Foto via Nicholas Gemini/Wikimedia Commons.
Lo scrivevo da queste parti appena qualche settimana fa: a me Zerocalcare non piace. Non piacciono i suoi fumetti, intendo. Il modo in cui sono disegnati, le storie che raccontano, lʼautobiografismo al tempo stesso sentimentale, ironico e consolatorio, gli armadilli e gli “accolli”, gli ammiccamenti generazionali e gli “stacce”.
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Scrivevo anche che però lui mi sta simpatico, per quanto può starmi simpatico un tipo che di persona non conosco. Leggo sempre le sue interviste e non trovo nulla di irritante nel tono modesto delle sue risposte, non mi urta che nelle storie mescoli videogiochi e Centocelle City Rockers, non ci vedo nulla di ipocrita nel suo impegno “movimentista”, e men che mai penso che iniziative come il viaggio a Kobane siano delle furbate, o peggio ancora delle bieche operazioni autopromozionali, come lasciano intendere non pochi tra i suoi detrattori. Per la miseria, voglio dirlo: a me Michele Rech in arte Zerocalcare sembra proprio uno bravo. Solo che fa fumetti che non mi piacciono. Non è difficile.
Cʼè un che di perverso nelle diatribe che Zerocalcare va suscitando da mesi. Da una parte ci sono i suoi fan, o perlomeno i più integralisti tra questi, per i quali Rech è una specie di santo, di icona inviolabile, e se provi a muovere mezza critica a storie tipo il Tizio-cozza ti rispondono “Eh ma tu a Kobane mica cʼhai le palle di andarci” (un atteggiamento a cui sembra alludere lo stesso Zerocalcare nel suo reportage per Internazionale, quando sbotta “E moʼ chi cazzo è il fumettista disimpegnato? Io soʼ stato a Kobane, ammerda!”). Dallʼaltra, ecco un agguerritissimo stuolo di arcinemici per i quali lʼautore di La profezia dellʼarmadillo è responsabile di nefandezze che manco Fabio Volo. È anche un partito piuttosto trasversale, che va dai duri e puri dellʼunderground a Guia Soncini, il cui “noi almeno avevamo Serra” racconta la statura del personaggio. Comunque.
Penso sia superfluo ribadire che criticare Zerocalcare si può, e che se proprio i suoi lavori non piacciono, di fumettisti suoi coetanei tra cui scegliere ce nʼè una valanga—ammesso che i fumetti interessino, ovvio. Devo anche dire che se trovate le storie sul Tizio-cozza ignobili, allora conoscete poco il mondo degli underground comics da cui lo stesso Rech proviene, che ahimé non sono solo Ratigher e Pira. Voi non avete idea della quantità di monnezza che mi è capitata per le mani in non so quante edizioni di Crack!, il festival di fumetti indipendenti che si tiene al Forte Prenestino di Roma: storie di coinquilini che litigano per il cesso intasato, discettazioni parafilosofiche sulla pasta al tonno, pazienzismi di serie Z disegnati col culo, insomma, credetemi, di quel giro lì Zerocalcare è uno dei migliori, ma che dico, a confronto è Moebius.
Ci tengo a dire che al Crack! ho trovato anche una quantità di cose splendide e autori meravigliosi, figuriamoci. E tra lʼaltro, ora che ci penso, fu proprio al Crack! che per la prima volta mi imbattei nei lavori di Zerocalcare, ormai parecchi anni fa. A riguardo non ho memorie particolari: presumo di averlo relegato a tipico parto di unʼestetica che nei centri sociali ha sempre goduto di una certa fortuna, perché diciamocelo, i centri sociali saranno pur stati Decoder e Torazine, ma erano anche Skarabiniere e i party con le sigle dei cartoni animati giapponesi. In ogni caso: come mi sbagliavo! Tempo qualche anno, e a parlarmi di Zerocalcare sarebbe stata la sorella della mia compagna, una che il Forte Prenestino credo nemmeno sappia dove sia. Le avevano regalato La profezia dellʼarmadillo per Natale, e io pensai “vedi tu, dai sotterranei di Centocelle ai cenoni a Valle Aurelia.”
Che la platea di Zerocalcare non si esaurisca ai soli in grado di cogliere i riferimenti ai Klaxon o ai Monkeys Factory che puntellano le sue storie, è comunque segnale di qualcosa. In maniera sbrigativa e necessariamente imprecisa, potremmo parlare di Rech come di un autore generazionale: in una recensione di un paio di anni fa (ben prima cioè di Dimentica il mio nome), Vanni Santoni spiegava che “Zerocalcare funziona perché […] è anche fumetto popolare. È popolare perché parla di una quotidianità che riguarda tutti, certo, ma soprattutto perché trae la sua linfa dall’immaginario pop più profondo, andando però oltre il citazionismo: quello che fa è raccontarci di come tale immaginario innervi le anime di due generazioni cresciute con Junior TV.”
È un passaggio interessante: al di là delle storie di tutti i giorni, dei casi umani, dei dilemmi interiori e non, secondo Santoni “Zerocalcare ci ricorda che il seme gettato da tanti anime visti quando erano ancora solo ‘cartoni animati giapponesiʼ […] non è andato perduto: la portata mitopoietica di quelle opere viene oggi ripresa dal fumettista romano, il quale fa dei loro eroi qualcosa di non dissimile da apparizioni divine – se per dio si intende, crowleyanamente, un perno simbolico grazie al quale provare a spiegarsi meglio la realtà.”
Vedere citato Crowley in un pezzo su Zerocalcare scommetto che non ve lʼaspettavate. Ed è curioso, perché le parole di Santoni sono le stesse che utilizzerei per, non so, il solito Pira. Anche lui nei suoi fumetti ci infila David Gnomo, anche in Gatto Mondadory i feticci pop dellʼinfanzia si trasformano in creature mitiche, divine, “iperstizionali”. Ovviamente, Pira e Zerocalcare risolvono quelle presenze in maniera molto diversa, antitetica direi. Tra le due, credo abbiate capito qual è quella che sento più vicina.
Però quello che a questo punto viene da chiedersi è: ha ancora senso parlare di Zerocalcare come di un fumettista, o meglio ancora circoscriverne il fenomeno al nobilissimo ma evidentemente ristretto ambito della “narrativa disegnata”? Molti dei suoi seguaci sono giovani che un fumetto magari manco lʼhanno mai comprato, e che piuttosto in Rech intravedono una specie di portavoce, persino di referente morale. Al tempo stesso, i detrattori quasi mai entrano nel merito del suo lavoro, relegandolo perlopiù a sottoprodotto della peggior estetica mucciniana virata centro sociale occupato (di nuovo, nel reportage per Internazionale, Zerocalcare sembra quasi replicare allʼaccusa parodiando Come te nessuno mai).
È una domanda che, nel momento in cui i tuoi libri vendono quarantamila copie, contiene già la risposta: Zerocalcare non è solo un fumettista, è un caso, editoriale ma anche di costume. Ma è anche una domanda che, alla luce del reportage da Kobane, qualche sfumatura nuova ce lʼha. Cosʼè quel reportage? Un fumetto, dʼaccordo. Un fumetto autobiografico come da tradizione dellʼautore, aggiungiamo pure. Però è anche un reportage di guerra, o meglio ancora (addirittura!) unʼopera militante: serve a uno scopo, e cioè raccontare la resistenza dei curdi del Rojava contro lʼISIS sul confine turco-siriano.
Io Kobane Calling lʼho letto, e ci ho trovato tutti i cliché dellʼautore: i cartoni animati giapponesi, le citazioni dai gruppi punk, Rebibbia, le battute in romanaccio, gli “accolli”. Però ecco, gli interrogativi che stavolta mi sono posto non riguardano il modo in cui Zerocalcare disegna e racconta le sue storie. Molto più banalmente, mi sono chiesto: “funziona questa storia?”. Ma non nel senso a cui accennava Vanni Santoni nel passaggio sopraccitato. Proprio nel senso, assai più prosaico, di: “raggiunge il suo scopo”?
Beʼ, io credo di sì, ammesso che lo scopo da me ipotizzato sia lo stesso dellʼautore. Di sicuro, in Italia del Rojava non si è parlato molto e soprattutto se ne è parlato male (di contro alla grande esposizione mediatica riservata ai Peshmerga, per dire), e che il numero di Internazionale con in copertina il reportage di Zerocalcare sia andato esaurito in poche ore, è in sé una piccola notizia. La mia allergia nei confronti dei codici estetici, linguistici e retorici dellʼautore, non toglie che il fumetto riesca non solo a raccontare “una vicenda”, ma anche a trasmettere un senso di umana partecipazione, anche se qui e lì scade nel didascalico, ma vabe’. Mi viene da pensare che Kobane Calling riassume un poʼ perché Zerocalcare non mi piace ma al tempo stesso sono contento che ci sia, al punto che fino a oggi ho sempre evitato di scriverne perché non mi andava di buttare giù stroncature più o meno velenose. E pure stavolta, che posso dire? Non mi va di tirare in ballo i paragoni con Joe Sacco, non mi va di ironizzare sul titolo che come da copione cita i Clash, e alla fine chi se ne frega di lui che fa le battute sulle olive piccanti e il Kinder Briòss. L’ho letto e per una volta mi è venuto di sospendere il giudizio, perché… non so perché; forse veramente perché lui a Kobane cʼè stato e io no.
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