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Negli ultimi anni in Italia si è aperta una nuova corsa al petrolio: 36 compagnie petrolifere provenienti da tutto il mondo sono in attesa del permesso ministeriale per cominciare nuove attività estrattive nel nostro paese, attratte da condizioni economiche che giudicano particolarmente vantaggiose.
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Attualmente, al Ministero per lo Sviluppo Economico sono in fase di approvazione 107 nuove domande per la ricerca di petrolio e gas sul territorio italiano – mari compresi – mentre 12 sono le richieste per ottenere le concessioni di “coltivazione”, cioè l’autorizzazione a iniziare l’estrazione laddove le ricerche di idrocarburi hanno già dato esito positivo.
Una vera e propria corsa all’oro nero italiano, resa possibile anche dalla pianificazione dagli ultimi governi. Il primo passo importante risale al marzo 2013, quando l’allora Ministro allo Sviluppo Economico Corrado Passera teorizzò la necessità di raddoppiare le estrazioni di petrolio e gas in Italia, affinché arrivino a “coprire almeno il 14% del fabbisogno nazionale”.
Poi è arrivato il decreto “Sblocca Italia“, approvato dal governo Renzi nell’estate 2014, che classificò le trivellazioni come “attività di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. Salvo poi fare marcia indietro, modificando il testo per evitare fosse sottoposto a referendum.
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Gli entusiasmi, tuttavia, sembrano in contrasto con la realtà del paese: innanzitutto il petrolio italiano non è semplice da estrarre, visto che “la particolare estensione geografica della penisola italiana vincola lo sviluppo di queste attività in territori e aree spesso morfologicamente complessi e delicati.”
No, l’Italia non è l’Arabia Saudita
Inoltre, il petrolio italiano è ben poco. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig) le riserve certe presenti nel territorio – sia sulla terraferma che in mare – si attestano a 84,8 milioni di tonnellate, equivalenti a poco meno di 606 milioni di barili.
L’offerta italiana è “molto simile ad un gioco d’azzardo.”
Calcolando che, seppur in calo, il consumo di greggio in Italia è attestato a 1,21 milioni di barili al giorno, ne consegue che tutte le risorse italiane basterebbero a coprire il fabbisogno nazionale per appena 500 giorni. Non certo una svolta decisiva, sulla via dell’autosufficienza energetica.
Al ritmo di estrazione attuale, invece, i 40 milioni di barili scarsi che si riescono a estrarre annualmente dal sottosuolo italiano coprono il nostro fabbisogno per non più di un mese all’anno. Fino all’esaurimento delle scorte che, seguendo questi dati di estrazione, potrebbe avvenire per il 2031.
Che cosa motiva la caccia al petrolio italiano, quindi?
Per quale ragione allora così tante compagnie mirano all’Italia, se il nostro petrolio non è tanto ed è pure difficile da estrarre?
La risposta più attendibile è stata pubblicata su un documento ufficiale del Ministero — un opuscolo prodotto dall’Unmig per spiegare la questione energetica ai cittadini, e che ha il merito di delineare la questione in maniera sorprendentemente chiara:
“Quello che si propone è molto simile ad un gioco d’azzardo: la compagnia petrolifera fa ricerche spendendo grossi capitali ma, se trova petrolio o gas, li recupera ampiamente” perché, prosegue il documento, in Italia “le royalties richieste dalla legge non sono molto alte e così vari operatori trovano interessante fare le ricerche in Italia.”
Il documento prosegue, arrivando ad affermare che per queste ragioni e per la realtà morfologica del territorio “l’Italia si può considerare pure una specie di palestra tecnica per la ricerca e lo sfruttamento di giacimenti difficili.”
A quanto pare, dunque, stiamo offrendo alle compagnie petrolifere una palestra a basso costo dove “giocare d’azzardo” e sperimentare nuove tecnologie.
E la ragione è tutta nel favorevole clima, politico e fiscale, che le società internazionali possono trovare nel nostro paese: in primo luogo, a causa delle royalties richieste — particolarmente basse.
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L’Italia è il paradiso fiscale del petrolio?
Le royalties non sono altro che la percentuale sul profitto tratto dal petrolio estratto che le compagnie devono versare allo stato, il quale poi ne dirotta una parte verso le regioni e i comuni interessati da queste attività.
Le royalties italiane si attestano al 7 per cento, per quanto riguarda le estrazioni di petrolio in mare, e del 10 per cento per quelle che si svolgono sulla terraferma.
Il confronto con le tasse di concessione richieste da altri paesi produttori è impietoso: in Russia sono all’80 per cento, in Alaska al 60, in Indonesia al 85, in Danimarca al 70. In paesi più attraenti dal punto di vista fiscale, come il Canada e gli Usa, queste rimangono comunque sensibilmente più alte, rispettivamente al 40 e al 30 per cento.
Per ogni 100 euro di valore commerciale di petrolio estratto, quindi, una compagnia petrolifera in Italia versa sette o dieci euro. O almeno dovrebbe. Perché in gran parte dei casi non deve pagare niente, a causa del complesso sistema di esenzione previsto dalla normativa italiana.
Il sistema garantisce infatti un ricco ‘bonus’ d’accesso: nessuna delle società che ottengono il permesso di estrarre il petrolio italiano, infatti, è tenuta a pagare royalty sui sui primi 300mila barili estratti in mare, e sui primi 125mila barili su terraferma.
Grazie a questo sistema di esenzioni, secondo i dati Unmig, nel 2015 solo 8 delle 52 compagnie attualmente titolari di permessi di ricerca ed estrazione in Italia hanno pagato qualcosa, tutte le altre hanno operato senza versare nemmeno un euro di royalties.
Nell’ultimo anno, l’ammontare delle royalties versate dalle compagnie all’Italia per estrarre 5,7 milioni di tonnellate di petrolio e 7,2 miliardi di metri cubi di gas (dati 2014) è stato di 352 milioni di euro — pari allo 0,022 per cento del prodotto interno lordo nazionale.
Non sorprende quindi ritrovare in rete un’intervista a Dario Sodero, amministratore delegato della Cygam Energy, una delle 44 compagnie che operano in Italia senza versare un solo euro:
“Ci sono ottime ragioni per guardare all’Italia,” spiega Sodero. “Il paese offre infatti uno dei più bassi sistemi di royalties sul petrolio del mondo […] inoltre in Italia troviamo un governo amico delle compagnie, che intende facilitare le esplorazioni.”
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Andrea Legni è un giornalista e documentarista freelance. Sul tema delle trivellazioni ha appena pubblicato il documentario “Quale Petrolio? – Effetti e costi reali delle trivellazioni in Italia”, disponibile a questo link.
Foto in apertura di Glenn Beltz via Flickr in Creative Commons.