Il 15 luglio 1974 la giornalista americana Christine Chubbuck è stata la prima persona a suicidarsi in diretta tv. Dico “la prima” perché purtroppo il suo gesto è stato ripetuto più volte, da allora. Il film Quinto potere, del 1976, si basa sulla sua morte. In un certo senso la vicenda psicologica di Christine non è strana—ma la sua morte, e l’impatto che ha avuto, lo è.
Il regista Robert Greene è rimasto colpito dalla storia nel momento stesso in cui l’ha sentita. E il fascino si è trasformato in opera, perché al Sundance Film Festival di quest’anno è stato presentato Kate Plays Christine, un film di impronta documentaristica in cui seguiamo l’attrice Kate Lyn Sheil mentre si prepara a interpretare Christine Chubbuk in un secondo film, inesistente. Lo spettatore vede Kate cercare di capire Christine e le sue motivazioni, e si deve interrogare su fino a che punto la realtà e la finzione possano intersecarsi.
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Abbiamo incontrato Robert per parlare della storia vera di Christine, e del suo approccio registico inusuale alla sua.
VICE: Ciao Robert, partiamo dal perché. Perché Christine Chubbuck?
Robert Greene: È cominciato tutto nel 2002-2003. Un amico mi ha chiesto, “Hai sentito queste storia? Pare tipo Quinto potere.” Erano i dettagli la cosa più straordinaria—soprattutto il fatto che è stata lei a sceneggiare il suo suicidio [perché altri giornalisti trovassero e leggessero la sceneggiatura dopo la sua morte] e che sarebbe stata una delle ultime volte in cui un fatto tale sarebbe andato perso nei meandri della storia. Allora non c’erano videoregistratori, solo l’emittente televisiva aveva una copia del girato. [Per decenni si è detto che le uniche persone ad aver visto il suicidio di Christine erano stati gli spettatori del programma]. Un paio d’anni dopo invece, un uomo si è suicidato in diretta tv, e puoi vederlo su YouTube. Mi affascinava, ma poi ho anche pensato: non ho il diritto di raccontare questa storia.
Capisco, anch’io l’avrei pensato.
Sì, quando consideri i dettagli, quello che è successo è terribilmente semplice. Mi sono subito reso conto che non ero la persona adatta a fare questo documentario, o almeno non ero la persona adatta a fare un documentario puro. Ho lottato con quest’idea. Ma lentamente mi è venuta un’altra idea: Kate avrebbe interpretato questo ruolo e in questo modo io avrei potuto vivere e capire così le mie emozioni. Ed è di questo che parla il film, in realtà.
È anche un tentativo di capire Christine per quello che era davvero?
Sì. Volevamo capire Christine in profondità, perciò abbiamo parlato con le persone che la conoscevano—molte l’avevano quasi dimenticata. Ma il film parla anche del fatto che quando qualcuno si suicida, soprattutto in un modo così memorabile, il nostro istinto è di crearci intorno una storia—perché a quel punto possiamo anche chiuderla in un cassetto. Ma è un istinto che trovo sbagliato. Il film si concentra piuttosto sul fatto che la narrazione non riesce a catturare una cosa che, in realtà, non è comunicabile. In un certo senso, guardi un film che fallisce. E il cui fine è fallire. E penso che quando non riesci a capire Christine, vieni attanagliato ancora di più dall’orrore.
Perciò si può anche dire che tu stia esplorando la narrazione come mezzo?
Quello che trovo intrigante di Christine è il fatto che voleva contestare la televisione splatter, ma così facendo ha creato il più grande splatter che sia mai comparso in televisione.
Ok, so che mi stai dicendo che il suicidio di Christine non è il punto centrale del film, ma io voglio saperne di più. Esiste un nastro del suo suicidio? Cosa è successo?
Lo scopri nel film—abbiamo trovato il nastro. C’è anche stato un seguito—la persona che possedeva il nastro l’ha affidato ora a un avvocato.
Nel film si vede il nastro?
Non voglio rovinarti il film. Diciamo che l’ultimo atto del film ruota intorno all’esistenza del nastro e alle motivazioni per cui siamo ossessionati dall’idea di vederlo.
Ok, ok. Mi hai detto che avevi il sentore di non essere la persona giusta. Ora che il film è finito, hai cambiato idea?
Posso dire che sono contento che siamo andati fino in fondo nella sua psiche. Continuo a pensare che si sia suicidata in tv per fare uno statement, ma era anche una donna disturbata, aveva bisogno di aiuto. Eppure 42 anni dopo, le stiamo ancora offrendo un palcoscenico. Mi mette a disagio il fatto che lei si sia uccisa come se volesse questo palcoscenico.
Ti sei chiesto cosa penserebbe del tuo film?
Non mi piace metterla così. In parte perché sappiamo molto poco di lei. Come dicevo prima, c’è una tendenza generale a imbastire storie. Ma sappiamo così poco. Suo fratello è ancora vivo, ma ha reso chiarissimo di non volerne parlare. In qualche modo mi piacerebbe che lui vedesse il film e lo commentasse. Ma a quello che penserebbe Christine non voglio pensare.
Forse parte del pubblico avrebbe preferito un documentario normale. Sei contento della risposta che hai ottenuto?
Sì, pare che piaccia a tutti. Alle persone piacciono i film che cercano di instaurare un dialogo. Un critico ha scritto che ha visto il film due volte, ed è rimasto colpito dal fatto che lo spettatore ha un ruolo attivo nel crearne il significato. Ed è quello che volevo, quindi ne sono felice.
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