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I miei coinquilini di Londra mi hanno dovuto lasciare fuori casa per il coronavirus

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Venerdì scorso su VICE abbiamo raccolto le testimonianze di studenti italiani all’estero che, dopo essere rientrati dal nord Italia, hanno ricevuto dalla propria università la richiesta di mettersi in quarantena per il rischio di contagi. Da allora ci hanno scritto molti altri studenti nella stessa situazione—anche da Danimarca, Spagna e Olanda, nella maggior parte dei casi come conseguenza di disposizioni che variavano anche da università a università all’interno dello stesso paese. Altri ancora ci hanno detto di non aver avuto problemi. Quella che pubblichiamo oggi è una testimonianza raccolta dai colleghi di VICE UK, e non riguarda uno studente ma un lavoratore.

Vivo a Londra, ma poco più di dieci giorni fa sono tornato in Italia per rivedere la mia famiglia. Al momento della mia partenza dal Regno Unito i casi di coronavirus erano ancora limitati ai turisti tornati dalla Cina, e non c’erano zone rosse in Lombardia e Veneto.

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I miei abitano a Monza. Nel corso della settimana a casa sono stato sul lago di Como, ho mangiato un sacco, ho fatto una passeggiata in montagna e sono riuscito a infilarci pure una gita al mare. Non sono mai passato dalle città che ora sono in quarantena, né ho mai preso treni o mezzi pubblici.

Alla notizia dei primi contagi in Lombardia ho capito subito che si trattava di una cosa seria perché TV, radio e giornali hanno iniziato a parlarne senza sosta. Improvvisamente ero catapultato in un clima di panico in cui la gente faceva scorta di cibo e acqua come se fosse arrivata l’apocalisse.

Nella mia famiglia c’era un po’ di preoccupazione, ma niente di eccessivo. [Mentre tutti facevano incetta di prodotti nei supermercati] noi avevamo già del gel disinfettante, e mia madre ha preso qualche mascherina dal suo posto di lavoro. Tutto sotto controllo, insomma. Anche perché al mio atterraggio in Italia ci avevano misurato la febbre ancora prima di controllarmi i documenti.

Il giorno del volo di ritorno per Londra è stato lo stesso in cui il Nord Italia ha iniziato a essere considerato “zona a rischio,” così ho mandato un messaggio ai miei due coinquilini per informarli che stavo tornando e che non ero stato in nessuna delle città più interessate. Non ero entrato in contatto con il virus e andava tutto bene.

La risposta è arrivata appena prima che mettessi il telefono in modalità aereo. Mi hanno detto che avrebbero informato i loro datori di lavoro della cosa. Poi sono atterrato a Stansted, dove non mi è stato fatto alcun controllo—nemmeno provata la febbre. È andato tutto come al solito.

Appena ho riacceso il telefono ho trovato altri messaggi dai coinquilini: a uno i superiori avevano detto che se fossi tornato a casa anche lui avrebbe dovuto mettersi in auto-quarantena, oppure avrebbe dovuto trasferirsi da qualche altra parte per due settimane. Oppure potevano chiedere a me di trovare un altro posto dove stare in isolamento.

Il mio altro coinquilino al momento sta prendendo dei farmaci immunosoppressori, quindi era un po’ preoccupato—inoltre è un ricercatore, e fa esperimenti con i topi. Il suo dipartimento Risorse Umane gli ha detto che se fosse entrato in contatto con qualcuno che era stato in Nord Italia o in Cina avrebbe dovuto mettersi in quarantena. Se non l’avesse fatto e si fosse presentato al lavoro, c’era il rischio di compromettere l’integrità delle cavie e di doverle uccidere tutte.

Non è che mi stessero chiedendo esplicitamente di andarmene, ma ho deciso comunque di trovarmi un’altra sistemazione. Quello che mi ha dato fastidio è che non mi abbiano detto chiaramente che erano a disagio. Hanno lasciato che girassi mezza Londra, finché non mi sono accordato con la mia ragazza per stare da lei a Hackney, e sono riuscito a convincere mia cugina, che vive a South London, a offrirmi anche un posto da lei.

Quando ho avuto bisogno di andare a prendere dei vestiti, i miei coinquilini hanno proposto di metterli in uno zaino e lasciarlo fuori dalla porta. Gli ho detto: “Ragazzi, fa lo stesso, vengo quando a casa non c’è nessuno—ho il disinfettante e la mascherina.” Praticamente sono stato in casa mezz’ora, il tempo di prendere quello che mi serviva e andarmene.

Negli ultimi giorni sono stato a South London, dove mia cugina ha una stanza per gli ospiti. Ho ancora i miei bagagli e un po’ di vestiti extra, quindi sono in una situazione abbastanza comoda. Ma cosa succede a chi non può permettersi una stanza d’albergo, o non ha amici o parenti che possano aiutare?

Né il governo britannico né il servizio sanitario mi hanno saputo dare consigli su cosa fare. Mi sento lasciato a me stesso. Sono alcuni giorni che provo a contattare l’111 [il numero dell’NHS]. Non ho alcun sintomo ma mi chiedo se non sia il caso di fare un controllo—eppure non riesco a farmi rispondere. Sono rimasto in attesa per un’ora diverse volte. Presumo la gente sia preoccupata e chiami senza sosta. Io mi sento bene, però; nemmeno un colpo di tosse.

In definitiva, sono più che altro infastidito dai miei coinquilini. Avrebbero potuto chiedermi se stessi bene, dirmi fuori dai denti che volevano me ne andassi. Se l’avessero fatto subito non avrei avuto problemi. Ma se non fossimo andati d’accordo, non so come avrei reagito. Anche perché, a tutti gli effetti, io sto ancora pagando l’affitto—quella è casa mia, è dove vivo. Forse dovrei pagare solo metà mese.

Passati questi 15 giorni, spero, riuscirò a rientrare.