‘Più di 50mila euro in una notte’ – Confessioni di un ladro di rame italiano

Testimonianza raccolta da Michele Barbaro. Illustrazione di Giulia Brachi.

Non mi pento di niente, malgrado non possa uscire di casa per 18 mesi. Per anni ho giocato a scacchi con il sistema, cercando di essere sempre una mossa avanti alle Forze dell’Ordine, e ho vinto quasi sempre—quasi.

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Prima che mi arrestassero sono stato uno dei ladri di rame più abili del nord Italia. Sì, rame: perché oggi un furto ben fatto di rame rende decisamente più di una rapina in banca. Ovviamente non ero quello che rubava le grondaie in giardino; quelli sono i morti di fame, gli ultimi della catena. Io mi muovevo solo per quintali, tonnellate di materiale, e niente era lasciato al caso. Come le migliori rapine in banca, ci voleva sempre un buon piano.

Ho cominciato da giovanissimo. Sono figlio di quella provincia un tempo ricca, che aveva fatto la sua fortuna nei cantieri e che alle quattro di mattina aveva strade piene di furgoni pronti a caricare manovali, ma quando stava per arrivare il mio turno di godere della ricchezza prodotta dall’edilizia, è arrivata la crisi. Le strade si sono svuotate e i cantieri sono rimasti deserti.

La maggior parte di noi ha deciso di scendere a patti con il sistema: c’era chi finiva in fabbrica, chi cominciava a fare trasferte di lavoro sempre più lunghe, chi addirittura lavorava senza la certezza di essere pagato. C’era però anche qualcuno che quei nuovi compromessi non intendeva accettarli. Tra questi c’ero io, che riteneva di far parte della gente furba—la gente disposta a tutto pur di continuare a fare i bei soldi che si facevano prima e, cosa fondamentale, che conosceva perfettamente il sistema. Sapevamo dove erano nascosti i tesori, proprio perché un tempo li avevamo nascosti noi.

Tra questi, appunto, c’era il rame. Quintali e quintali di rame da rubare e rivendere. Materiale perfetto, perché di grande valore (circa quattro euro al chilo), in grande quantità (tonnellate e tonnellate), e con grande mercato (un esercito di ricettatori pronti a comprarlo a qualunque ora del giorno e della notte).

Presente quel tipo losco che sta parcheggiato per ore da solo nel mezzo della zona industriale del tuo paese? Probabilmente ero io. Intento a capire come ripulire la fabbrichetta di tuo padre, o di tuo zio.

Funzionava grossomodo così: prima si sceglieva il posto—possibilmente abbandonato, vuoto, sfitto. Poi si studiava per giorni e giorni. Chi lo frequentava, i giri e gli orari della sicurezza privata, allarmi, telecamere e vie di fuga. Infine si agiva, in squadra e principalmente di notte,

Avevo anche cominciato a tenere un quaderno sul quale mi appuntavo le caratteristiche di ogni capannone. Prima che mi arrestassero, di quaderni ne avevo riempiti una decina. La mia provincia si era fatta ormai stretta, e così avevo cominciato a fare “trasferte aziendali” in tutto il Nord Italia.

Con un colpo ben assestato la mia squadra riusciva in una notte a guadagnare più di 50mila euro. Certo, corri dei grossi rischi quando ti ritrovi a venti metri d’altezza, su un’asse di legno di venti centimetri, al buio, senza imbracature di sicurezza a trasportare 50 chili di rame, e il tutto mentre persone armate sorvegliano la zona. Però l’imprudenza e la coca ci facevano dimenticare tutto ciò che non fosse rame—a volte rimettendoci anche la pelle, come è successo a un amico.

Morto fulminato, per colpa di una puttanata che gli avevo messo in testa io. Ne avevamo parlato poco tempo prima: nelle cabine dell’Enel c’erano barre di rame lunghe un metro, e quindi centinaia di euro—forse migliaia—da fare in pochi minuti. Ci voleva la strumentazione giusta, bisognava proteggersi, isolarsi e avere un buon piano, come sempre. Lui ha voluto andarci senza prepararsi, ed è finita che alla barra di rame c’è restato attaccato lui. Il suo socio è finito in prigione. È una morte che mi porto sulla coscienza.

Fortunatamente, non tutti i colpi sono così pericolosi. Anzi, ogni tanto ci capitava di trovare il bengodi, spesso rappresentato dalle ultime vittime della crisi: i centri commerciali—vere e proprie cattedrali rimaste abbandonate.

A questo punto devo fare una parentesi per spiegare una figura fondamentale del nostro lavoro: i curatori fallimentari. Molti dei nostri colpi sono stati organizzati proprio da quelle persone che avrebbero dovuto ostacolarci. La guardia che aiuta il ladro, insomma. Il gioco era questo: quando un’azienda saltava—e la banca pignorava magazzini, locali, capannoni—entravano in azione i curatori fallimentari, che avevano il compito di curare i beni fino all’asta giudiziaria. Tuttavia, spesso erano proprio loro a chiamarci per indicarci quali magazzini assaltare. Magicamente gli allarmi sparivano, le telecamere si spegnevano, e alla fine non dovevamo far altro che dividere i ricavi. Generalmente i curatori erano felici di fare queste start-up con noi ladri.

Ecco, con i centri commerciali le cose erano diverse. Per quelli, i curatori dispiegavano un esercito di guardie private, e quando il centro chiudeva i battenti arrivavano sempre pattuglie e pattuglie di esaltati con la pistola. Il rischio di finire sparato era troppo alto. Se uno però aveva la pazienza di aspettare, sapeva che prima o poi anche le guardie se ne sarebbero andate. Perché dopo alcuni anni e diverse aste andate a vuoto, i curatori smettevano di pagare la sicurezza—o ne pagavano sempre meno—e ci spalancavano le porte.

Il piatto era talmente ricco che mi è capitato diverse volte di lavorare in centro commerciale abbandonato assieme ad altre squadre di ladri, provenienti da altre province. Ci dividevano i settori: “Voi ripulite il settore margherita, noi ci prendiamo quello tulipano.” Ladri che tagliavano, spaccavano, fondevano tutto quello che trovavano. A me, tra le altre cose, è capitato di ricettare anche sei proiettori cinematografici, un bancone del bar e tutti i pisciatoi di una multisala.

Questa è stata la mia vita più o meno per dieci anni. Rischiavo e guadagnavo. Perché lo facevo? Me lo son chiesto spesso, mentre vedevo quelli che una volta erano miei colleghi sul cantiere costruirsi una vita regolare, con mogli e figli e case di proprietà. Al di là della storiella del fuorilegge, la verità è che l’ho fatto sopratutto per la droga e i miei brutti vizi. Ho sempre avuto un tenore di vita alto, cocaina e prostitute. Non volevo rinunciarci. E più vai avanti, più ne vuoi. E più ne vuoi, più soldi facili e veloci devi fare. E più necessiti di soldi veloci, più rame ti serve, più furti da architettare.

Nel corso di uno di questi furti, una sera, mi sono ritrovato con un carabiniere che mi puntava una pistola alla schiena mentre cercavo di portare via 250 chili di rame da una fabbrica. Ho alzato le mani mentre il mio complice scappava via. Per quello scherzo mi sono beccato otto mesi, che adesso sarebbero molti di più, visto che hanno inasprito le pene. Scontati quelli ho fatto altre cazzate che mi hanno riportato al punto di partenza—sempre ai domiciliari. In attesa di poter uscire di casa, ho cominciato a comprare e vendere criptovalute, ma questa è un’altra storia.

Mi capita spesso di pensare a cosa farò quando sarò libero. Probabilmente lascerò l’Italia e andrò in Spagna, o in Portogallo, o in qualche paese dell’Est.

Mi chiedo anche se ne sia valsa la pena. Ora non sono più nessuno. O meglio, sono un ladro. Per il sistema, per i miei amici, i miei parenti; e soprattutto, per ogni persona che vuol avere qualche informazione su di me: un datore di lavoro, un affittuario. Sono un ladro se voglio aprire un mutuo per una casa o una macchina. In sostanza sono un reietto, un poco di buono, uno da evitare.

Certo, mi son goduto la vita. E quello che ho fatto io in dieci anni, la maggior parte di voi non ha nemmeno la fantasia per sognarselo.