Música

L’arte totale di Lafawndah

Lafawndah ha il nome di una principessa guerriera, l’aspetto di una principessa guerriera e il fuoco che anima le sue battaglie sonore è una cavalcata elettronica resa ancora più fluida dalla sua voce. Egitto, Iran, Parigi, Guadalupa e New Jersey sono alcuni dei punti-chiave della mappa che ha tracciato mentre componeva il suo percorso sonoro, e ora eccola arrivare in Italia━reduce da due EP di cui l’ultimo, Tan, è uscito a febbraio per Warp. Il suo lavoro è una ricerca che attraversa territori elettronici, tribali, house, bass, grime e dub in uno spettro sonoro che ha tante diramazioni quante fonti d’ispirazione. Chiaramente un’artista con questo ventaglio di caratteristiche conta anche un’ottima rete di collaborazioni, che vanno da casa Night Slugs (L-Vis 1990 e ADR) a producer come Teengirl Fantasy e Aaron David Ross (Gatekeeper). E chiaramente a una così vorresti fare un milione di domande. Fortunatamente per voi le domande che le ho fatto sono meno di un milione, ma potreste compensare le risposte che vi mancano cercandole a Club To Club, in cui Lafawndah avrà ben due slot: il primo per il live nella Sala Gialla del Lingotto sabato 5 novembre, il secondo domenica 6, per il “Warp To Warp” di San Salvario. 

Noisey: Nel video della title track del tuo ultimo EP, “Tan”, c’è un gioco di dualismi—tu e la ragazza che si esibisce nel set televisivo—ma c’è anche un ragionamento sul dualismo tra ciò che si espone e ciò che si tiene segreto. Qual è la chiave di lettura?
Per come la vedo io, parla di un legame, volevo mostrare la condivisione di uno stesso piano da parte di due individui. Nel video la voce è intercambiabile, io do la voce, lei prende la mia voce. Posso scegliere di esplorare quella realtà, di esserne spettatore o attore, ma vorrò tornare al legame che ho con lei e al linguaggio che abbiamo creato per noi. È un video sull’amicizia. 

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Hai mai sentito pressione per le aspettative legate alla tua esposizione?
No, non sono spaventata, semplicemente penso molto a che tipo di energia e immaginario e storie voglio mettere al mondo. Le aspettative sono una prigione. Vorrei arrivare al punto che nessuno si aspetti nulla da me perché sa che le sue prospettive verrebbero sconvolte. 

Sei figlia di culture mediorientali, ma hai vissuto e studiato a Parigi. Com’era il clima culturale quando stavi lì? 
Non mi sono formata artisticamente a Parigi, non avrebbe funzionato per me, lì. È stato in Messico che ho mosso i primi passi. Poi ho completato il quadro a New York. La mia vita a Parigi era strana, stavo sulle mie, non avevo trovato le mie persone, capisci? Appena ho potuto, sono partita. Lì non mi sentivo parte di qualcosa di culturalmente rilevante, le persone che frequentavo ascoltavano roba folk—era il periodo in cui i Take Away Shows e La Blogotheque andavano forti e non mi identificavo in niente di tutto quello. Ero semplicemente nel posto sbagliato per me. Non tanto forse nella città sbagliata, quanto nella compagnia sbagliata. 

Non pensi che Parigi abbia comunque in qualche modo influenzato il tuo gusto? 
Non è stata Parigi a formare il mio gusto, ma penso che la lingua francese mi abbia influenzato. E la musica che ascoltava mio padre, i cantautori, quell’amore per le parole, quella è stata una grande influenza. E il rap francese, qualche album degli anni Novanta che mi hanno acceso il cervello. Ma questo era quand’ero una ragazzina, quando stavo nei sobborghi coi miei genitori. Me ne sono andata perché volevo sentirmi arricchita dal posto in cui vivevo, incoraggiata, apprezzata. 

Senti che in qualche modo stai cercando di raggiungere o elaborare le tue radici culturali nel tuo lavoro? Il tuo primo EP è stato registrato a Guadalupa, hai utilizzato anche suoni del posto. Com’è stato scrivere un album lì e com’è cambiato il tuo modo di lavorare quando hai scritto il tuo secondo EP, nel New Jersey, in una situazione completamente diversa? 
Per me è interessante che tu mi chieda da dove vengo e come questo si traduca nella mia musica. Penso che ognuno sia condizionato dal proprio luogo d’origine, no? Ma questa è una domanda che raramente viene posta a qualcuno che ha origini occidentali. Ad esempio, tu vieni dall’Italia, in che modo la cultura italiana ti ha influenzata? Essere trattati come “altri” è stancante, devo dire. Per quanto riguarda la mia residenza artistica in New Jersey, credo che ogni pezzo che nasce abbia le sue caratteristiche specifiche, la sua storia, anche perché si cresce ogni istante come persona, e si spera che tu non sia nello stesso posto in cui eri il giorno prima, indipendentemente dal luogo fisico in cui stai scrivendo.

Penso che le produzioni che abbiamo fatto in Guadalupa fossero rivolte al mondo esterno, mentre le tracce che abbiamo prodotto a Fire Island andavano più da dentro a fuori. I colori attorno a noi erano beige e terra, il tempo era variabile, abbastanza freddo. La nostra casa era sulla spiaggia, quindi noi sì, vedevamo la spiaggia, ma ce ne stavamo dentro, al calduccio, con i nostri golfoni, e forse sì, penso che si senta anche questo nella musica. Oltretutto era proprio un posto diverso a livello sonoro, e la gente con cui lavoravo era diversa. Penso anche che sia venuto fuori proprio un diverso lato della mia personalità, è tutta alchimia, no? La tua persona è formata da così tante molecole, alcune delle quali si accendono se stimolate a contatto con determinate altre, alcune invece non reagiranno. Questo processo è interessante quando si tratta di collaborazioni, ma anche in amicizia o amore. 

C’è un modo in cui nascono, solitamente, le tue canzoni?
Prima di tutto vengo come pizzicata da una parola o da un’idea, poi mi devo mettere sotto una coperta e sentirmi come un uovo. Poi mi metto delle scarpe adatte per ballare e trasformo casa mia in un club all’aperto. Ah, e ho bisogno di mangiare frutti di bosco, è molto importante. Arrivati a questo punto, solitamente, il pezzo nasce.

C’è qualcuno con cui ti piacerebbe lavorare?
A.R. Rahman​, Jlin, Sussan Deyhim​ e Willow Smith. Puoi trovarmi un aggancio?

In che modo pensi che la tua identità e coscienza musicale si siano evolute dai tuoi primi lavori ad ora?
Capisco meglio la tensione che si crea tra i gesti diretti e le stratificazioni, credo. Sto imparando a usare la mia voce e, quando canto, mi vergogno di meno. Penso che la parte fondamentale della mia identità sia rimasta la stessa, ho solo più strumenti e più confidenza per farla venire al mondo in un modo più ambizioso e più chiaro.

Hai anche fatto una cover degli Ace of Base. Come mai? Che rapporto hai con la musica degli Ottanta e dei Novanta?
Bé, quando ero piccola la musica che ascoltavo mi ha aiutata a sentirmi qualcosa di più di una ragazzina. Le popstar di quell’epoca ebbero un grande impatto su di me, e mi hanno aiutata a proiettarmi come una figura forte e indipendente━il che è importantisssssimo quando sei piccola. Volevo anche onorare quel sentimento di confusione che senti, da piccola, quando non hai idea di quello che un pezzo significhi. O forse credi di saperlo, ma nel profondo sai che non è vero. Tutti hanno provato qualcosa di simile ascoltando “All That She Wants” da piccoli. Pensavamo tutti che la tipa volesse restare incinta. Ed è veramente figo sentirsi, tipo, dopo tutti questi anni come se i sentimenti che avevi buttato in quel pezzo non avessero proprio centrato il bersaglio. Infine, quel pezzo mi piace perché è scritto da gente che non ha l’inglese come prima lingua ed è da lì che viene questa confusione, credo. Perché è tutto leggermente fuori posto. Ed è una qualità in cui mi identifico quando scrivo le mie cose. È inglese, ma quasi.

Perché “Tan”? E perché hai deciso di metterti a fare la mangiatrice di coltelli sulla copertina dell’EP?
Bé, “Tan” è il nome di un pezzo dell’EP. Il suo messaggio è, “Non cercare di sembrare più figa di un’altra ragazza, in un contesto asociale che crea competizione e sospetto tra le donne.” L’immagine con cui trasmesso questo concetto nel testo sono due ragazze in spiaggia a prendere il sole, e una fa: “Il sole è tutto tuo, non sto provando a fotterti l’abbronzatura, fai pure.” Alla fine ho scelto di usarlo come titolo per l’EP perché in francese usiamo “bronzé” come termine derogativo per chi ha una carnagione marrone. Ma l’abbronzatura viene anche glorificata: significa, “posso permettermi una vacanza, sono rilassato, me la prendo comoda.” “Sono al di sopra della vita vera,” in un certo senso, e adoro questa tensione.

Voglio dire, c’è gente che paga per abbronzarsi! Duke Ellington dedicò il suo “Jump for Joy” al “Decimo abbronzato della nazione” [Un riferimento a “One-Third of a Nation“, “Un terzo di una nazione”, una produzione teatrale con intenti documentaristici con la povertà in America come argomento, ndt]. Mi piace un botto riappropriarmi dei termini derogativi. E ora, almeno per me, è arrivato il momento di farlo. L’immagine della mangiatrice di coltelli rappresenta quello che sento nel modo in cui dono la mia voce: avere voce, prendere voce, ingoiare voce, uccidere voce, stappare voce. Letteralmente, ma anche no.

Hai passato poco tempo in studio a registrare, a quanto hai dichiarato in passato, ma devi avere passato ore, giorni e mesi a pensare ai modi in cui Lafawndah avrebbe potuto evolversi, a come sarebbe potuta apparire e così via. Che rapporto hai con la tua figura pubblica, con il fatto che sia in mano a ogni persona che ti ascolta o ti guarda?
Non direi che passo poco tempo in studio, no. Sto solo provando a trovare un equilibro tra i momenti in cui la vita si ferma e quelli in cui prende il controllo, credo. Per me il tempo che passo in studio, quando mi rinchiudo, è temo passato a digestire la vita per metterla su disco. Poi devo riuscire e rimettermi a vivere. Poi chiaramente ci sono momenti in cui questa distinzione non regge, tutto si sovrappone e si mescola. 
Per quanto riguarda la mia figura pubblica: penso di funzionare al contrario. Ci penso molto, e poi cerco di riportare tutto alla sua origine. Penso che questo progetto sia un contenitore per tutto quello che voglio dire, tutte le conversazioni che voglio avere, tutte le piattaforme e i ponti che mi interessano come persona. Quindi non penso molto al modo in cui posso essere me stessa, ecco. Faccio solo quello che mi sembra giusto fare. Penso molto a questioni etiche, sì, ma non al contenuto stesso. Credo anche che parte di questo stia nel fatto che non percepisco ancora il fatto di avere una figura pubblica come qualcosa di tangibile. È tutto piuttosto astratto, e non so veramente quali siano le implicazioni di questo processo nel mio caso. Ho appena preso il mio primo telefono, sono ancora una ragazza analogica a cui piace avere rapporti uno ad uno. Mi aiuta a non pensar troppo, anche se non sono sicura se sia una cosa positiva o negativa.

Che rapporto hai con Kelela, che a quanto ho capito è tua amica? 
Kelela è una cara amica. Mi sento vicina a lei in qualsiasi cosa, se devo essere sincera. Vogliamo entrambe vivere delle vite molto simili e ci troviamo a reagire a molte cose allo stesso modo. È una delle persone con cui mi piace più parlare perché articola molto quello che vive e prova. C’è un legame molto forte tra di noi.

Negli ultimi anni ci sono un sacco di splendide ragazze forti il cui lavoro sta ridefinendo alcuni tratti dell’underground—Kelela, appunto, ma anche produttori come Elysia Crampton, giovani DJ come Mobilegirl, Toxe, Kablam, Perera Elsewhere, Ziúr, Born in Flames. Pensi che il tuo approccio alla musica sia in qualche modo collegato a una nuova coscienza, espressa in forma musicale, di quello che la femminilità dovrebbe essere? Pensi che stia avvenendo un cambiamento di prospettiva che ci sta portando a punti di vista più complessi? E forse è per questo che le voci femminili si stanno sentendo sempre di più?
Certo, stiamo vivendo un grande momento. Ora come ora adoro Bonnie Banane, Nidia Minaj, Holly Herndon, Kelela, Laurel Halo, Jlin, Christine and the Queens, Kelsey Lu, Solange, Klein, Jungle Pussy, Princess Nokia, Maluca, Willow Smith. E mi sento vicina a tutte loro, anche se la musica che facciamo è molto diversa. Ma credo che ad unirci siano il modo in cui cerchiamo di vivere le nostre carriere, quello in cui usiamo le nostre piattaforme, l’indipendenza attraverso cui la nostra musica si esprime, il fatto che parliamo chiaramente di quello che ci importa. Sono tutte artiste che fanno delle proposte reali senza seguire una strada già battuta. E le loro proposte sono stratificate, chiare ma complesse. Non so che cosa stia succedendo, forse è solo arrivato il momento di farsi sentire bene e chiaramente, di restare coi piedi puntati per terra. Ma è un GRANDE MOMENTO IN CUI VIVERE.

Qualche tempo fa hai scritto su Twitter, “Vorrei davvero vedere più ombelichi.” L’ombelico è stato un simbolo di liberazione femminile da queste parti, negli anni Sessanta. Perché pensi che molti artisti queer, e donne, insistono nel mostrare nuove forme di coscienza del corpo?
Perché, onestamente, non credo sia cambiato molto nel modo in cui i nostri corpi vengono ricevuti e gli vengono fatte richieste. Credo che gli artisti continueranno a insistere nel mostrare e condividere prospettive ed esperienze diverse finché non sentiranno più il bisogno di farlo. Finché non riusciremo a far capire la nostra opinione a tal punto da non tornare più indietro, a uno stato in cui siamo rimasti per davvero troppo tempo.

Staccandoci un attimo dalla musica: che rapporto hai con le altre forme d’arte?
Penso siano tutte intrecciate nella mia musica. Lafawndah è il contenitore e tutto lo riempie orizzontalmente, senza gerarchie. Architettura, danza, film, letteratura, fotografia, arte contemporanea: tutto fa parte della visione collettiva. Al momento sto facendo musica perché mi sembra il contenitore migliore, ma farò film e scriverò copioni, e penso a tutte queste cose allo stesso modo.

I tuoi pezzi sono collegati a una forte idea di rinascita, o almeno è quello che provo. A volte mi sembrano una marcia militare. Persino il tuo nome mi sembra un nome da battaglia. Che cosa ti porta sul campo di battaglia, a dedicarti a una causa? E quale guerra stiamo davvero combattendo?
Penso che quest’aura guerriera sia un retaggio della famiglia. La mia famiglia è matriarcale, le nostre donne non scherzano. Sono forti e attraversano la vita come frecce. Non che avessi molta scelta, sono nata così e non ho mai conosciuto un altro modo di vivere. Ci sono un sacco di cose che mi portano sul campo di battaglia. Chi cazzo può restare tranquillo, ora come ora? Non è proprio una scelta, mi sembra. Che altro potrei fare? Non mi sento in pace, in alcun modo, e non ho motivo per farlo. Per me è importante fare musica che sembri un grido di guerra perché ho bisogno di radunare tutte le persone che non stanno vivendo questi tempi in maniera soporifera. Musica che crei alleanze. Comunque non penso alla mia musica come un dipinto monocromo, ho anche canzoni più leggere, divertenti e vulnerabili: non vorrei essere appiattita nella definizione di “guerriera.”

Se avessi tipo un milione di dollari per organizzare un solo tuo concerto, cosa faresti? 
Ok, allora: lavorerei a una nuova serie di canzoni con A.R. Rahman e Jlin in uno studio a Bombay. Avrei un coro di donne bulgare e un complesso di percussionisti iraniani e indiani a suonare tamburi a mani nude. Vorrei Sima Bina come ospite speciale. E il concerto sarebbe su una piattaforma sospesa sopra “Desert Breath“, quell’opera di land art di Danae Stratou nel deserto egiziano. Vorrei i ragazzi del TAO Dance Theater come ballerini. Modificherei tutti i coni delle casse con dei Funktion-One, così da avere un suono cristallino e preciso indipendentemente dalla posizione del pubblico. Pagherei un biglietto d’aereo a tutti i presenti, e li farei venire da tutto il mondo. Comprerei un sacco di funghetti e li metterei, a mini-dosi, nei drink color tramonto che servirei a tutti. Tutti avrebbero gli stessi drink allo stesso momento, così tutti potremmo provare le stesse cose. Il mio costume sarebbe di Ma Ke. Robert Wilson farebbe il mio set design. Penso sia tutto.

Che cosa vorresti provasse la gente che viene ai tuoi concerti?
Vorrei si sentisse più forte. Vorrei andasse a casa pensando che qualsiasi cosa vogliano fare sia possibile, e che questo sia il momento giusto per farla. Vorrei non si sentissero soli.

Nell’introduzione di “Town Crier”​ c’è un’intervista che hai fatto tu stessa a Lawrence Lessig​. È un modo interessante per collegare il tuo messaggio, la tua musica, a un certo ideale e a un certo modelloanche se in una domanda gli dici che la nostra generazione sente di “non avere possibilità di agire.” Credi che ci sia ancora la possibilità che qualcuno o qualcosa ci rappresenti politicamente? A quale idea di politica vorresti sentirti collegata?
Penso che il futuro possa stare in un’idea diversa di politica. Non saprei dirti di questioni di rappresentazione, penso che il punto stia nella creazione di nuove dinamiche. Forse nel ripensare il sistema. Se i cambiamenti non arrivano dall’alto forse possono arrivare dalla comunità, da un luogo in cui le persone hanno un’esperienza tangibile della loro realtà. Credo che nelle menti della gente stia avvenendo un cambiamento che porterà a una nuova possibilità di agire immediata, con determinati strumenti e azioni.

Non sto provando a trasmettere un’idea politica con la mia musica. Voglio coinvolgere chi mi ascolta a livello sonoro, visuale, ideologico e sensoriale. Spesso mi chiedono di politica, ma sono domande che non mi fanno sentire a mio agio dato che vengono da una posizione privilegiata. Inoltre, non tengono conto della storia sociale della musica. L’idea di musica apolitica è solo un piccolo, minuscolo puntino all’interno del ruolo che la musica ha avuto a livello storico-mondiale. È sempre stata al fronte del cambiamento ed è sempre stata impegnata in una conversazione diretta con la situazione politica in cui è nata. Sono una donna di colore che vive in questo mondo, niente di quello che faccio è apolitico solo perché non sono la norma dominante.

Inoltre, penso che quando si parli di musica e politica assieme spesso si parta da un’idea unidimensionale del modo in cui l’idea politica di un artista si esprime. Ci si immagina qualcosa di vocale, cartelli e pugni al cielo. Ma l’idea politica di una persona potrebbe benissimo “accadere” dietro le quinte, in silenzio, e trasparire dal modo in cui questa persona opera, dalle persone con cui sceglie di lavorare e da quelle che decide di supportare, da quelle con cui decide di condividere la propria piattaforma, dalle alleanze che fa. Tutto questo è tanto politico quanto gli espliciti riferimenti alla politica. È tutto trito e ritrito. Non parliamone, è solo ora di agire. Niente di più e niente di meno.

Credi che l’arte, e la musica in particolare, anche nel suo apparentemente stupido aspetto di motore di aggregazione sociale, abbia ancora il potere di parlare politicamente? O ormai è solo puro intrattenimento?
Non credo che esista un antinomia tra intrattenimento e politica. Credo che siano utili l’uno all’altra, e potrebbero essere il Cavallo di Troia l’uno dell’altra. Credo che la musica abbia più potere che mai perché i mediatori stanno venendo tagliati fuori dal sistema. Le vie di comunicazione sono diventate così dirette che ora esiste una linea diretta tra chi crea e chi consuma musica, ed è una cosa veramente potente. Sono gli artisti a decidere.

Che stai facendo in questi giorni?
Sto lavorando al mio album e sono innamorata.

A novembre verrai a suonare a Club to Club, in Italia: a quali concerti andresti se fossi solo lì per ascoltare un po’ di musica?
Elysia Crampton, Arca, Gqom Oh, Ghali e Total Freedom.

Grazie, ci vediamo a Torino!

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