Non è che una mattina mi sono svegliata e ho pensato, “Oggi provo l’eroina.” Non è così che funziona, e se mi aveste chiesto se un giorno io o chiunque intorno a me saremmo finiti a farci nel bagno del Rainbow Bar & Grill, mentre i clienti ai tavoli che servivo si chiedevano perché i loro drink ci mettevano così tanto ad arrivare, avrei detto, “No, impossibile.” Nell’autunno del 2011, invece, ero proprio lì, alla ricerca disperata di una vena, mentre sentivo il mio manager dall’altra parte della porta chiedere ai colleghi dove fossi finita. Quando ho finito di fare quello che stavo facendo, e sono tornata a servire, uno degli habitué mi ha detto, “Sai che sembri Amy Winehouse, capelli neri, labbra rosse e… solo che ovviamente tu non sei un’eroinomane.”
Quando la gente parla di relazioni, del loro successo, del loro fallimento o del loro potenziale, viene sempre fuori l’argomento “momento giusto”. Be’, quando mi sono avvicinata all’eroina, il momento era perfetto. Il nostro primo incontro è stato una storia d’amore che mi ha tolto dai miei panni e della mia testa. Tutto quello che provavo è scomparso, tutta la disperazione, la solitudine, il dolore, sono spariti, e stordimento ed euforia hanno preso il loro posto. Mio padre è morto a marzo, io mi sono ubriacata fino a non capire niente fino a giugno e l’8 giugno ho tinto di nero i miei capelli biondi, ho provato l’eroina per la prima volta e sono andata a farmi tatuare Clyde sul polso destro. Perché mi piace portare le cose all’estremo. Clyde è lo pseudonimo dell’uomo che mi aveva fatto conoscere il mio nuovo amore, l’eroina.
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Non c’è voluto molto perché i miei amici e la mia famiglia notassero un cambiamento. Ricordo di aver pensato, “Wow, l’eroina mi ha davvero fatto smettere di bere.” Dormivo meglio, piangevo meno, e perdevo i chili che avevo messo su in tequila. Era un sogno, un segreto nutrizionale e uno strumento magico che ero la sola a conoscere. Con mio rammarico, però, è venuto fuori che non era proprio un segreto. Quelli che ai miei cari sembravano cambiamenti allarmanti, per me erano ottimi. L’iniziale preoccupazione dei miei amici più stretti è poi diventata orrore. Ma a me non importava, perché l’eroina mi rendeva più felice di quanto loro non avessero mai fatto. Al tempo vivevo con la mia sorellastra, ma una mattina sono tornata e c’era mia madre, che non viveva con noi, seduta sul mio letto e circondata da siringhe e buste che pensavo di aver nascosto bene. Adoro mia madre, è il mio punto debole e andrei fin sulla luna per lei, ma quando mi ha guardata confusa, con le lacrime che le rigavano il viso, chiedendomi una spiegazione, sapevo che non ne sarei uscita. Sarebbe stato prematuro, avevo appena cominciato. Sapete che si dice che l’amore è una droga, no—be’, nel mio caso l’amore è letteralmente una droga, e non ero pronta a chiudere la nostra storia. Con il dolore di aver ferito mia madre profondamente anestetizzato dall’eroina, ho riempito di vestiti, chitarre e make up la mia auto argentata e sono scappata a Hollywood.
Sono uscita dall’autostrada su Sunset Boulevard, ho girato a sinistra e guidato incontro al mio destino. Ho parcheggiato dietro il Whisky A Go Go e camminato fino al Rainbow. In qualche modo ho sedotto il manager che mi ha assunto su due piedi. Era un segno: la prima persona con cui parlavo, nel primo posto in cui andavo, mi valeva un lavoro a Hollywood. In pochi giorni avevo anche firmato un contratto d’affitto per un monolocale con il parquet e i muri di mattoni proprio dietro a Hollywood Boulevard. Se non era destino, be’, non so cosa fosse. Era tutto così facile.
L’amore può essere definito in vari modi: devozione, ammirazione, attaccamento, cura incondizionata, desiderio sessuale. Io sentivo tutte queste cose per la droga, e non solo per la droga in sé ma per tutto il rituale, e per le avventure quotidiane a cui mi spingeva, per il pericolo e il rischio. Mi svegliavo ogni mattina e invece che riprendermi con una tazza di caffè, sbarravo gli occhi eccitata all’idea della pera. Mi piaceva l’ago e la trovavo una cosa sensuale, la sensazione di bucarmi, poi aspirare un po’ di sangue che si mischiava al liquido che avevo preparato, e poi iniettare. Una volta sazia, salivo su un vagone della metro pieno di turisti e local. I turisti mi chiedevano tutti agitati se ero un’attrice e io rispondevo con una risata, “No,” e pensavo, “Se solo sapessero.” Dopo varie fermate sulla rossa, cambiavo per la blu, piena di gente che non vorreste incontrare. A questo punto tiravo su il cappuccio e abbassavo la testa fin quando non arrivavo alla stazione di Slauson, dove attraversavo i binari con un taser dentro l’anfibio dentro e un coltello a serramanico nel sinistro, consapevole che senza queste armi io e i miei pochi chili avremmo potuto trovarci in seria difficoltà.
Sono cresciuta in una famiglia del ceto medio-alto con una madre amorevole, quattro sorelle e un patrigno affezionato, oltre a un padre molto rock’n’roll che vedevo i lunedì. Non ho avuto traumi d’infanzia che potrebbero darmi scuse plausibili per la mia dipendenza, sono solo nata con il fiuto per i guai. Mi è sempre piaciuto lasciare tutti a bocca aperta con i miei atteggiamenti edonistici. Ho cominciato dicendo le parolacce all’asilo, ho continuato uscendo con uomini maturi con problemi d’alcol e droga, e poi quando mio padre è morto tutto quello che di buono, positivo e ragionevole c’era in me è morto con lui. Ero la sua unica figlia e, dacché mi ricordo, l’ho sempre adorato e ho sempre cercato disperatamente il suo amore. Probabilmente ho ereditato da lui il mio edonismo. Quando è morto mi ha lasciato tutto, e la mia stanza ha cominciato a sembrare il deposito di un negozio di chitarre.
Diventare un’eroinomane è come avere una diagnosi di una malattia incurabile a decorso lento—la qualità della vita si deteriora e l’aspettativa di vita si riduce. Come molte storie d’amore, l’inizio è pieno di infatuazione, il mezzo dà l’illusione della normalità, e la fine ti getta nell’angoscia, la diffidenza, la disperazione, e infine il dolore. L’inizio della fine per me è venuto quando ho sviluppato una soglia di tolleranza che mi costava cento dollari al giorno. E se non avevo abbastanza droga, la sensazione di star male mi gettava nel panico. La prima volta che ho sentito rabbia nei confronti dell’eroina è stata quando sono entrata in un banco dei pegni e ho dato a pegno una chitarra di mio padre. Era una Fender Telecaster che per il colore era stata chiamata Marilyn e aveva girato il mondo con Kris Kristofferson e Freddy Fender. Mi hanno dato in cambio 75 miseri dollari e io mi sono odiata mentre mi facevo la droga che quei soldi mi erano valsi. Qualche settimana dopo mi sono iniettata della candeggina per errore, dimentica di aver riempito di candeggina la vaschetta che solitamente tenevo piena d’acqua per pulire le siringhe. Il telefono era morto e mi avevano staccato la corrente. Ho strisciato per la via finché ho trovato un negozio che mi ha lasciato caricare il telefono e chiamare il centro antiveleni. È stato allora che ho capito che se avessi continuato sarei morta da tossica dopo aver spezzato il cuore di mia madre, fatto piangere il mio patrigno, perso tutti gli amici, e impegnato tutte le chitarre di mio padre. Mentre impegnavo l’ultima delle chitarre che mi aveva lasciato, mi sono chinata a sentire l’odore dell’interno della fodera rivestita di velluto rosso, e il coperchio mi è caduto sulla testa. Una bella punizione del fantasma di mio padre.
Comunque sono andata avanti, miserabile nei panni della sconosciuta a me stessa che era diventata. Una volta ero circondata da persone che mi amavano e si preoccupavano di me, che ammiravo, e ora ero circondata dal peggio dei tossici di Los Angeles. Non vedevo la mia famiglia, né la sentivo, da quella che mi pareva una vita. Mi mancava mia mamma, ero piena di rimorsi. Poco dopo un Natale passato con un occhio nero e in astinenza, ho controllato la mail. Era quasi un anno che non controllavo la mia casella inbox, e quando l’ho aperta ci ho trovato messaggi su messaggi della mia povera madre, “Non smetterò mai di sperare che tu torni;” “Per favore torna da noi;” “Ti voglio bene e mi manchi.” Io pensavo che non mi avrebbero più voluto… che stessero meglio senza di me. Sono scoppiata a piangere e l’ho chiamata perché mi venisse a prendere e mi portasse in rehab.
Lì, la mia consulente mi ha detto di scrivere una lettera d’addio all’eroina, spiegandomi che perdere una droga da cui si è dipendenti è come perdere una persona cara. Mi ha spiegato le cinque fasi del lutto, e quanto erano importanti nel mio caso. Mi ha anche fatto scrivere una lettera a mio padre. Per la prima volta stavo processando alcune questioni irrisolte che mi avevano perseguitato—le complicazioni del mio amore per lui, e il dolore di perderlo. È stata la prima di sette permanenze in rehab. Sette fallimenti e ricadute, ma anche sette esercizi di tenacia e perseveranza.
Il compianto Anthony Bourdain disse della sua riabilitazione, “Sono una persona vanitosa e non mi piaceva quello che vedevo nello specchio.” Quella frase mi è rimasta in testa perché un tempo ero una donna bella, intelligente, sveglia, sempre con la battuta pronta, e avevo anche una certa morale—tutta mia, ok, ma pur sempre rispettabile. Volevo essere di nuovo quella persona. Mi ci sono voluti anni per chiudere la mia storia d’amore con l’eroina, anni per smettere di pensare a quel periodo come a un periodo d’amore. Ma ho smesso, e quei giorni sono solo un ricordo e un argomento di scrittura. Quando ho imparato a investire in me stessa invece che affidarmi a qualcosa di inaffidabile come l’eroina per essere una persona piena, ho capito la lezione. Sono riuscita a sopravvivere: ci è voluto tanto ma, in retrospettiva, ho vinto.
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