Cibo

La moda del poke ha oscurato la vera tradizione hawaiana

Poke

Uno dei trend che più ha spopolato in questi ultimi anni arriva dalle Hawaii ed è il poke, il famoso piatto di pesce crudo a cubetti, leggermente marinato e condito.

“POH-keh,” questa è la sua pronuncia, è un termine hawaiano che significa “tagliare o affettare lateralmente a pezzi.” Può suonarvi chiaramente nuovo se non siete hawaiani, ma per gli abitanti dell’arcipelago si tratta di un significato vecchio di secoli, forse addirittura arrivato insieme ai primi coloni polinesiani delle isole. I primi abitanti delle Hawaii erano dei pescatori e, come tali, spesso pranzavano o cenavano con qualche avanzo del pescato della giornata, che tagliavano a fette, condivano con sale marino essiccato e, a volte, con dell’ogo (un’alga) o dell’inamona (noci delle Molucche tritate).

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Nel corso dei decenni, alla fine, il poke si è evoluto con il melting pot di culture hawaiane. L’influenza della cucina asiatica è stata determinante, con tutta la salsa di soia, l’olio di sesamo e cipollotti che ne sono seguiti, così come variazioni locali che prevedevano peperoncino, uova di pesce, wasabi e cipolle di Maui. Il tonno pinna gialla è, di solito, il pesce designato per questo piatto, ma i poke di oggi comprendono persino salmone crudo, tako (polpo), diversi tipi di medusa e tofu. Gli storici del cibo non sanno ancora dirci se il termine “poke” fosse utilizzato per descrivere il piatto prima dell’arrivo di Capitan Cook alle Hawaii nel 1778, o se addirittura abbia visto la luce solo negli anni Sessanta. Quel che sappiamo, comunque, è che è un pilastro della cucina hawaiana.

Ed è per questo che molti hawaiani sono rimasti alquanto stupiti nell’appurare che una catena di ristoranti di Chicago, la Aloha Poke Co., abbia deciso di registrare con marchio di fabbrica il termine “Aloha Poke.” Da più di un anno, poi, questa catena di ristoranti passa attraverso vie legali per inviare ingiunzioni che facciano desistere chiunque utilizzi nomi simili per i propri servizi di ristorazione.

Una di queste lettere è arrivata anche a Natasha Kahele, una donna di discendenza hawaiana che gestiva un ristorante chiamato Aloha Poke Stop ad Anchorage, Alaska (adesso ha un attimo rivisto le strategie di branding e ha chiamato la sua attività Lei’s Poke Stop). Un’altra lettera è arrivata a Jeff Samson,comproprietario dell’Aloha Poke Shop di Honolulu, alle Hawaii (lui però ha deciso di ignorare il tutto).

“Potete facilmente intuire come il vostro utilizzo di “Aloha” e “Aloha Poke” sia abbastanza confusionario e poco chiaro, tanto quanto lo è il marchio registrato Aloha Poke’s ALOHA POKE®,” diceva la lettera. “Sebbene interferire con le vostre attività non sia di nostro interesse, così come non lo è intralciare i vostri servizi dedicati alla cucina hawaiana, noi di Aloha Poke non possiamo lasciare correre, specialmente tenuto conto del marchio registrato.”

L’idea di porre un marchio di fabbrica sul nome del ristorante non era balenata nella testa di Samson quando aveva deciso di aprire il proprio poke shop nel 2016, che poi coincide con l’anno di apertura dell’Aloha Poke di Chicago. “Come si può pensare di registrare ‘aloha’? o ‘poke’?”, ha chiesto direttamente Samson in una recente intervista al Guardian.

Il punto è che non puoi. “Aloha” è più di una parola, è un concetto hawaiano che esprime amore, pace, compassione e tanto altro. Nonostante il resto del mondo la usi per dire “ciao,” il suo significato è profondo soprattutto per i nativi dell’arcipelago. Lo Spirito Aloha, alla Hawaii, è legge di Stato, con “Aloha” a significare “forza vitale,” “e quindi molto più di un semplice saluto.”

L’Aloha Poke Co. non è hawaiana. E neppure lo è il suo fondatore, Zach Friedlander, ebreo nativo di Chicago. “Per noi è importante celebrare la cultura hawaiana, è principalmente questo il motivo per cui ci chiamiamo così,” ha dichiarato L’Aloha Poke Co. recentemente su Facebook, in quella che potremmo chiamare una “scusa-non-scusa” resasi necessaria dopo le recenti proteste. “Il marchio registrato non impedisce a nessuno di utilizzare la parola “aloha” da sola, e neppure “poke,” spiega il messaggio su Facebook. Eppure, L’Aloha Poke richiede esplicitamente di rimuovere tale accostamento da qualsiasi altra catena di ristorazione o alimentari. Quindi la domanda sorge spontanea: chi sta violando chi e cosa?

La questione principale, qui, non è che Aloha Poke Co. stia utilizzando la parola “Aloha,” che comunque loro relegano al ruolo di “cosa cool,” quanto più che stia impedendo ad altri ristoranti, compresi quelli hawaiani, di usarla assieme a “poke.”

Forse potrà sembrarvi tanto rumore per nulla dato che si tratta solo di due parole. Ma ricordatevi che dopo la resa delle Hawaii agli Stati Uniti nel 1893, nelle isole era diventato vietato parlarlo o insegnarlo nelle scuole, e così è rimasto per novant’anni. Solo nel 1987 le cose erano cambiate grazie anche a programmi scolastici e formativi ad hoc dedicati alla cultura e lingua hawaiana.

Certe parole, specialmente quelle cariche di sfumature locali, vantano significati profondi che vanno ben oltre il mero business. Cercare di zittire le voci delle culture native è un problema grosso. Anche perché rappresentano non solo una cultura di per sé, ma un senso di appartenenza, un itero gruppo di persone. Non credete io abbia ragione? Provate ad andate da una persona nata e cresciuta a Chicago e chiedetele se ci sia davvero differenza fra la pizza di Chicago e quella di New York, e se sia davvero il caso di usare il termine “Chicago-style pizza,” dato che pur sempre di pizza si tratta.

Nel mentre, lasciamo agli hawaiani le parole come le avevano intese: con aloha per tutti.

Quest’articolo è originariamente apparso su Munchies US.

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