La Gran Bretagna si prepara al referendum che deciderà la sua permanenza nell’Unione [che si terrà domani, 23 giugno], e ovunque crescono i consensi alle destre nazionaliste; nel frattempo alcuni Stati—l’Austria su tutti—auspicano la chiusura delle frontiere in risposta all’emergenza rifugiati. In poche parole, l’Unione Europea è in crisi dalle fondamenta.
Abbiamo chiesto a Sergio Fabbrini, politologo, direttore della LUISS School of Government e Recurrent Visiting Professor alla Berkeley University, se il progetto dell’Europa unita è davvero a rischio.
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VICE: Quanto è concreta la possibilità di un collasso dell’UE, anche in vista del referendum nel Regno Unito?
Sergio Fabbrini: Non credo sia possibile un collasso vero e proprio, dato che in questi 60 anni sono state costruite reti politiche e burocratiche. Parlerei piuttosto di disaggregazione dovuta a interessi divergenti. Questo referendum potrebbe essere l’inizio di un processo in cui per esempio la Danimarca, o i paesi dell’est Europa, chiederanno di recuperare la sovranità su politiche cruciali, restando però nel mercato unico. Il problema è che l’UE non ha una strategia per affrontare questo scenario.
Ma il Regno Unito potrebbe davvero uscire dall’Europa?
In realtà si tratta di una competizione interna al partito conservatore inglese, ed è incredibile che l’Europa intera ne sia scossa. Se gli inglesi voteranno la Brexit, le conseguenze interne—penso alla Scozia—saranno ingestibili. Oltretutto, i paesi europei reagirebbero con durezza, anche per lanciare un segnale forte a chi volesse seguire il Regno Unito.
Un altro fenomeno preoccupante è l’ascesa delle destre estremiste. Nel 2000 l’UE applicò delle sanzioni per intimidire Haider, allora in ascesa in Austria. Oggi si potrebbe fare lo stesso?
Credo sia sempre più difficile. Prendiamo il caso estremo dell’Ungheria: perché non c’è stata una reazione contro Orbàn? Perché Fidesz, il suo partito, nel Parlamento europeo fa parte del PPE, e i parlamentari ungheresi sono necessari per garantire la maggioranza a quest’ultimo—e quindi la presidenza a Junker. In sostanza, si è schiavi di un gioco politico, per cui è difficile immaginare che l’UE possa “costringere” i propri stati membri a rispettare criteri democratici.
L’acquis di Schengen è una delle basi dell’UE, eppure sempre più stati vogliono ristabilire il controllo delle frontiere interne. L’area Schengen è già morta?
Se crolla Schengen crolla tutto. Credo che ci sia molta irresponsabilità da parte dei leader: il nazionalismo non è una risposta, bisogna piuttosto proteggere i confini esterni dell’area con una sorta di gendarmeria gestita dall’UE— soprattutto nel caso di paesi come Italia e Grecia, con il 90 percento dei confini sul mare.
Pensa che la stessa soluzione di una “forza” comune—quella che lei chiama una gendarmeria—potrebbe dimostrarsi valida anche per combattere il terrorismo?
Sì, non possiamo continuare ad affrontare il problema della sicurezza con la frammentazione dei sistemi di intelligence nazionali. Bisogna creare il nostro FBI dipendente direttamente dall’UE. È questo che manca: qualcuno che razionalizzi le informazioni e coordini la ricerca di possibili minacce. Se Belgio fiammingo e Belgio vallone non comunicano, per un terrorista è come mettere un coltello nel burro.
Ecco, a proposito di “modello americano”, come si definisce oggi il rapporto tra Europa e Stati Uniti?
Per loro noi siamo una fonte di problemi—pensi solo al tema della sicurezza collettiva: molti americani ritengono uno “shame”, oltre che una spesa, che l’Europa abbia ancora bisogno della loro protezione a 70 anni dalla fine della guerra. Lo stesso Obama ne è consapevole; in un’intervista all’Atlantic ha criticato sia Sarkozy che Cameron perché hanno fatto i freerider attaccando la Siria; per poi finire dopo due settimane a non avere più munizioni. Credo sia stata la prima critica così aperta che ho sentito da un presidente in carica.
E per quanto riguarda l’altra grande potenza con cui l’Europa deve confrontarsi, la Russia?
Nei confronti della Russia non esiste una strategia. Anche le sanzioni sono state un errore, soprattuto per noi italiani, visto che altre nazioni come la Germania sono riuscite comunque ad aggirarle. Bisogna capire che Putin non è l’uomo della Guerra fredda e noi non abbiamo alcun interesse a fargli credere che lo sia, anche perché in quella situazione avremmo tutto da perdere. Però non possiamo far dettare la linea ai paesi baltici o a quelli dell’est Europa che hanno ancora una paura ancestrale della Russia.
Venendo all’Italia—qualche tempo fa il Guardian si chiedeva se non possa assumere il ruolo di leader europeo.
Non credo, per ragioni storiche: abbiamo troppi problemi interni. Ma non siamo nemmeno un Paese che nessuno ascolta, anzi spesso ci ascoltano proprio perché non facciamo paura. L’ambiguità strutturale del “più piccolo dei grandi e il più grande dei piccoli” ci relega in un ruolo maieutico, una sorta di leadership from behind che esercitiamo in maniera efficace.
Nel 2019 si voterà per il nuovo Parlamento europeo. Vorrei concludere chiedendole un pronostico secco: l’Unione arriverà fino a quella data?
Ci si arriverà. Ma la nuova generazione dovrà stabilire il proprio destino attraverso una costituzione europea che separi chi aderisce all’ideale politico da chi ha scopi solo economici. I membri delle cancellerie dell’Europa pre-Prima guerra mondiale sono stati descritti da Clarck come “sonnambuli”: perché incapaci di immaginare le conseguenze delle loro decisioni. Ecco, credo che la situazione oggi sia analoga. Le faccio l’esempio della Turchia—vista la sua crescita demografica, se entrasse in Europa nel 2020 i suoi rappresentanti potrebbero essere i più numerosi a Bruxelles. Davvero la Merkel pensa che sia un bene accelerare l’ingresso di un paese in cui i diritti civili sono spesso un optional? Vede, i leader europei sono prigionieri del breve periodo; e l’Europa rischia di crollare proprio per la miopia di politici prigionieri dello short term e incapaci di valutare le conseguenze delle proprie scelte.
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