Questo posto nasce a Testaccio come rivendita di vino, olio e cibi non cotti, nel 1870. Ci venivano i cosiddetti fagottari: gente di passaggio o pastori che facevano la transumanza delle pecore e si fermavano per farsi un goccio.
Puoi mangiartela con forchetta e coltello. Puoi riempirci un panino. Prenderla con le mani e staccarne grossi pezzi. Usarla come sugo di carne per i rigatoni. La bontà della Coda alla Vaccinara si misura in quante macchie di sugo riporti, come ferite di una battaglia vinta.
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La Coda alla Vaccinara è la regina dei secondi piatti della tradizione romana. Grandi cubi di coda bovina cotti tanto da riuscire a sfilacciarne la carne senza fatica affogati in un mare di sugo al pomodoro sono uno dei simboli della Roma gastronomica. E oggi vi racconto la sua storia. Così pazzesca che ci troverete: una trattoria con cocktail bar, l’antica Roma, un mattatoio abbandonato e Trilussa.
La Coda alla Vaccinara nasce in un luogo specifico e in un momento specifico. Ancora più specificamente: nasce per ovviare a un problema.
Il piatto ha origine tra il finire del 1800 e l’inizio del 1900 nella trattoria “Checchino dal 1887” a Testaccio. Non solo una delle prime trattorie sorte a Roma, ma tra le uniche a essere entrata nella classifica ritenuta gli Oscar della ristorazione, i 50 Best Restaurants (e per ben due anni: nel 2003 e nel 2005, quando è arrivato 23esimo prima de L’Arpège).
“All’inizio, nel 1870, qui intorno non c’era niente,” mi racconta Simone Mina, sesta generazione della trattoria, che al piano di sopra del locale si occupa dei cocktail. “I miei antenati Lorenzo e Clorinda aprirono questo posto come rivendita di vino, olio e cibi non cotti, nel 1870. Ci venivano i cosiddetti fagottari: gente di passaggio o pastori che facevano la transumanza delle pecore e si fermavano per farsi un goccio.” I pastori che facevano la transumanza sono anche alla base delle paste romane come la Cacio e Pepe e la Gricia.
Avete presente il Quinto Quarto? Funziona così: la mucca veniva divisa in quattro parti dello stesso peso. Si dice che il primo quarto, il migliore, spettasse alla nobiltà; il secondo al clero; il terzo alla gente comune; il quarto all’esercito. Il Quinto Quarto erano tutti gli scarti che, messi insieme, pesavano quanto un quarto di bue
“Poi nonno Checchino ci vide lungo e decise di prendere, nel 1887, la licenza per cucinare. Proprio di fronte stavano cominciando i lavori del nuovo (oggi ex) mattatoio di Roma, in cui sarebbe stata macellata tutta la carne, soprattutto bovina, della Capitale”, continua Simone. Qui la storia della trattoria si interseca con quella del rione Testaccio e di un luogo più grande. Cosa c’entra la Coda alla Vaccinara con il mattatoio, se non il fatto che lì dentro smembravano e scuoiavano bestie?
“C’entra,” continua Simone, “perché proprio da questo lato dell’ingresso del mattatoio lavoravano i vaccinari, detti anche scortichini.” Insomma, quelli che facevano il lavoro più sporco e pesante, che si dovevano scorticare e dividere in quarti le mucche intere. Avete presente quando si parla di Quinto Quarto? Funziona così: la mucca veniva divisa in quattro parti dello stesso peso. Si dice che il primo quarto, il migliore, spettasse alla nobiltà; il secondo al clero; il terzo alla gente comune; il quarto all’esercito.
Il Quinto Quarto erano tutti gli scarti che, messi insieme, pesavano quanto un quarto di bue. Ecco: gli scortichini venivano pagati un po’ in denaro e per il resto in Quinto Quarto. Quindi staccavano da lavoro e andavano da Checchino con le loro zampe, testa interiora e, ovviamente, la coda per farsele cucinare dalla sora (signora, NdT) Ferminia, madre di Checchino. Fino a quel momento le code e le teste venivano semplicemente usate per insaporire brodi.
“La mia trisavola, la Sora Ferminia, doveva trovare due soluzioni: come cucinare la coda, che fino a quel momento nessuno ci aveva pensato, e come arginare il problema che la coda fosse piena di cartilagine, molto dura, muscolosa,” mi racconta Simone Mina.
È abbastanza certo che a inventarla sia stata lei, nonostante qualcuno vociferi anche di una tale Sora Maria. I “Romanisti della Cisterna”, poi divenuti, nel 1938, il “Gruppo dei Romanisti” – gentiluomini, poeti e letterati accomunati dall’amore per la ricerca storica di qualsiasi cosa legata a Roma – ne parlarono già negli anni ‘20. “Fu Gustavo Brigante Colonna il primo a parlarne nel suo libro Gastronomia romana,” mi racconta Donato Tamblé, presidente del Gruppo dei Romanisti.
La storia è presente anche nel numero della Strenna dei Romanisti del 1965, dove il signor Secondino Freda racconta come ci fosse sempre più coda a disposizione, visti i volumi di macellazione maggiori, e che quindi si dovette trovare un modo di cucinarlo, questo benedetto scarto. “Tanto famosa (la coda, NdR), per la sua saporosa bontà, che riuscì […] a risolvere un vecchio antagonismo esistente tra i popolani di Trastevere e quelli di Testaccio. […] Questi ultimi invitarono i trasteverini a una mangiata di coda alla ‘vaccinara’ in una osteria vicino al mattatoio.” E insomma sbranandosi pezzoni di Coda alla Vaccinara i popoli fecero pace invece che continuare a darsele di santa ragione. Almeno a me piace vederla così. “A mio avviso fu proprio Briganti Colonna a pubblicare per primo la ricetta de la sora Ferminia,” conclude il signor Tamblé.
Il mattatoio è stato fondamentale e il cuore del rione Testaccio. Di fatto ha trasformato la zona in un quartiere-villaggio dove abitavano gli operai del macello.
Giusto per darvi un’idea del contesto, una breve storia del mattatoio: quello che oggi è praticamente abbandonato se non per la Facoltà di Architettura, che ne occupa un pezzetto, è stato un capolavoro di modernità nel momento della costruzione. L’ingegnere che ci lavorò aveva addirittura creato un sistema di eliminazione rifiuti facendo smaltire le carcasse nel fiume Tevere a due passi.
Prima della costruzione a fine ‘800, però, c’erano solo prati e la prima discarica della storia: il Monte de’ Cocci. Un monte creato da parti di anfore romane che non potevano essere riutilizzate, al cui interno (sì, dentro il Monticello), tra l’altro, c’è la cantina di Checchino. Dove se allunghi una mano tocchi letteralmente spazzatura che ha più di duemila anni.
Il mattatoio è stato fondamentale, il cuore del rione Testaccio. Di fatto ha trasformato la zona in un quartiere-villaggio dove abitavano gli operai del macello. Dismesso negli anni ‘70, soprattutto perché cominciava a puzzare parecchio un mattatoio in centro città, con la popolazione romana triplicata, da allora giace semi-abbandonato, teatro ora di centri sociali, ora di tentativi falliti di riqualificazione, talvolta di mostre. Insomma, la classica situazione di bandi finora farlocchi e la poca voglia di investire nella valorizzazione di uno spazio.
Ora pare che ci sorgeranno uno spazio di coworking e anche una scuola popolare di cucina, ma è giusto andarci coi piedi di piombo e aspettare la scadenza. Oltre al fatto che ne riguarderà solo una piccola parte. Se ci passate buttate un occhio dentro i padiglioni, capolavoro di architettura industriale e casa di gattini randagi. E all’edificio sulla piazza principale: letteralmente un palazzo frigorifero di cui si vedono ancora le gigantesche serpentine.
I segreti della Coda alla Vaccinara
Ora ecco i segreti per cucinare la Coda alla Vaccinara così come mi ha raccontato il signor Elio Mariani, che la fa da 51 anni: oltre a mettere il cioccolato amaro grattugiato – che con la sua parte amara un po’ tostata sgrassa e rende le salse più dense senza alterare troppo – il segreto da tenere a mente è quello di tenerla sul fuoco cinque ore. “Prima di tutto bisogna scegliere la coda,” mi dice il signor Elio. “Deve essere di manzo. Di colore non troppo rosso e avere un aspetto omogeneo. Si fa rosolare, sfumare con vino bianco e si aggiunge il sugo. A fine cottura si aggiungono sedano, uvetta, pinoli e il cioccolato. E poi bisogna aspettare cinque ore, girandola ogni 15 minuti.” Va rigorosamente servita nella “barchetta”, il piatto ovale in cui tradizionalmente viene ricoperta con l’intingolo e con bei spezzoni di sedano.
Mentre lo zio Francesco è sempre in sala, vestito impeccabilmente, e la mamma Marina prepara i dolci, Simone si occupa della parte bar. Sì, ovviamente ha pensato di fare un Bloody Mary con il sugo di Coda alla Vaccinara: “È nato un po’ come una sorta di simpatico sfottò a Bottura e alle sue diverse consistenze del Parmigiano. La coda così puoi sia berla che mangiarla nella sua forma classica. E ne faccio anche delle chips.”
Dopo qualche ora passata a parlare e passeggiare nell’ex-mattatoio quasi deserto, tra bassorilievi di teschi di mucca, padiglioni silenziosi su cui ancora si leggono scritte come tripperia o stalle del bestiame e binari su cui ti immagini ancora mucche appese che viaggiavano da un padiglione a un altro, era doveroso mangiare la vera Coda alla Vaccinara.
Tre pezzi enormi coperti da un mare di sugo mi guardano languidi. Accanto un enorme Bloody Coda mi sussurra di berlo. Porto la carne morbida alla bocca, la assaggio, il sapore del sugo è ricco.
E niente, mi sono macchiato.
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