Aggiornamento del 24/05/2021: Rispetto alla pubblicazione originaria di questo articolo, i decreti sicurezza sono stati definitivamente riformati nel dicembre del 2020. Tra le modiche approvate dal Parlamento c’è la reintroduzione della protezione umanitaria (ora chiamata “protezione speciale”) per i richiedenti asilo, e la riduzione delle multe per le Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo Centrale.
È molto consolante pensare che il razzismo sia un retaggio del passato, e che oggi sopravviva unicamente in sacche “ignoranti” della società, nelle “mele marce” dentro le forze dell’ordine, o in pochi paesi. Peccato che la realtà, come hanno dimostrato le proteste globali scaturite all’omicidio di George Floyd, sia diversa. Il razzismo continua ad esistere anche in quei paesi, Italia inclusa, che rifiutano pervicacemente di fare i conti con l’esistenza di un fenomeno strutturale e diffuso a tutti i livelli—a partire da quello più alto.
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Come avvertiva già diversi anni fa il professore Pietro Basso, “il primo propellente del revival del razzismo in corso è il razzismo istituzionale, e i suoi primi protagonisti sono proprio gli Stati, i governi i parlamenti: con le loro legislazioni speciali e i loro discorsi pubblici contro gli immigrati, le loro prassi amministrative arbitrarie, […] le ossessive operazioni di polizia e i campi di internamento.”
Pensiamo solo all’Italia, dove da trent’anni si sfornano a getto continue norme discriminatorie—non solo da parte di chi parla di “sostituzioni etniche,” ma anche dai loro presunti avversari politici—e si normalizzano linguaggi disumanizzanti che finiscono col fornire giustificazioni a pogrom e attentati.
In un momento del genere, chi ha responsabilità politiche non può trincerarsi certo dietro vaghe formule di sostegno a Black Lives Matter (nell’illusoria convinzione che negli Stati Uniti siano messi peggio di noi), oppure limitarsi a un paio di inchini in Parlamento. Deve agire sul piano che gli compete e che produce effetti sulla vita delle persone: quello legislativo.
In Italia ci sono varie cose che si potrebbe fare, a partire dai punti più importanti e urgenti raccolti qui sotto.
ABOLIRE I DECRETI SICUREZZA
Secondo il principale promotore, Matteo Salvini, i due decreti sicurezza approvati dal precedente governo gialloverde hanno rappresentato una svolta nella politica migratoria dell’Italia. Il paese è diventato più sicuro, ci sono meno sbarchi, e finalmente “è finita la pacchia” per i migranti e i loro “complici.”
A un anno di distanza, però, è l’esatto contrario: le norme si sono rivelate un sonoro fallimento e hanno soltanto prodotto effetti nefasti.
Come ampiamente previsto da esperti e associazioni, l’abolizione della protezione umanitaria ha fatto piombare ben 100mila persone in una condizione di irregolarità; e il parziale smantellamento del sistema d’accoglienza (che comunque aveva grossi problemi) ha favorito quello che la destra ha sempre bollato come “il business dell’accoglienza,” ossia l’accentramento dei grandi centri nella mani di pochi enti gestori.
In più, le enormi multe previste nel secondo decreto—unita alla costante campagna di criminalizzazione—hanno scoraggiato molte Ong a effettuare missioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale. Le conseguenze più vistose sono che ora abbiamo pochissime informazioni su cosa succede in quel tratto, e che la rotta è diventata ancora più mortale.
L’attuale esecutivo ha annunciato l’intenzione di modificarli, e qualche giorno fa il presidente del consiglio Giuseppe Conte—lo stesso che li aveva promossi entusiasta, per non dimenticare—ha ribadito tale volontà. Nonostante ciò i decreti rimangono saldamente in vigore, e le modifiche proposte dalla ministra dell’interno Luciana Lamorgese non sono affatto radicali.
La ritrosia nel cancellarli fa emergere un altro fatto, da tempo denunciato da varie Ong: in tema d’immigrazione, tra questo governo e il precedente non c’è mai stata una vera discontinuità. “La comunicazione è stata modificata, non c’è più quella barbarie del recente passato,” ha detto Alessandro Metz di Mediterranea. “Ma continua il finanziamento alla guardia costiera libica e dunque ai centri di detenzione.” E qui passiamo al secondo punto.
CANCELLARE GLI ACCORDI CON LA LIBIA
Nel 2017 il governo di centrosinistra, guidato da Paolo Gentiloni, aveva stretto un accordo con Fayez al-Sarraj, il suo omologo di uno dei governi libici, per “governare i flussi migratori”—ossia per ridurre drasticamente l’arrivo in Italia dei migranti via mare in cambio di finanziamenti e attrezzature.
Di fatto, questo ha significato soprattutto una cosa: pagare le milizie armate che alimentano la guerra civile e (come nel famigerato caso di “Bija”) si travestono da ufficiali della “guardia costiera libica,” agendo al contempo da trafficanti di esseri umani. Negli anni, infatti, sono uscite numerose denunce di abusi, violenze e torture nei cosiddetti centri di detenzione governativa per i migranti, descritti come veri e propri lager.
Il memorandum d’intesa si è rinnovato automaticamente all’inizio di febbraio del 2020, e anche in questo caso l’attuale esecutivo vorrebbe modificarlo. Ancora non l’ha fatto, però, e dunque l’accordo è sempre in piedi. Questo significa solo una cosa: pur di diminuire gli sbarchi, l’Italia continua a foraggiare gravissime violazioni dei diritti umani—compresi i respingimenti illegali verso la Libia.
REGOLARIZZARE (PER DAVVERO) I LAVORATORI MIGRANTI
Al culmine della prima ondata di coronavirus, il 13 maggio il governo ha approvato il cosiddetto “decreto rilancio” che, tra le varie cose, contiene una misura per regolarizzare una parte dei migranti “irregolari” (secondo le stime, in tutto sarebbero 600mila) che vivono in Italia.
Nel presentarlo, la Ministra dell’Agricoltura si era commossa dicendo che “da oggi gli invisibili saranno meno invisibili.” La procedura, frutto di un lungo negoziato tra i partiti di maggioranza, è però riservata solo ad alcune categorie lavorative e si articola in due canali: da un lato i datori di lavoro possono chiedere di regolarizzare un migrante che intendono assumere, e dall’altro i migranti possono chiedere (pagando) un permesso temporaneo di sei mesi.
A un mese di distanza, tuttavia, le domande di regolarizzazione sono state poche: appena 13mila, molto al di sotto delle aspettative. Vuoi perché i settori coinvolti sono troppo pochi, vuoi perché fornisce troppa discrezionalità ai datori di lavoro—compresi quelli che sfruttano i lavoratori.
Già subito dopo l’approvazione, diverse associazioni avevano parlato di un “primo passo” non del tutto sufficiente. La campagna Ero straniero, ad esempio, ha sottolineato che “per una reale efficacia dell’intervento sarebbe stato necessario un allargamento della platea dei beneficiari.” Il sindacalista dell’Usb Aboubakar Soumahoro, che lo scorso 21 maggio ha organizzato uno sciopero nei campi, ha parlato di “regolarizzazione delle braccia e non della salute delle persone.”
In altre parole, serviva più coraggio. La campagna “Siamo qui – sanatoria subito!” chiede infatti il rilascio di un permesso di soggiorno di “almeno un anno, rinnovabile e convertibile in altro titolo di soggiorno, che veda come unico requisito la presenza in Italia.”
SBARAZZARSI PER SEMPRE DELLA BOSSI-FINI
A detta di molti esperti, c’è un motivo ben preciso per cui le politiche migratorie dell’Italia non funzionano: la legge Bossi-Fini. Approvata nel lontano 2002, è una delle norme più stringenti d’Europa in materia e di fatto sbarra ogni via legale d’accesso per stabilirsi nel paese.
La misura più rilevante è la limitazione dell’ingresso soltanto a chi è già in possesso di un contratto di lavoro. Ma l’idea che si possano incrociare domanda e offerta di lavoro a distanza è totalmente assurda. E infatti, la Bossi-Fini è un dispositivo che produce irregolarità a tutto spiano, che in passato è stata tamponata attraverso maxi-sanatorie.
Di riformare (o abolire) la legge se ne parla praticamente da sempre. E nonostante il centrosinistra abbia governato per quasi nove anni da allora, non l’ha mai toccata. È arrivato il momento di farlo una volta per tutte.
CHIUDERE I CENTRI DI DETENZIONE PER I MIGRANTI
Istituiti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano, licenziata da un governo di centrosinistra, i centri di “detenzione amministrativa” per il rimpatrio di migranti (che non hanno commesso reati) sono senza alcun dubbio un obbrobrio giuridico, nonché una delle pagine peggiori della gestione italiana dell’immigrazione.
Da allora hanno cambiato diversi nomi (Cpt, Cie e ora Cpr, centri per il rimpatrio), ma le condizioni sono rimaste le stesse: pestaggi, abusi, violazioni di ogni tipo, condizioni igienico-sanitarie disastrose, morti, e così via. Come ricorda l’avvocato Gianluca Vitale, “è il sistema Cpr in sé a non garantire il rispetto dei diritti fondamentali, della dignità, dei ‘trattenuti’.” E non è affatto un caso che lì dentro scoppino sistematicamente delle rivolte.
Come se non bastasse, la gestione dei Cpr è affidata a privati che spesso e volentieri sono al centro di inchieste. Si tratta di un sistema che, pur non funzionando affatto, costa svariati milioni di euro all’anno—soldi che potrebbero essere destinati altrove. Esistono varie campagne per la loro abolizione, la più recente delle quali è “Mai più lager – No ai Cpr.”
APPROVARE UNA VOLTA PER TUTTE LA NUOVA LEGGE SULLA CITTADINANZA
L’Italia ha una legge sulla cittadinanza che si basa sullo ius sanguinis, ovvero sulla discendenza. È stata pensata principalmente per gli italiani all’estero, ma quella legge del 1992 è decisamente datata visto che situazione è cambiata del tutto.
Da diversi anni si parla dunque di modificarla per dare un riconoscimento giuridico (e non solo) a tutti quegli italiani che sono nati da genitori stranieri, sono cresciuti qui e qui hanno fatto le scuole, ma possono richiedere la cittadinanza solo dopo i 18 anni e per una finestra limitata.
La scorsa legislatura si è parlato di introdurre il cosiddetto ius soli temperato o ius culturae, per sanare questa ingiustizia. Tra un tentennamento e gli strepiti della destra, come noto, alla fine non se ne è più fatto nulla. Attualmente in Parlamento languono almeno tre proposte di legge, ma nessuno sembra avere il coraggio—o la volontà—di portarne a termine almeno una.