Se iniziassi questo articolo dicendovi che Lee Bannon non fa musica facile, dovrei spiegare cosa intendo per “musica facile”. Quindi provo a chiarirlo da subito: intendo con “musica facile” quella musica immediata, che ti tiri giù come una Coca Cola in un caldo pomeriggio estivo, la musica facile è quella che passa in radio. Lee Bannon non fa musica facile, e quindi? Cosa fa? Be’, direi che nemmeno trovare una definizione per lui è così facile.
L’ultimo album di Lee Bannon, fuori per Ninja Tune, è lontanissimo dal concetto di “easy listening”, senza per forza essere quel particolare tipo di album che va a finire nella rubrica Outer Reaches di Wire, anche perché sputa sopra ogni immaginario riguardante field recording e un certo tipo di industrial. Pattern of Excel è un album che richiede attenzione, dedizione, ed è un ascolto che, una volta incamerato, diventa sanguigno e brillante. È un disco drone, un disco ambient, un disco pop hypnagogico. È un disco avanguardistico, che ti spiazza, ti disturba e sicuramente non mette nemmeno l’ascoltatore in una posizione facile.
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Un mio collega ha descritto ciò che fa Bannon come “musica seria per gente seria.” Lo faccio notare a Bannon, quando lo chiamo per intervistarlo. “Be’, se la pensa così, forse dovrei iniziare a pensarla in questo modo anche io,” mi dice. “È vero che prendo le cose parecchio sul serio. Quando produco non tiro mai via le cose, anche se tento di non prendermi troppo sul serio. Altrimenti diventerei quel tipo di persona. Sai, quel tipo di persona che in America chiamiamo asshole.”
Tutte le foto sono di Jacob Wayler
Ok, lui stesso tenta di prendersi poco sul serio, ma il lavoro del producer newyorchese invece va preso seriamente. Nella sua carriera, Bannon ha dato prova di poter saltare di progetto in progetto, di produrre beat tape e lavorare con la Pro Era di Joey Bada$$ nello stesso momento in cui stava scavando a fondo nel suo mondo di esperimenti sonori violentemente minuziosi. È sbagliato pensare che questi due diversi approcci alla produzione non si incontrino da nessuna parte, e che questo producer difficile sia emerso, a un certo punto, dal nulla. Bannon mi conferma che ci sono parecchie idee sbagliate che circolano su di lui. “Faccio musica dal 2011. Le tracce hip hop le ho prodotte praticamente appena sono uscito da scuola, e sono diventate le mie produzioni più famose, anzi, forse l’unica cosa mia che si conoscesse.” Nel frattempo Lee stava già facendo tutt’altro. “Quindi se qualcuno pensa che io sia passato d’un tratto a fare questo tipo di musica, si sbaglia di grosso,” mi racconta.
Il successo di Lee Bannon, o meglio, il disco che ha segnato la sua trasformazione da producer della crew Pro Era a musicista più oscuro, sperimentale, e, in un certo senso, libero, è stato Alternate/Endings, uscito, sempre per Ninja Tune, nel gennaio dello scorso anno. “Dopo Alternate/Endings, credo di aver confuso ancora di più le idee. Non mi sento di dovermi giustificare col mio pubblico, però,” mi dice. “Non voglio avere per forza l’attenzione addosso. Cioè, mi rendo conto che quest’album [Pattern of Excel] è per la nicchia. La gente vuole Jamie XX e invece io tiro fuori un disco drone.”
A questo punto torno a punzecchiarlo sulla questione della “serietà”. “A me viene da pernsare a Bob Dylan quando mi parlano di musica seria, qualcuno del genere, a un’istituzione,” mi dice. Gli spiego che per me la musica seria è quella di cui parla The Wire. Questa è musica seria. Stockhausen. Oliveros. Xenakis. Quella roba lì. “Ah, giusto. Sì, io penso di essere serio alla maniera di Xenakis. Lavoro con synth modulari enormi, mi compro un sacco di strumenti spaventosi.”
Pattern of Excel si rivela all’ascoltatore dopo un po’ di ascolti. Non è immediato, non è fast food. Richiede pazienza, devozione. E a un certo punto arriva, qualcosa è scattato nella tua testa, e quella musica inizia a girarci dentro, a notte fonda. “Ho davvero tentato di inglobare in questo lavoro elementi di cose che mi appassionano al momento, che ritengo importanti, rilevanti, ma nemmeno volevo ci fosse troppo ego in questo lavoro,” mi dice. Le influenze che Bannon ha trascinato in Pattern of Excel—KLF, the Orb, Talk Talk, Ride, GAS—”erano avviate nel mio sistema, e sono naturalmente state veicolate in quest’album. Le mie produzioni sono totalmente vincolate a come mi sento in un determinato periodo, a sensazioni precise.”
La sensazione che esce da tracce come “Suffer Gene” o “DAW in the Sky for Pigs” è quella di isolamento, solitudine. Ho chiesto direttamente a Lee se ci avessi azzeccato. “Ma certo,” mi ha detto. “Devi ascoltarlo piano, da solo, trovare la tua connessione personale con questo disco. Quando lo riascolto di giorno riesco a trovarlo persino estivo. E invece di notte sembra quasi una colonna sonora.” Ho abbastanza paura di pensare a quali immagini assocerei a questa colonna sonora, o forse sono terribilmente curioso di saperlo.
Il discorso verte, come spesso accade, sui giorni nostri. Quando nomino Dan Lopatin, AKA Oneohtrix Point Never, Bannon non è totalmente d’accordo, “forse usiamo gli stessi strumenti, abbiamo sonorità molto simili, un po’ come Aphex Twin e Venetian Snares, entrambi usavano Renoise,” mi dice. Alcuni hardware o software suonano in modo ben riconoscibile. Gli nomino l’amore, mai nascosto, di Lopatin per il Juno-60. “È buffo che me lo nomini,” mi dice. “Io ho un INTEGRA-7, che è come avere tutti i suoni del Roland in una scatola, quindi chiaro che uso anche quelli del Juno. Quando ho avuto abbastanza soldi per potermelo comprare, è cambiato il mio approccio, e così l’album.” Soldi ben spesi, senza dubbio. “Un po’ di tempo fa ci tenevo parecchio alla mia strumentazione. Adesso sono meno analogico, mi piacciono i software. Devo spegnere il computer per smettere di far musica, altrimenti potrei andare avanti per mesi. Ma a un certo punto è stato troppo anche per me. Mi sono reso conto di aver prodotto quattro album e di non averne buttato fuori nemmeno uno. Avevo troppa roba!”
Con il contenuto arriva anche il contenitore. Provo a menzionargli la nozione di “genere”, consapevole che la maggior parte delle cose che sono state scritte su Lee Bannon si concentrano sulla sua abilità di passare da un hip-hop morbido alle durezze drone e noise da MaxMSP. Come si trova con il concetto di genere? È ancora rilevante in una realtà fluida e ipersviluppata come quella di oggi? “Be’, a me aiuta,” mi dice. “Se sono in viaggio e voglio, tipo, ascoltarmi del blues, me lo trovo facilmente. Se non ci fossero definizioni, al posto del blues potrei trovarmi dell’hip hop e mi scoglionerei. Ma c’è anche un lato negativo, cioè, possono diventare una maledizione. Non scappi più dalle etichette.”
Un’altra cosa da cui non si scappa, che definisce noi e la nostra relazione con il mondo, è il linguaggio. Da sempre mi intriga la relazione di Lee Bannon con il linguaggio. I suoi titoli—”Bent/Sequence”, “Lord Gnarlon” “Paofex”—sono strategie oblique che non si prestano a letture convenzionali. Mi sono chiesto se i titoli presenti in Pattern of Excel fossero contorti volontariamente. “Quando ci stavo lavorando li avevo salvati come ‘patterns 1, 2, 3’, ma poi volevo dar loro una linea precisa. Era importante trovare le parole giuste,” mi dice. “Il titolo dell’album è un riferimento a ciò che devi fare nella vita per eccellere, che si tratti di rubare o di mollare la scuola per andare a lavorare.”
Gli chiedo quale sia il suo titolo preferito. Mi risponde immediatamente. “Music Has the Right to Children.” Come mai? “È un titolo fighissimo. È un’affermazione, e descrive bene anche il contenuto dell’album.” Tu sei d’accordo? “Penso… Sì, dai, la musica ce l’ha, quel diritto!”
Pattern of Excel è uscito per Ninja Tune.