure la reazione del pubblico. Appena uscito, l’album ha venduto un botto di copie, ma mi sembra davvero che abbia subito un calo di popolarità vertiginoso appena la gente ha inizato ad ascoltarlo bene. Il fatto è che è un disco che può davvero interessare solo chi ha voglia di farsi tutte queste pugnette mentali, visto che manca proprio la ciccia per dire “ma sticazzi, è orecchiabile e mi piace.” Mi aspetto di venire smentito perché al mondo c’è pure chi magna la merda, però dai, a chi è che è piaciuta questa vaccata di album senza avere almeno fatto finta di sviscerarlo?
Il punto è che fruire di qualcosa, analizzarlo, e infine giudicarlo, in questo 2013, è materia difficile e fonte di incredibili bestemmie una volta che tale giudizio è stato pubblicato (se non lo sappiamo da queste parti), ma soprattutto è quasi impossibile essere certi che la buona fede, propria e altrui, sia stata intaccata da qualche minchiata esterna. Il modo in cui il mondo ha reagito a Yeezus è particolarmente emblematico—del resto è stato sfornato a bella posta da una hype-machine rodata. Ma è anche interessante vedere come ci si comporta di fronte a un caso “vero” (tra virgolette.. parola pericolosa e pesante da usare oggi) di artista che si sbilancia fuori dal territorio che gli aveva garantito successo commerciale. È il caso di James Holden, e del suo ultimo album che contiene tutto tranne quello che lo aveva reso famoso (e portato a remixare pure mi’zio) sette anni fa con The Idiots Are Winning.
Praticamente si è seduto nel suo studio e ha svarionato come gli pareva, tirandone fuori un’ora e mezza di escursioni drone, arpeggi-trapano analogici, e quando decide di cavalcare un beat somiglia molto più a un motoriko krauto che a qualsiasi forma di house. Anche qua si è gridato al genio, applaudito il coraggio, spompinato a destra e a manca. A me l’album piace e neanche poco, ma mi è mancata la voglia di salutare il miracolo considerato che di roba stilisticamente simile, e magari pure qualitativamente superiore, ne ascolto a quintali. Non è per menarmela, ma mi fa sinceramente rosicare che non si sia accumulato un livello di hype paragonabile intorno, per esempio, agli ultimi album di Lee Gamble o al recentissimo primo LP dei Metasplice. Eppure, se c’avete orecchie per digerire gli spippoli modulari di Holden, vi potranno tranquillamente piacere pure loro.
Di positivo c’è che, sia Kanye West che James Holden rappresentano dei casi in cui a fare notizia è il “coraggio” artistico, l’uscita dai binari. Un’uscita che, a prescindere dai risultati, c’è stata per entrambi, molto più che nel caso svolte “storiche” alla Kid A. Una controtendenza rispetto alle campagne basate sulla fuffa allo stato puro tipo quella dei Daft Punk (sì, lo so che è pure colpa di VICE, e sticazzi?) e, in misura moooolto minore, quella fatta dalla Warp per i Boards Of Canada (che ha quasi finito per penalizzare un album che ha la colpa di essere “solo” un buon album).
Allo stesso tempo, però, mi pare che la critica indie-generica sia poco incline a perdonare quelli che, dopo l’album “difficile”—sempre tra virgolette perché sempre di pop si tratta—calcano la mano buttandone fuori uno ancora più difficile. È il caso dell’accoglienza freddina che qualcuno ha dato al nuovo dei These New Puritans, Fields Of Reeds, un album magniloquente, pieno di archi e pezzi lunghi, e curato fino al dettaglio. La colpa, anche in questo caso, è di essere tutto sommato solo un ottimo disco, che rischia di venire oscurato nei meriti dalla sua stessa lavorazione e, peggio ancora, dalla dimensione “narrativa” che lo accompagna. Quasi che il prezzo da pagare per la ricerca musicale sia che se non hai sfornato un mostruoso capolavoro in grado di cambiare immediatamente le sorti dell’umanità allora vaffanculo… Questi sono solo alcuni dei guai del cercare a tutti i costi il disco generazionale e immediatamente storicizzabile, volere a tutti i costi un “classico” per paura che l’idea stessa di disco epocale si sia persa per sempre. Questa è più letteratura che critica, e non è necessariamente un male, in fondo sono pugnette mentali a cui dà forse più importanza chi scrive di musica di chi ascolta, ma di cui l’ambiente (ha ancora senso chiamarla “industria”?) musicale post-indipendente si alimenta ampiamente. Discussioni e informazioni che rappresentano l’unica moneta di scambio con cui la musica oggi si riesce a vendere.
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