Perché dopo Nizza non possiamo più cadere nella propaganda dello Stato Islamico

Per l’ennesima volta nell’ultimo anno ci troviamo a fare i conti con un evento sanguinoso che scuote alle fondamenta la Francia e l’Europa intera.

Fin dai primi momenti, sulla strage di Nizza del 14 luglio 2016 le massime autorità francesi – e buona parte della stampa – non hanno avuto dubbi: come ha detto il primo ministro Manuel Valls, si è trattato di un “atto di terrorismo”; e l’attentatore, il tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, era “senza dubbio” legato “in un modo o nell’altro all’Islam radicale.”

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A circa 36 ore dal massacro – un lasso di tempo più elevato rispetto al solito – è arrivata la (scontata) rivendicazione del sedicente Stato Islamico (IS) in un comunicato pubblicato su A’maq, organo di propaganda “ufficiale” di IS. “L’esecutore dell’operazione mortale a Nizza era un soldato di IS,” si legge, “e l’azione è una risposta alla chiamata di colpire i cittadini delle nazioni che combattono lo Stato Islamico.”

Impostata in questo modo, dunque, la “narrativa” è assolutamente limpida e lineare. Eppure – a differenza di quanto è successo a Charlie Hedbo, a Parigi nel novembre del 2015 e a Bruxelles – in questo caso il riquadro generale è nettamente più confuso: si è trattato del gesto di uno squilibrato isolato o di un “lupo solitario” di IS? Lo Stato Islamico ha “ordinato” l’attentato o ci ha solo messo il cappello? O ancora: c’è davvero una differenza tra queste cose?

Anzitutto, il profilo dell’attentatore è apparentemente diverso da quello del jihadista duro e puro affiliato allo Stato Islamico. Bouhlel era arrivato in Francia nel 2005, e da allora viveva nel paese con regolare permesso di soggiorno. Le testimonianze dei vicini di casa hanno tratteggiato il riquadro di una persona riservata, “strana,” violenta nei confronti della moglie, e non particolarmente religiosa – anzi: mangiava maiale, beveva e non celebrava nemmeno il Ramadan.

Negli ultimi tempi, sempre a detta dei vicini, pareva “depresso.” A questo proposito, sia il padre che la sorella hanno detto alla stampa e agli inquirenti francesi che Bouhlel aveva avuto problemi mentali e che si era sottoposto a cure psichiatriche. In passato, inoltre, aveva avuto diversi problemi con la giustizia, tanto che il suo ex avvocato l’ha decritto come “il classico delinquente comune,” ma che comunque non aveva minimamente l’aria di un “jihadista radicalizzato.”

E infatti – come hanno riferito il procuratore generale di Parigi François Milons e il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve – l’uomo non era mai stato attenzionato o segnalato dai servizi, poiché non aveva dato alcun segno di “essere vicino all’ideologia dell’islam radicale.” Cazeneuve ha comunque specificato che l’attentatore “sembra essersi radicalizzato velocemente,” e al momento cì sarebbe un labile collegamento tra Bouhlel ed una filiera jihadista.

Posto che la personalità dell’attentatore è contradditoria e problematica, le modalità dell’atto – un camion lanciato sulla folla – sono invece assolutamente inedite. Come ha ricordato il giornalista inglese Jason Burke, nel settembre del 2014 il portavoce di IS Abu Muhammad al-Adnani aveva invitato i simpatizzanti dello Stato Islamico a colpire i nemici in Occidente, tra i quali erano annoverati i “disgustosi francesi.”

Nel suo discorso, Adnani aveva affermato che qualsiasi arma sarebbe andata bene per eliminare gli “occidentali.” “Se non riuscite a trovare una bomba o una pistola, allora rompetegli la testa con una pietra, fatelo fuori con un coltello, investitelo con la vostra macchina, buttatelo giù da un aereo, strangolatelo, avvelenatelo,” aveva detto il portavoce.

Nel corso della conferenza stampa, il procuratore Milons ha detto che questo tipo di azione “rientra negli appelli lanciati dallo Stato Islamico.” Ma anche in questo frangente, è davvero difficile stabilire se Bouhel abbia risposto direttamente all’appello di IS, si sia ispirato a un certo immaginario (anche Al Qaeda, nel 2010, sollecitava i suoi seguaci a usare automobili per “falciare” i nemici), o semplicemente si sia avvalso di un tir in quanto guidatore di mezzi pesanti.

A prescindere da cosa verrà fuori dall’inchiesta e da quali connessioni emergeranno o meno, è chiaro che IS ha tutto l’interesse a intestarsi un atto del genere – e per almeno due motivi.

Il primo, scrive Ben Taub sul New Yorker, è che massacri di questo tipo rientrano – o sono fatti rientrare – nella “cornice di significato” creata dallo Stato Islamico, che permette a ogni aspirante stragista di “ottenere la gloria e l’appartenenza [al gruppo] postuma.” In più, “collegare queste atrocità allo Stato Islamico fornisce a tutti un’allettante linea narrativa, una facile occasione di rendere comprensibile l’orrore.”

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Il secondo motivo ha a che fare le finalità ideologiche e propagandistico dello Stato Islamico. Nel numero di Dabiq (la rivista patinata del gruppo) del febbraio 2015, un articolo statuiva esplicitamente che una delle finalità degli attacchi in Occidente è la polarizzazione delle società e la conseguente “eliminazione della zona grigia” – ossia la “zona di coesistenza” tra musulmani e non-musulmani, e più in generale tra tutti i gruppi religiosi.

Come ha fatto notare Murtaza Hussain su The Intercept, questa “strategia di usare la violenza per amplificare le divisioni ricalca le tattiche del gruppo in Iraq, dove sono stati condotti attacchi contro la popolazione sciita con l’esplicito intento di innescare un conflitto settario, che tra l’altro è ancora in pieno svolgimento.”

Sempre secondo Hussain, è improbabile che IS riesca a replicare il “successo” iracheno in Europa o negli Stati Uniti. Ciò nonostante, non serve essere uno scienziato politico per accorgersi di come ad ogni attentato corrisponda inevitabilmente una maggiore polarizzazione – sia a livello sociale, che politico.

Gli spazi per la coesistenza si assottigliano sempre di più, la disperata ricerca di una qualche sicurezza totale sacrifica irrimediabilmente i diritti civili – a questo proposito, molti analisti e commentatori stanno portando avanti l’idea che l’Europa debba diventare una gigantesca Israele – e le destre più o meno estreme, forti dell’aumento dei consensi, fanno rullare i tamburi di guerra e invocano le “maniere forti.”

Ma per quanto drastiche e semplificatorie siano le proposte messe sul tavolo, la realtà è che nessuno ha la più pallida idea su come si possano evitare attentati di questo tipo – che, sostiene Jason Burke sul Guardian, evidenziano quanto imprevedibili e mutevoli siano le forme del terrorismo contemporaneo.

Del resto, già la classificazione del fenomeno e la profilazione dei jihadisti è un’impresa ai limiti dell’impossibile. Recentemente i due massimi studiosi francesi del terrorismo islamico – Oliver Roy e Gilles Kepel – si sono scontrati ferocemente sulle proprie tesi. Per Roy il jihadismo è una componente marginale dell’Islam, e la chiave risiede piuttosto nel comportamento individuale e nella psicologia. Per Kepel, invece, la risposta si trova all’interno della Francia – soprattutto nelle sue banlieue – e nel ruolo dell’islam.

Non si tratta di un mero dibattito accademico, poiché le idee e le ricerche sul tema influenzano la politica e la risposta che viene dalle autorità – le quali, schiacciate tra le pressioni delle destre e la minaccia incombente, stanno ricorrendo sempre di più a soluzioni emergenziali e militarizzate.

Il che mi porta, ancora una volta, al tema della polarizzazione sociale e delle sue estreme conseguenze. Sullo sfondo di ogni attentanto in Francia, infatti, si staglia un termine ben preciso: “guerra civile.” Fino a poco tempo fa era un mormorio sussurrato, un’ipotesi inconcepibile e impronunciabile; meno di mese fa l’ha pronunciata direttamente Patrick Calvar, il capo della Direction générale de la sécurité intérieure (DSGI, l’intelligence interna francese).

Di fronte alla commissione d’inchiesta sugli attacchi del 13 novembre 2015, Calvar ha detto che il paese “è sull’orlo di una guerra civile.” Gli estremisti, ha continuato, “stanno crescendo dappertutto e noi, i servizi, stiamo per mettere in campo le risorse per controllare anche l’estrema destra, che non aspetta altro che lo scontro.” Uno scontro, ha precisato, che “prima o poi ci sarà. Ancora uno o due attentati e poi vedremo.”

Se si prendono in seria considerazione questi scenari apocalittici, l’errore più grande che si può commettere ora è quello di abbandonarsi a rappresaglie e ritorsioni di ogni tipo, nonché quello di cadere nella narrativa dello Stato Islamico che spinge per avere un mondo frantumato dalle divisioni religiose.

E per questo, soprattutto dopo la strage di Nizza, l’unica battaglia che vale la pena combattere è quella che punta alla preservazione della “zona grigia” e all’allargamento di quello spazio di coesistenza che lo Stato Islamico – e non solo – vuole spazzare via per sempre.

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