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Questo ristorante in Alto Adige è il paradiso dei vini naturali

Cocun Cellar Ristorante alto adige

Circa 24.000 bottiglie, 1.900 etichette, con un ricambio annuale del 35% e soprattutto una percentuale dominante afferente al mondo del vino naturale

L’Alto Adige è il mio posto preferito in Italia. Forse nel mondo. Ogni volta che la macchina inizia a inoltrarsi tra le vallate mi sento istantaneamente bene. Non mi stupisce quindi che il ristorante più interessante in cui sia stata nel 2021 si trovi proprio lì.

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Negli ultimi anni la regione è diventata una vera e propria destinazione gastronomica: Bolzano è la seconda provincia italiana con più ristoranti stellati (un traguardo abbastanza impressionante se si pensa che è a pari merito con Roma), sia nella stagione invernale che in quella estiva vengono organizzati numerosi festival a tema, e in generale negli ultimi anni la qualità media della ristorazione si è vertiginosamente alzata — lo dimostra il numero di ottimi canederli che riesco a mangiare in una settimana di vacanza, o quanto riesca a riempire la valigia di ottimi formaggetti, comprati in una delle tante botteghe artigianali che ormai punteggiano i paesi.

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Jan Clemens. Foto per gentile concessione di Cocun.



Eppure Cocun è diverso. In un certo senso non c’entra nulla con l’enorme campagna di marketing territoriale legata al cibo e alla sostenibilità portata avanti dall’Alto Adige. In un altro senso ne è l’esempio migliore.

Il ristorante si trova all’interno dell’hotel Ciasa Salares, aperto nel 1964 dal nonno di Jan Clemens Wieser, che mi racconta come il termine ladino salares indichi quello che c’era qui prima dell’apertura: mangiatoie per cervi e caprioli. Ora invece qui sorge una struttura alberghiera di lusso in cui ho avuto la fortuna di soggiornare un weekend, invitata proprio da Jan Clemens, che mi era stato presentato da amici comuni. Lui ha iniziato a lavorare nell’hotel a 13 anni, a servire le colazioni. A 18 era già in sala in Siriola, il ristorante dell’hotel che è arrivato a conquistare due stelle Michelin, per poi chiudere con l’abbandono dello chef Matteo Metullio. Con la chiusura del ristorante lui e Christian Sainato — anche lui capo partita in cucina — hanno deciso di aprire Cocun.

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La cantina di Cocun. Foto per gentile concessione di Cocun.

Cocun in ladino vuol dire tappo. Non ci vogliono particolari doti interpretative per capire che alla base del ristorante c’è il vino, che qui non è un di più, un contorno, bensì il protagonista, le fondamenta stessa del locale. Che infatti sorge nelle cantine di Ciasa Salares. Una cantina d’hotel che ha pochi paragoni in Italia e probabilmente nel mondo: circa 24.000 bottiglie, 1900 etichette, con un ricambio annuale del 35% e soprattutto una percentuale dominante afferente al mondo del vino naturale.

Per capire da dove sia nata dobbiamo fare un passo indietro, precisamente al 1985, quando Stefans, papà di Clemens, l’ha fondata. L’interesse di Stefan per la biodinamica nasce in tempi non sospetti, quando il suo amico Josko Gravner faceva ancora “vini tecnici allopatici” e l’unico in Italia a parlarne era Stefano Bellotti. È Stefan stesso a raccontarmi come ha assistito a questo percorso di crescita e trasformazione del mondo naturale e in particolare del movimento biodinamico che lui, nonostante le recenti polemiche che hanno iniziato a nascere intorno al settore, continua a sostenere: “C’è un riscontro diretto sulla vite e sul vigneto. Le uve sono più sane e più resistenti.”

“Ormai il classico ristorante gourmet mi annoia. Non voglio andare al ristorante e pensare a quello che lo chef ha fatto, a come lui mi dà il permesso di entrare nel suo microcosmo. E non voglio nemmeno tornare a lavorarci: quando lo abbandoni la qualità della vita migliora.”

E così ha iniziato a formarsi una cantina incredibile, di cui ora si occupa Jan Clemens: “la mia passione è nata in modo naturale, mio padre non mi ha mai dato input. E tuttora è ben più punkettone e spinto di me quando si parla di vini funky.” Com’è la situazione vinicola in Alto Adige? “Dominano le cantine sociali super sovvenzionate. La qualità media è medio-alta ma standardizzata. Ma sempre più piccoli produttori escono dalle cantine, invece di conferire, creando le loro realtà artigianali. “L’Alto Adige sta diventando una destinazione per il vino naturale,” spiega Wieser. “Si beve bene ai rifugi Col Alto, Punta Trieste, Crep de Munt e Scotoni. L’hotel Steinrösl a San Cassiano, per dire, è una piccola realtà ma ha una cantina con 200 etichette di vino naturale. E si beve benissimo anche a L’Ostì a Corvara.”

A cena ci fa bere bottiglie a dir poco straordinarie. Tutte riassumibili con il suo “Che senso ha bere vini non riconducibili al territorio?”. L’esperienza a Cocun, invece, si può riassumere con una parola sola: divertente. Niente amuse bouche, servizio impettito, formalismi e schemi. Il servizio è leggiadro e allegro, ma straordinariamente competente e coinvolgente nel raccontare i piatti o consigliare un vino. Il più ‘anziano’ è lo chef: ha 28 anni. Ed è lui a spiegarmi come si sia allontanato da quella galassia fine dining in cui ha cominciato il suo percorso lavorativo: “Ormai il classico ristorante gourmet mi annoia. Non voglio andare al ristorante e pensare a quello che lo chef ha fatto, a come lui mi dà il permesso di entrare nel suo microcosmo. E non voglio nemmeno cercare di tornare a lavorarci: quando lo abbandoni la qualità della vita migliora.”

E la tanto declamata selvaggina altoatesina? “È un falso ideologico: il 98% del cervo servito in Alto Adige viene dalla Nuova Zelanda

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Il ristorante. Foto per gentile concessione di Cocun.

Nonostante loro, a differenza di buona parte dei ristoranti altoatesini, non abusino della parola sostenibilità per raccontarsi, l’attenzione al prodotto c’è. Come spiega Jan Clemens, hanno semplicemente trasportato nel cibo l’attenzione che hanno per la scelta del vino. Ogni parte di ogni vegetale viene riutilizzata. Tutto il pesce viene da un allevamento non intensivo. Niente carne di manzo o di maiale — tranne rare eccezioni di cui sanno la provenienza. E la tanto declamata selvaggina altoatesina? “È un falso ideologico: il 98% del cervo servito in Alto Adige viene dalla Nuova Zelanda.”

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Raviolo di coniglio alla Ligure, noci e bieta. Foto per gentile concessione di Cocun.
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Royale di Topinambur. Foto per gentile concessione di Cocun.

I piatti seguono un ritmo tutto loro. Si passa da un delicatissimo Salmerino, ravanello, finocchio e arancia a un lussurioso Royale di topinambur con cardoncello, ristretto vegetale, nocciole, tartufo nero e prezzemolo. Il Raviolo di coniglio alla Ligure, noci e bieta richiama la regione d’origine dello chef, mentre il Petto di germano reale, cavolfiore e salsa Mole non richiama a niente in particolare, non si fregia di nessun attestato di tipicità o tradizione, ma è buono davvero.

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I tavoli di Cocun. Foto per gentile concessione di Cocun Cellar Restaurant.

La vera peculiarità di Cocun — se escludiamo lo staff giovanissimo e il fatto di sorgere in un dedalo di pareti stracolme di bottiglie di vino — arriva dopo i dessert: una stanza dei formaggi e una stanza del cioccolato. Sì, avete letto bene, esatto. Due stanzette dedicate esclusivamente a farvi alzare i trigliceridi e la glicemia. Anche queste frutto di anni di selezione di Jan Clemens.

Il menu degustazione costa 92 euro per 7 piatti, più 48 di abbinamento vini. Un assaggio di formaggi e cioccolata è compreso nel menu degustazione mentre se ordinate alla carta, beh, sta a voi non farvi prendere troppo la mano negli assaggi che scegliete.

Ad esempio ,potete trovarci una Ricotta ossolana d’Alpeggio a latte vaccino, stagionata oltre un anno dopo un’affumicatura di ginepro, che risulta in una piccola roccia di ricotta molto dura e sapida con un sapore dolce e salmastro. O l’Åkesson’s Madagascar Criollo 100% Bio: un cioccolato rarissimo prodotto nel nord-ovest del Madagascar, una produzione di sole 2 tonnellate all’anno, sorprendentemente acida e inspiegabilmente dolce.

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Montblanc. Foto per gentile concessione di Cocun.
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Una selezione di formaggi. Foto per gentile concessione di Cocun.

Ma la cena non è ancora finita. “Avete voglia di bere ancora qualcosa?,” sorride sornione Wieser, aprendo una porticina in una parete della stanza del cioccolato. Ed ecco che davanti a noi appare una parete illuminata dove le scaffalature di superalcolici — circa 120, ci spiega — vanno fino al soffitto. È la stanza dei superalcolici che “non faccio vedere ai clienti se sono troppo ciucchi”. Quale sarà il prossimo passo nella sua ricerca del prodotto, chiedo scherzando. Ma lui mi risponde serissimo: il tè. Vorrebbe una carta del tè, un momento del tè. E non dubito ce la farà e renderà anche quello divertente.

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