Nadia Toffa, nota ai più come inviata delle Iene, ha appena pubblicato un libro in cui racconta la propria esperienza di paziente oncologica. Nel comprensibile entusiasmo per l’essere in remissione si è spinta a definire il cancro “un dono”, attirandosi le altrettanto comprensibili critiche di una marea di malati e dei loro amici e familiari. Si poteva pensare a un’esagerazione non voluta, se non fosse che poi la Toffa si è impantanata in una serie di discussioni su Twitter dalle quali abbiamo appreso anche che “ogni tumore è uguale” e che a fare la differenza sarebbe soprattutto l’atteggiamento del paziente.
Ora, quello del positive thinking di fronte alle difficoltà è un concetto interessante, sicuramente valido in certi ambiti e che in medicina, per quanto ancora poco studiato, potrebbe avere una sua applicazione (funzionerebbe grosso modo come l’effetto placebo). Il problema è che non ha affatto, né avrà mai, l’importanza quasi fondamentale che sembrano attribuirgli Nadia Toffa e vari altri guru del “I limiti esistono soltanto nella tua mente.”
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Innanzitutto, e per ribadire l’ovvio, i tumori non sono tutti uguali. La probabilità di ammalarsi e i tassi di mortalità e recidiva sono influenzati dall’età, dallo stato di salute generale del/la paziente, dalla genetica, da fattori ambientali, dalla localizzazione delle cellule maligne e dalla tempestività della diagnosi: per fare un esempio, negli Stati Uniti il tasso di remissione a cinque anni dalla diagnosi è del 98,6 percento per il cancro alla prostata e del 46,5 percento per quello alle ovaie. E tra i fattori ambientali ce n’è uno praticamente fondamentale: la geografia.
Dove nasciamo e viviamo contribuisce a determinare due aspetti molto importanti per la nostra salute: primo, l’esposizione a fattori di rischio (crescere a Korogocho è indubbiamente un po’ diverso che passare l’infanzia in una fattoria delle Ardenne con le mucche felici); secondo, l’accesso alle cure. In Italia la situazione da questo punto di vista non è particolarmente rosea, con disparità piuttosto significative da regione a regione e che, nel caso specifico del cancro, sono talmente gravi da far parlare di un “abisso” tra Nord e Sud.
Trascurare l’importanza di questo fattore per concentrarsi sull’atteggiamento mentale non vuol dire solo peccare di ingenuità (o, per chi fa il mestiere della Toffa, impreparazione): significa anche addossare al/la paziente la responsabilità ulteriore di risolvere una situazione che rimane in gran parte fuori dal suo controllo. E questo peso, a sua volta, potrebbe peggiorare le cose. Il meccanismo può essere spiegato con una ricerca di tre anni fa: una meta-analisi di diversi studi sull’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT nell’acronimo inglese) nel trattamento della depressione, che riscontrò come nel lungo periodo i suoi effetti positivi diminuissero sempre di più, mentre la vecchia psicanalisi si dimostrava più efficace nel prevenire ricadute. La spiegazione, semplificando, starebbe nel fatto che la CBT si concentra sul rendere gestibili quelle emozioni “negative” che interferiscono con una vita normale, senza interrogarsi a fondo sulle loro cause remote: secondo i suoi detrattori, questo equivale a curare i sintomi senza preoccuparsi della patologia e rischia di colpevolizzare quei pazienti per i quali la terapia dovesse rivelarsi inefficace, e che invece di trarne la conclusione di dover provare un altro approccio tenderanno ad addossarsi la responsabilità del fallimento.
Assodato che l’uscita di Nadia Toffa è stata piuttosto infelice, confesso di avere qualche dubbio anche su alcune delle risposte che ho letto. Perché se definire “dono” il cancro mi pare fuori luogo, non credo abbia molto senso nemmeno tanta di quella retorica che nell’istante stesso della diagnosi riduce la persona alla sua malattia e ne fa un oggetto di compassione obbligata, o peggio ancora un termine di paragone (“Quanto sei forte, ti ammiro moltissimo! Se penso che io con 37,5° mi butto a letto!”).
I tumori non sono tutti uguali, e non lo sono nemmeno le persone. “I malati” non sono un’entità omogenea e indistinta definita unicamente dalla patologia che hanno in comune, e quando si parla di dignità del paziente credo sia importante ricordarsi anche questo. “Dignità” non è solo essere trattati con rispetto e competenza durante la chemio, al momento di un intervento, quando vengono comunicati i risultati degli esami; dignità è anche e soprattutto poter contare sul fatto che la nostra personalità e tutto quello che ci rende noi stessi non vengano cancellati agli occhi degli altri dalla malattia. Perché sui limiti della nostra mente potremo anche lavorarci, ma è quando sono nelle teste altrui che diventa difficile.
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