Il cibo non è intrattenimento. Piuttosto, il cibo è destinato a nutrire: il cibo è un carburante, puro e semplice. Questo non significa che non mi piaccia il cibo, anzi mi piace immensamente
C’è un’immagine frequente che descrive il minimalismo: è una stanza vuota dalle pareti bianche e una sedia. “Ho un letto, una sedia e una radio. Sono io che decido se una cosa aggiunge valore alla mia vita“ dice Joshua Fields Millburn dall’interno della sua grande casa americana, ormai semivuota. Con Ryan Nicodemus ha creato The Minimalists, pubblicato due documentari su Netflix, una lunga serie di podcast, un blog e diversi libri. Nella loro bio i due dichiarano di aver aiutato “più di 20 milioni di persone a vivere una vita più significativa” con meno cose.
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Il minimalismo non nasce con loro ma sviluppa invece nell’arte, più nello specifico negli anni ‘60, nell’America che reagisce alla Pop-Art e propone un nuovo stile in cui predominano linee semplici ed essenziali, disegni elementari e moduli geometrici. Da qui l’approccio minimalista ha avuto la capacità di allargare lo sguardo per investire anche musica e letteratura e rimbalzare fino ai nostri anni ’20 sotto forma di minimalismo esistenziale. Non più solo arte ma stile di vita che si adatta e reagisce alle derive degli anni 2000: il consumismo in particolare, il possesso compulsivo di beni, l’ossessione per il denaro e la carriera, lo spreco.
Lo scopo è quello di ridurre l’impatto negativo del cibo sulle nostre vite, fare in modo che non diventi un’ossessione, non sprecare
Esiste un minimalismo architettonico, una moda minimalista, esiste un minimalismo nel business, esiste un “food minimalism”, da intendersi sia come stile gastronomico che come approccio soggettivo al cibo e al mangiare. Anche The Minimalists hanno trattato questo aspetto, collegando il cibo al benessere, fisico e mentale, e sottolineando la necessità di un rapporto equilibrato e non accumulativo: “Il cibo non è intrattenimento. Piuttosto, il cibo è destinato a nutrire: il cibo è un carburante, puro e semplice. Questo non significa che non mi piaccia il cibo, anzi mi piace immensamente”.
Nei loro post sono sparse altre considerazioni: mangiare solo due volte al giorno, preferire piatti semplici e fatti di materie prime poco cucinate, niente bevande zuccherine. Lo scopo è quello di ridurre l’impatto negativo del cibo sulle nostre vite, fare in modo che non diventi un’ossessione, non sprecare. Tutto sommato non è un argomento di cui The Minimalists si sono occupati granché, forse perché subordinato ad altri aspetti più urgenti, come la necessità di svuotare le enormi case americane da pile di vestiti, elettrodomestici e utensili per la cucina.
Quando voglio cambiare oppure trovo ricette o ingredienti nuovi, perché mi piace variare, prima mi informo su come si usano e poi li acquisto. Significa anche acquistare, e di conseguenza consumare, ingredienti e non cibi troppo elaborati.
E a proposito di dieta: “La mia dieta oggi consiste per lo più di carne e vegetali, niente cibi lavorati. Mangio una buona parte di frutta e verdura. Ci sono alcuni alimenti che ho ridotto drasticamente – o eliminato completamente – dalla mia dieta: pane, pasta, zucchero, glutine, latticini e qualsiasi cosa trasformata o confezionata. Pensateci: Quale altro animale mangia pane, pasta o barrette di cioccolato? Il nostro corpo non è fatto per consumare queste schifezze?”. É un ragionamento piuttosto complesso, ma non dimentichiamo il contesto: due uomini americani bianchi alle prese con un piatto di pasta made in United States.
“Alcuni piatti italiani sono di loro natura minimal, vedi la pasta al pomodoro, così buona ma così semplice” sostiene invece Irina Potinga – su Instagram e Youtube @spaziogrigio – che sta divulgando con successo il minimalismo in Italia. “Per me, minimalismo in cucina significa preparare piatti veloci e semplici con pochi ingredienti che conosco, questo mi permette di mangiare sano e fatto in casa e anche di non avere la dispensa piena di ingredienti che non so come usare. Quando voglio cambiare oppure trovo ricette o ingredienti nuovi, perché mi piace variare, prima mi informo su come si usano e poi li acquisto. Significa anche acquistare, e di conseguenza consumare, ingredienti e non cibi troppo elaborati. Cerco di avere sempre a casa alcuni prodotti base così so che ho sempre cosa cucinare come la passata, la pasta ed il riso ovviamente, le patate, i legumi già pronti in scatola sono sempre presenti, e poi qualche verdura cruda. Tuttavia evito di fare scorte che mi occupano spazio e che poi rischio di non utilizzare fino alla fine o che vadano a male. Per me non si tratta tanto di risparmiare – anche se è una conseguenza – ma di non sprecare”.
Mangiare fuori per me è un evento. Mi piace farlo per occasioni, per incontrare amici o per festeggiare. Non è un’abitudine che fa parte della mia vita quotidiana
Alcuni requisiti suggeriti per un’alimentazione minimale sono: tenere una dispensa ordinata e organizzata, preparare un piano settimanale dei pasti che si vogliono consumare e così anche una lista della spesa accurata, cercare di cucinare tutto in un’unica pentola, per evitare di sporcare e poi perdere tempo e stressarsi nella pulizia e nelle preparazioni last minute, magari dopo una giornata faticosa a lavoro. “Questo ci può portare una serie di problemi come ordinare cibo troppo spesso, sprecare cibi che sono andati a male perché inutilizzati, sperperare soldi” racconta lo youtuber Frank Loconte.
Ma gli esempi di minimalismo applicato al cibo sono parecchi, anche se si tratta di un approccio nuovo e ancora da scrivere. C’è Bri, la dietista del Canada che propone un meal plan settimanale mininalista; c’è Lucia che vive a Boston e scrive e fotografa ricette minimaliste niente male; c’è Minimalism Wines, la distribuzione di vini minimali e “undressed” creati per riflettere senza filtri il loro terroir; c’è Minimalist Baker, che propone ricette realizzate in non più di 30 minuti con meno di 10 ingredienti.
I minimalisti spesso parlano di preferire il cibo di casa. “Mangiare fuori per me è un evento. Mi piace farlo per occasioni, per incontrare amici o per festeggiare. Non è un’abitudine che fa parte della mia vita quotidiana. Per ora non mi è mai successo di mettere l’etichetta minimal o no su un ristorante. Giudico il locale per la qualità e la bontà dei piatti” mi ha raccontato Irina.
Ma come si comporterebbe un ristorante con un approccio minimalista? Le strade sono tante: dall’utilizzo di pochi ingredienti per piatto, alle porzioni non troppo abbondanti, all’utilizzo di materie prime in purezza, all’arredamento e alla mise en place essenziale, all’estetica semplice delle proposte, fino alla redazione minimale dei menu. Per esempio: pasta, parmigiano e pomodoro è un piatto minimale, spaghettone di grani antichi con riduzione di pomodoro, gocce di olio EVO, foglie di basilico e spuma di parmigiano non è un piatto minimale. Anche se alla fine potrebbero essere esattamente la stessa cosa.
In questo senso il food-porn, l’all-you-can-eat, il buffet ma pure le degustazioni dei ristoranti di fine-dining e di vino, sono agli antipodi rispetto alla filosofia minimalista. Non essendo un movimento codificato, lo spazio per definire cosa sia food minimalism e cosa no è molto ampio. Nei blog minimalisti si trovano riferimenti al fatto che il minimalismo può significare evitare la GDO, mangiare solo cibo locale, scegliere in base alla stagionalità. Da nessuna parte c’è scritto che essere minimalisti equivale ad essere vegani, vegetariani o crudisti, anche se molti minimalisti lo sono, ma non The Minimalists che introducono nella loro dieta carne e salmone (off topic: cosa c’è di meno minimalista del salmone allevato?).
Di base si può dire che la gastronomia italiana ha una vocazione minimale, perché si basa su una cucina semplice e povera, fatta di pochi ingredienti
Uno dei tentativi più evidenti di minimalismo culinario lo troviamo nella cucina nordica. Sara Melissa Fort ha spiegato l’usanza norvegese di pranzare con due fette di pane e formaggio, raccontando che non si tratta solo di un’abitudine, ma del retaggio di un programma ministeriale – The Oslo Breakfast – nato negli anni ’30 e pensato per promuovere nelle scuole abitudini alimentari più sane. “Forse questo semplice pranzo è noioso, ma ti mantiene in forma, e non devi preoccuparti di cosa mangiare e quanto ti costerà” scrive Fort. Oggi è prassi, non solo in Norvegia ma in tutti i paesi scandinavi.
Valerio Serino è un cuoco italiano trasferito a Copenaghen dove ha aperto, alcuni anni fa, il suo ristorante Tèrra: “Il minimalismo fa parte di questa cultura, qui è inteso come pura funzionalità. Le sfumature e le gradazioni di colore non sono contemplate. Di base si può dire che la gastronomia italiana ha una vocazione minimale, perché si basa su una cucina semplice e povera, fatta di pochi ingredienti. Vivendo a Copenaghen, ma portando dentro di me questo retaggio culturale, ho cominciato a contaminare le due culture, italiana e nordica, e interpretare una mia cucina minimalista, usando pochi ingredienti come nella tradizione italiana e rendendoli assoluti. Anche il fatto di usare principalmente vegetali, pochi grassi animali e proteine per realizzare menu semplici e d’impatto, è minimalismo”.
Perché stiamo parlando di minimalismo applicato al cibo e perché si dovrebbe diventare minimalisti? Per nessuna ragione in particolare e per tutte quelle buone che vi vengono in mente: in primis la possibilità di riscrivere la nostra relazione con il cibo. O meglio, riscrivere la relazione con il cibo di una buona parte di mondo dove il cibo è fin troppo disponibile. Troppo cibo, troppi grassi, troppi utensili ed elettrodomestici nella cucina possono essere fonte di stress, noia, nervosismo. Cosa succederebbe se applicassimo uno degli esperimenti minimalisti di Millburn e Nicodemus al nostro modo di mangiare?
Prendiamo la regola dei 90/90: dei Minimalists: “Scegli qualcosa. Qualsiasi cosa. Hai usato quell’oggetto negli ultimi 90 giorni? Se non l’hai fatto, lo userai nei prossimi 90? Se no, allora va bene lasciarlo andare”. Abbiamo una grande busta, il portafoglio carico per fare acquisti in abbondanza, la dispensa vuota, nessuna lista della spesa, una settimana intera davanti prima di poter tornare al mercato, alla bottega, al super. E non tanto tempo.
A questo punto per ogni oggetto che tireremo dentro, non ci resta che chiederci se a) lo mangerò/cucinerò nei prossimi 90 giorni? b) l’ho già mangiato nei precedenti 90 giorni e/o l’ho lasciato andare a male, e/o mi piace oppure no? c) non rischio di farlo scadere di nuovo? d) non è un doppione o una copia di qualcosa che ho già in casa e che non sto utilizzando? e) perché devo comprare il lievito se ho la certezza che, ancora una volta, non farò il pane? f) sono davvero sicura di aver preso proprio tutto quello che mi serve? g) ho abbastanza cibo per un intera settimana? Ho pensato a degli abbinamenti tra i cibi acquistati? h) ho comprato cibi adatti da portare in ufficio? i) ma soprattutto, se ho fame, ho preso qualcosa per fare uno spuntino?
Provateci, e fateci sapere che ne esce fuori.
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