Música

Alza la testa, compagno: le canzoni di protesta di Dario Fo

Roberto Maroni, presidente della regione Lombardia, ha salutato Dario Fo con un tweet​: “Nobel meritato, ha dileggiato il potere restituendo la dignità agli oppressi” (che peraltro è la trascrizione letterale della motivazione data dall’Accademia di Svezia per il premio nel 1997). 

Ecco, alla luce di questo ci si chiede che senso abbia aver vissuto una vita a dileggiare il potere e a restituire dignità agli oppressi se poi ti prendi il Nobel (onorificenza, ricordiamo, assegnata a una criminale quale madre Teresa di Calcutta… altro che il caso Dylan) e Maroni (un leghista orribile) ti loda. Evidentemente qualcosa non va, ed è chiaro il motivo per cui Jacopo Fo ha mostrato tanto livore​ nei confronti di chi ha ricordato il padre senza averne alcun diritto. 

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Nel caso di Fo molte erano le stranezze (perché sì, vanno chiamate in questo modo) che hanno attraversato la sua vita di artista. A volte lanciato in guerre ideologiche discutibili (non ultima l’incomprensibile aderenza al Movimento 5 Stelle), a volte teso a dribblare un passato scomodo e poco chiaro che gli avversari non perdevano occasione di tirare fuori dal cilindro alla bisogna. Gli rinfacciavano i trascorsi da repubblichino, da lui giustificati come unico modo per salvare la pelle e per coprire l’attività antifascista del padre partigiano, alibi che molti hanno cercato di far scricchiolare. A volte le sue amicizie lasciavano in effetti a desiderare (pensiamo ad Albertazzi, Casaleggio). Ma in linea di massima la sua condotta era, come dire, urgente, fatta di contraddizioni umane non create ad hoc. Soprattutto va riconosciuta la militanza sudata in zona rossa, tanto da essere brutalmente colpito negli affetti, con la violenza fascista ai danni di Franca Rame, altra figura fondamentale delle tante lotte politico/teatrali di Fo. Ecco, diciamo che era istintivo anche nel cambiare pelle, nel bene e nel male. Ed era soprattutto multidisciplinare, cosa che lo porterà a sperimentare anche nel campo della musica: teatrale, leggera, da avanspettacolo, per la tv. Un comico da battaglia, un giullare, sì, ma soprattutto un grande autore di testi e ovviamente, come un moderno Bertoldo, astuto nel bucare con ogni arma artistica necessaria lo spesso velo del potere.

Nella musica leggera Fo si era già distinto per brani di altissima presa popolare e nello stesso tempo sottilmente politici: a parte il sodalizio con Gaber e con Cochi e Renato (“Mamma vado a Voghera”, ecc.), i celebri pezzi come “Ho visto un re”, “Vengo anch’io”, scritti a quattro mani con il compare Jannacci, parlano da soli nel loro far entrare a gamba tesa gli emarginati e le storie connesse nel pop italiano di alta classifica. E anche, ovviamente, nell’attirarsi le ire della censura come sottolineato da questi versi tagliati di “Vengo anch’io”:
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
vengo anch’io? No tu no
giù nel Congo da Mobutu a farci arruolare
poi sparare contro i negri col mitragliatore
ogni testa danno un soldo per la civiltà.
Vengo anch’io…
Si potrebbe andare tutti in Belgio nelle miniere
Vengo anch’io? No tu no
a provare che succede se scoppia il grisù
venir fuori bei cadaveri con gli ascensori
fatti su nella bandiera del tricolor.

Niente male, eh? Ma è nella musica da teatro che forse Fo esplora qualcosa di realmente sperimentale, fra il canto di lotta, la musica popolare, il folk, la sperimentazione vocale (da lui sempre legata al linguaggio) di cui Mistero Buffo, l’unica opera che tutti sembrano ricordare, anche se magari l’hanno vista di sfuggita in tv, non è l’unico esempio ovviamente: oltre al grammelot sono proprio le inflessioni vocali, i glissati, il timbro e la potenza a trasformare un testo in un canto quasi primitivo, addirittura evocano certe “africanate”. Qualcosa che in effetti sembra anche proto punk, storto quanto basta a ricordare anche le stramberie di Skip Spence. Questo mix è individuabile soprattutto nelle partiture del periodo La Comune, quando Fo e la Rame decisero di fondare un collettivo teatrale, appoggiandosi all’ARCI per creare aggregazione e organizzare spettacoli privati a sfondo politico/critico impedendo l’ingresso alla polizia (la quale, impotente, non ci penserà due volte ad attaccare il progetto con arresti, minacce e vari tentativi di silenziarlo… In pratica, l’unica differenza con la situazione dei circoli odierna è che un tempo il pretesto era la politica, oggi, ahimè, il commercio). Da questa esperienza vedranno la luce diversi spettacoli, due dei quali a nostro parere assolutamente micidiali quanto sottovalutati: Morte e risurrezione di un pupazzo (con la meravigliosa, violentissima e allucinata “Via Tibaldi” ) e Pum pum! Chi è? La polizia!.

Quest’ultimo è considerato un prodotto minore del teatro di Fo, molti lo additano come stanco e datato ad ascoltarlo oggi (e molti addirittura anche allora). In realtà, scorporato dalla pièce teatrale e dal suo tempo storico, la musica sembra straordinariamente tenersi in piedi da sola. Opera di un genio assoluto come Paolo Ciarchi, già autore della partitura di “Ho visto un re” e cofondatore de La Comune, contiene tanti di quegli spunti da poter essere considerato un minestrone di “musica a venire”, per cui una cover di ciascun brano in versione rock o new wave o quello che vi pare non sfigurerebbe da nessuna parte (io stesso mi cimentai in quest’operazione con gli Shokogaz). Ciarchi ha un percorso incredibile: partendo dall’avanspettacolo e dal cabaret milanese a fianco di Jannacci & co., giunge diretto alla corte de I Dischi Del Sole, collaborando col nuovo canzoniere italiano e accompagnando Giovanna Marini. Non pago, negli anni Settanta lo vediamo nella tournée di Re Nudo a fianco dello zappiano Riccardo Fassi, e poi immerso in sonorizzazioni di un’improvvisazione estrema col progetto Suite Movie, nel quale monta e missa sequenze di film a caso, sull’onda della “verifica incerta”. Dulcis in fundo (e cosa fondamentale per capire il suo approccio) è un rumorista: uno che dietro le quinte si pone con piglio industrial nella drammaturgia sonora. Lui stesso, in una vecchia intervista, confessava: “Da un po’ di tempo mi sono fissato sugli oggetti da suonare. Non avendo mai avuto i soldi per comprare un Fairlight d’oro o un computer d’argento, mi sono detto: o smetti di suonare oppure scopri che il gioco non è il giocattolo e la musica non è lo strumento. Allora mi sono messo a suonare le scatole dei fiammiferi, i cucchiai, le bottiglie e le sedie. Se non ho niente uso la testa, il petto, la voce”.

La sua voce appunto (insieme con quella di Fo) è grande protagonista del disco. Voce che traduce le grida di chi è schiacciato quotidianamente dal potere. Ascoltare questo disco nel 1999, quando lo raccattai per caso in un mercatino dell’usato a Castel Sant’Angelo, rappresentava paradossalmente una chiave per avere una visione lucida del presente: G8 di Genova alle porte, paranoia fascista in ogni angolo, 11 settembre in agguato. Pum pum! Chi è? raccontava delle stragi di stato, degli insabbiamenti polizieschi, a volte con una brutalità tale che oggi, se pensiamo al caso Cucchi e ad altre agghiaccianti storie del genere, non possiamo che riconoscere come assolutamente attuali. Andiamo quindi ad ascoltarci questo disco e ne vedremo delle belle. È un disco, tra l’altro come molti de La Comune, autoprodotto con scarsissimi credits e copertina ridotta alla sola busta (l’unione fa la forza più che i singoli, insomma).

Innanzitutto dipingiamo un quadro storico: Pum pum! è ideato nel 1972 e tratta in modo malato e farsesco delle trame nere, dei servizi segreti e delle strategie della tensione. Si fa un excursus dalle bombe fasciste del 12 dicembre 1969 alla morte di Feltrinelli passando per l’omicidio Calabresi e le conseguenti indagini sulle Brigate Rosse. Insomma un bel macello, sintesi perfetta dell’Italia dilaniata di allora. Nel 1973 l’opera sarà messa in scena in un cinemino di periferia che poi La Comune occuperà dopo uno sfratto illegale tentato dalla madama. Gli attori interpretano dei funzionari di polizia che entrano ed escono di continuo dalla scena, artefici delle montature di stato delle quali vengono portate a galla le contraddizioni. Fo è l’unico a rimanere fisso sul palco nel ruolo del “dirigente superiore”, quindi del capo dei burattinai il quale ovviamente non ha la stessa capacità trasformista e l’irresistibile comunicatività del giullare: anzi, qui il potere è identificato come rigido, mosso da un’ambizione a travestirsi e celarsi, perennemente “wannabe”, privo d’astuzia, incapace di fregare realmente il prossimo se non con la forza e con delle “leggi non scritte” che una volta smascherate perdono subito potenza. 

Si riprende il “teatro cronaca” dello spettacolo di Fo Morte accidentale di un anarchico del 1970, in cui viene denunciato l’assassinio dell’anarchico Pinelli (caso che anche in Pum pum! ritorna in maniera massiccia, per non dimenticare): sicuramente ripetitivo, lo spettacolo è accusato per questo di poca inventiva ma probabilmente è una sensazione voluta, una specie di loop architettato per far entrare meglio i concetti nella testa della gente (della serie: goccia dopo goccia, l’acqua scava il marmo).

Il primo brano, “Quella che stiamo per raccontare” è un’introduzione che mette subito in chiaro come stanno le cose, un riassunto della faccenda: “Nel mondo esiste solo una legge, quella della violenza / sulla violenza si poggia il potere, è sempre stato così”. Un urlo belluino di Fo tenuto ad libitum introduce un pezzo che fa dell’ostinazione il suo perché, con una serie di stop and go quasi punk in cui la chitarra acustica la fa da padrone nella sua assoluta semplicità e potenza.

L’atrocità delle vessazioni contro il popolo è perfettamente ritratta nel pezzo successivo, “L’operaio e il cavallo”, in cui la classe operaia è paragonata a un cavallo che crede di vivere in una prateria e invece è rinchiuso in quattro metri quadri, costretto ad accoppiarsi con cavalle di legno e a mangiare sterco pensando che sia fieno e correre all’impazzata sempre in tondo, fino a che non crepa. Insomma, gli inganni del capitalismo gettati in faccia al popolo con rabbia e allo stesso tempo sgomento: un pezzo che inizia con una spensieratezza leggera che si trasforma presto in amarezza e schifo. Da notare la metrica e le linee melodiche completamente sfasate, con continui cambi di tempo e soluzioni armoniche tese a sottolineare il turbamento allucinato di non saper riconoscere il vero dal finto. Anche qui la chitarra acustica si distingue in svisate weird folk assolutamente stranianti, un vero pezzo da novanta.

Qual è il mezzo di diffusione di massa più amato dal potere? Ovviamente “La stampa”, che, manipolata a dovere, confonde le acque, crea mostri, rincoglionisce. Il brano è un valzer incalzante e plumbeo, che ricorda tanto i migliori momenti del De Andrè di Storia di un impiegato quanto gli abissi melanconici di roba new wave come gli OMD periodo Organisation e i Japan di Nightporter. Insomma nonostante ci si basi solo su voci e chitarra, la musica viaggia su binari che vanno oltre il periodo storico e la forma. Come se il folk fosse un trampolino di lancio verso un altro modo di concepire la canzone popolare: nel suo andazzo circolare il pezzo ricorda il ciclostile, il susseguirsi delle notizie che ossessive cercano di coprire la realtà dei fatti.

Il brano successivo, “Bombe dappertutto”, sembra scritto oggi. I servizi segreti deviati, il controspionaggio sfuggito al controllo dello Stato, oggi sono argomenti trattati alla luce del sole. Il brano dura pochissimo ma c’è un reprise subito dopo in cui, in stile quasi dixieland, si ripercorrono i tentativi di colpo di stato in Italia (citazione del “golpe Borghese” in primis) con Fo a puntellare il tutto con improvvisazioni vocali pirotecniche. Una bella colonna sonora degli attentati che oggi come oggi riempiono le cronache, mentre ci beviamo tutte le stronzate che dall’alto ci raccontano.

Il pezzo seguente continua a esplorare il concetto di insabbiamento. “Prima qua poi là” descrive i risultati maligni della confusione mentale indotta dal circo mediatico, cioè la resa dei lavoratori che pisceranno letteralmente sangue per ingrassare loro malgrado il capitalismo. Anche qui durata brevissima, ma un grandissimo lavoro di contrappunto fra chitarra e voce, imperterrita nell’imitare un basso tuba con la bocca stile pre-Bobby Mc Ferrin (di cui più avanti Ciarchi si professerà grande fan; non ne avevamo dubbi).

In “7 maggio”, presa per il culo delle elezioni del ’72, si sottolinea il fatto che il paese è in mano alla polizia. Si ripercorre la morte di Feltrinelli, il famoso editore noto per essere il fondatore dei GAP e quindi sovversivo doc, avvalorando la pista dell’esecuzione per mano dello stato e non tanto per errore di calcolo. Egli esploderà infatti sotto un traliccio dell’Enel: per anni la versione ufficiale è stata quella di morte accidentale (aridaje) durante la preparazione di un attentato, ma recentemente sono saltate fuori delle incongruenze che potrebbero riaprire il caso. Ragion per cui altre grosse ombre calano sulla faccenda. Quelli che definivano Pum pum! come “imbarazzante” a causa delle sue tesi forse erano in malafede. Tant’è che situazioni del genere continuano a ripetersi ancora oggi (pensiamo agli attacchi kamikaze). Il brano si trasforma da brano folk a pezzo dixie, ponendo l’accento sul potere che muta la propria forma per continuare a prendere per il naso il popolo.

Già, il popolo. “Alza la testa compagno” dal titolo sembra un pezzo di protesta classico, tutto cori e pugni alzati alla Pietrangeli, insomma: sennonché poi la metrica comincia a sfasare, ancora una volta con cambi di armonia, tempo e melodia imprevedibili. Nonostante ciò il messaggio arriva immediato: armarsi della propria rabbia e usarla per rovesciare il potere combattendo in molti e non da soli, perché chi abbassa la testa se la prende letteralmente in culo. 

Conclude il lato A un reprise di “Quella che stiamo raccontando” in cui si accusa senza mezzi termini il Viminale di ordire trame ai danni della Nazione. I peli sulla lingua de La Comune, se ci sono, non sono i loro.

Il lato B comprende “Dormi dormi”, che è una sconsolata presa di coscienza sulle vecchie istanze “rosse” che stanno crollando, le mitiche scarpe rotte dell’inno sostituite da scarpe della Standa. Una ninna nanna al movimento operaio oramai intontito, che sarebbe stata bene in bocca al Ferretti di “Guerra e pace”, quando i CCCP in fondo raccoglievano il testimone del “teatro cronaca” versione punk. Durata brevissima ma incisiva, impreziosita da riverberi naturali.

“Quella sera cascava il Pinelli” riallaccia l’esecuzione di Pinelli, suicidato da parte della polizia, all’assassinio del commissario Calabresi, considerato uno dei principali responsabili della morte dell’anarchico innocente. Ovviamente, anche in questo caso i fatti sono poco chiari e a distanza di tempo, tempo in cui la responsabilità è stata scaricata sulla sinistra extraparlamentare, è emerso che non si era tenuto conto di numerose e allucinanti incongruenze e del probabile coinvolgimento dell’area del terrorismo nero tramite infiltrazioni e depistaggi (ad esempio la compartecipazione occulta del fascista Gianni Nardi). Anni di processo e di relative sentenze non hanno dunque ancora risolto nulla. Fo e la sua banda qui dicono chiaramente che l’omicidio è, ancora una volta, omicidio di Stato. E lo ribattono con una canzone molto simile agli andazzi buffeschi di “Ho visto un re” con un finale fatto di sghiribizzi vocali e fischiettii. 

Ma d’altronde “Ora è morto e questo deve bastare”. In questa canzone muscolare che vedrei bene nelle mani di qualche massiccio gruppo shoegaze, visti i suoi accordi cristallini, si narra come il delitto Calabresi sia stato attuato in grandissima tranquillità, coperto dalla polizia e con un’esecuzione stile “tecnica americana”. Grande lavoro vocale e metrico di Ciarchi, che riesce a fare slalom tra le sbarre della metrica, rivoltando a piacimento le partiture con voce larga e spiegata. Ma la cosa migliore è la parte in cui Fo, recuperando il parlare di Mistero Buffo, recita la pantomima del Tartufo di Molière: Machiavelli, citato, ci rivela perché è necessario, per un potere che voglia recuperare credibilità, giustiziare i suoi stessi servi una volta che questi sono invisi al popolo. Insomma, una tecnica vecchia, ma sempre valida. Il tutto su un tappeto di vocalizzi stile Edda Dell’Orso accompagnati da una chitarra sognante che non sfigurerebbe in un disco di Alan Sorrenti primo periodo. 

Ma che sogno? E’ un incubo: “L’inchiesta su di te la conduco io!” è uno spaccato all’interno della giustizia italiana, in cui i potenti si coprono le spalle a vicenda conducendo inchieste l’uno sull’altro al fine di inquinare le prove. Anche qui Fo, su un dixie irresistibile e scanzonato, sfoggia tecnica vocale ricca di toni e strappi, naso gola e sberleffi punk, probabilmente improvvisando alla grande. 

Il finale invece è la cosa più esplicita: si ri-cita e si recita Molière, in un ennesimo attacco all’ipocrisia del potere che piange le stragi da lui stesso compiute. Si dileggiano i nomi della politica del periodo sotto un tappeto di chitarra di sapore rinascimentale. Forse l’unico brano veramente datato perché troppo definito temporalmente, termina però con una coda di voci spettrali, cori di piombo ma languidi come canti di sirena, forse la sirena annichilente del potere. O forse, semplicemente, è la voce degli spiriti. Quelli delle vittime del potere stesso.

Potere che in piazza a Milano, durante i funerali di Fo, c’era tutto. C’era Grillo, ad esempio, che non so con che coraggio abbia affrontato i pugni chiusi alzati in piazza. Lo stesso potere che, dopo Pum pum!, violenterà Franca Rame e perseguiterà la coppia accusandola addirittura di far parte delle Brigate Rosse, lo stesso potere che ha cercato di stordirli con la fama. Insomma, same old story. Nonostante l’età, Pum pum! Chi è? La polizia! resta un monito a tenere alta la guardia e a non farsi usare neanche da morti: se il morto non può replicare, lo farà la sua opera, il suo ricordo. Per finire direi: “A noi del premio Nobel non ce ne frega un cazzo. Scontri, scontri”. 

Alziamo tutti la testa, compagni.

​Foto: Getty ​via Google Immagini.

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