Il girone dei bambini

Questo articolo è stato pubblicato sul nuovo numero di VICE Magazine.

Due ragazzi africani se ne stanno per terra piegati in due. Tremano e sono completamente bianchi, ricoperti di calcinacci. Sotto lo strato di detriti, la loro pelle si confonde con i vestiti bruciati che gli sono rimasti addosso mentre la bombola di gas esplodeva, riempiendo la stanza di fiamme.

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“Ho freddo… Ho freddo… Ho freddo…” Uno dei due continua a ripetere queste parole mentre il sangue gli imperla mani e piedi. Qualcuno dopo cinque lunghi minuti gli porta un lenzuolo bianco dentro al quale si avvolge ancora tremante. Qualcun altro da lontano urla a voce altissima, in pigiama grigio e ciabatte, fumando nervosamente una Diana. Intorno c’è un fortissimo odore di carne bruciata.

“Io lo so che è colpa loro, lo sapevo che sono gente malamente. Io non ho più una casa, la casa mia è distrutta per colpa loro: lo volete capire o no?” Una bombola è appena scoppiata nel rione Forcella, a Napoli, facendo crollare il piano di un vecchio palazzo e provocando due morti. Uno di questi è ancora in casa, sotto le macerie. L’altro – uno dei due ragazzi lì per strada – morirà qualche giorno dopo.

I pompieri già sul posto vengono raggiunti dai primi agenti di polizia. Ne arrivano a decine poco dopo, seguiti dai militari dell’esercito. In una manciata di minuti vico Vicaria viene raggiunta da sessanta, settanta persone dalle varie divise, costrette a creare un cordone per impedire che la strada si riempia di curiosi, e per evitate che alcuni inquilini del palazzo continuino a inveire contro gli africani.

È difficile capire dove ci si trovi, anche per chi è del posto. “Non so cosa cazzo è successo, non so dove cazzo siamo, qui non si capisce niente,” urlava preoccupato il primo agente di zona nelle radio della polizia pochi minuti prima, cercando un aiuto che non sapeva neanche lui come chiedere. “Non riesco a capire dove siamo, qui c’è l’inferno.”

Ambulanza e paramedici fanno fatica a farsi largo fra i varchi creati dalle palazzine. L’area di fronte al portone ospita i primi dibattiti di quartiere e i fotografi svegliati dalla notizia, unendosi a una massa casuale di persone. È quasi mezzanotte, però, quando la folla si muove tutta verso piazza Enrico De Nicola, correndo come attirata o in fuga da qualcosa. In pochi istanti vengono inseguiti dai primi agenti di polizia, che poi si dirigono praticamente in massa nella stessa direzione assieme ai militari. Il brusio delle voci, che dall’arrivo dell’ambulanza in poi si era placato quasi rispettosamente, torna a montare — prima curioso, poi preoccupato. Poi in preda al panico.

Un poliziotto rimasto davanti alla palazzina colpita dall’incidente urla in direzione della folla in corsa. “Guaglio’ ma dove cazzo andate, qualcuno deve restare qui, non rimane più nessuno…”: la gente è ormai tutta in piazza, confusa. Gli agenti di polizia si muovono in ogni direzione come atomi impazziti visti da un microscopio. “Si diceva fossero arrivati dei ragazzini armati a bordo di motorini, girava questa voce,” mi spiega uno di loro, che quella notte pattuglia la zona dalle 7 alle 12. “Però non era vero.”

***

Da qualche mese a questa parte, giornali e tv hanno cominciato a parlare del fenomeno della criminalità minorile napoletana con le definizioni più diverse, spesso caratterizzate dall’utilizzo – probabilmente improprio – dal prefisso baby — “baby-gang”, “baby-boss”, “baby-camorristi”. Sono espressioni che hanno alimentato una giustificabile forma di psicosi, e che rischiano di confondere chi comanda davvero malgrado l’età, con chi delinque con aspirazioni camorristiche ma senza averne la forza.

A ogni nuova relazione al Parlamento della Direzione Nazionale Antimafia, da due o tre anni, questo paesaggio prende forme sempre più nitide e preoccupanti. Nell’ultima del 2016, riferita al biennio precedente, “la situazione di elevato pericolo per l’ordine pubblico” del territorio napoletano viene definita “ancor più grave” proprio a causa delle nuove leve criminali. A farla da protagonista, “killer giovanissimi che si caratterizzano per la particolare ferocia che esprimono agendo al di fuori di ogni regola,” a volte usati come carne da cannone, e “quadri dirigenti che fino a pochi anni fa non erano in prima linea,” e che “scontano inevitabilmente una non ancora compiuta formazione strategica.”

Le cronache di Napoli hanno così cominciato a riempirsi di materiale quasi del tutto inedito: nuovi protagonisti della scena criminale, morti casuali, numeri da conflitto “a bassa intensità“, metodi da signori della guerra, personaggi quasi mitologici. I fratelli Sibillo, in questo senso, sono gli esemplari più rappresentativi della specie: carismatici boss della zona di Forcella, uno è stato arrestato a 24 anni, l’altro ucciso a 19 e oggetto di videotributi su YouTube, busti e cappelle votive costruite spontaneamente. In pochi mesi, tra raid e violenze contro i gruppi concorrenti, avevano già messo le mani sullo spaccio del rione, mettendo in piedi il cartello noto col nome di “paranza dei bambini”.

Sono tutti gruppi di giovanissimi, che avrebbero sfruttato il vuoto di potere che si è aperto dopo arresti e pentimenti di diversi boss, per riposizionarsi sulla mappa criminale della città. Si muovono principalmente su due direttrici: quella economica, monopolizzando l’offerta di un particolare servizio lo spaccio, per esempio. E quella militare, con un controllo del territorio violento e muscolare, fatto di dimostrazioni di forza spesso casuali, che provocano una forte “fibrillazione criminale (…) sia nelle periferie urbane che nel cuore cittadino (…), nel quartiere Sanità e dei Quartieri Spagnoli e Forcella” — continua la relazione.

Il 22 aprile 2016, due killer hanno compiuto un agguato nel quale sono stati uccisi Giuseppe Vastarella e Salvatore Vigna, entrambi appartenenti al clan Vastarella. Durante il raid, a pochi passi di distanza, tre bambini si erano messi in fila per comprare una granita. Sono rimasti illesi. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Arrivo a Napoli conscio del fatto che non posso avere neanche la più lontana presunzione di capire la città — molti dei napoletani che conosco mi hanno sempre detto che anche loro sanno bene che non ci riusciranno mai, probabilmente. Neanche il mio essere calabrese, e figlio minore dell’egemonia campana sul Sud, potrebbe mai bastare. Sono sufficienti poche ore in città per rendermi conto, però, di quanto il fenomeno sia tangibile: attorno alle 15.30 dell’11 maggio mi trovo sul ciglio di uno stradone nei pressi dell’ospedale San Paolo di Soccavo, nel quadrante occidentale della città. Sul marciapiede, un paio di agenti stanno scrutando un’auto nera, perforata da numerosi colpi di proiettile.

Pochi minuti prima, il pregiudicato Stefano Adamo aveva cercato di farsi largo nel traffico dell’incrocio con via Adriano, dove era stato raggiunto da uno scooter con a bordo due killer, e poi da diverse pallottole. Si fermerà sulla sua Citroën a pochi metri dal pronto soccorso. Davanti alla caserma “Pastrengo” dei Carabinieri, non più di due ore dopo, si stanno assiepando giornalisti, fotografi e parenti di Umberto Accurso, capoclan di 23 anni già nell’elenco dei latitanti più ricercati in Italia, il cui nome è finito di recente nell’indagine che sta cercando di far luce sul presunto coinvolgimento della camorra nell’inchiesta sulle partite di Serie B truccate. Il “baby-boss”, a carico del quale il giorno dell’arresto c’erano quattro ordinanze di custodia cautelare, verrà accompagnato dai carabinieri fuori dalla struttura attorno alle diciotto, e condotto nella macchina che lo porterà in carcere. Pochi giorni prima, stando alle accuse che gli vengono mosse al momento in cui scrivo, avrebbe ordinato di aprire il fuoco sulla caserma dei carabinieri di Secondigliano — un gesto sul quale l’Arma non ha evidentemente voluto soprassedere con troppa indolenza.

Una donna sulla cinquantina saluta il giovane in preda alla disperazione: la bocca le si apre innaturalmente, come se in volto avesse una di quelle maschere che fanno da simbolo alle tragedie teatrali. Vicino a lei, un ragazzino abbronzato gli urla “amore mio, amore mi’…” e piange, filmando la scena dell’arresto con uno smartphone. Secondo Il Mattino, nei mesi precedenti all’arresto, Accurso avrebbe composto una canzone dedicata a suo figlio per l’artista neomelodico Anthony. Il brano si intitolava ‘A libertà: “Tu non lo sai che si prova a stare lontano dalla famiglia, con una moglie e un figlio che non posso mai abbracciare.”

Mentre aspettiamo l’uscita di Umberto Accurso, un gruppo di turisti incappellati passa davanti la caserma seguendo una guida che sventola lentamente una bandierina gialla. Si girano a destra superando l’ingresso affollato della “Pastrengo”, cercando di capire cosa stia succedendo. Una donna con due “G” in oro rovesciate sulla cintura si stacca dal gruppo dei parenti del giovane boss e li segue, dirigendosi verso quello dei giornalisti dall’altra parte del cancello. “Dovete scrivere la verità, la verità: capito? La-ve-ri-tà” urla, mentre penso sia rimasta una delle poche persone in Italia a considerare ancora rilevante quello che i giornali rendono pubblico.

L’arresto di Umberto Accurso, affiliato al clan della Vanella Grassi, mandante dell’assalto alla caserma di Secondigliano. I parenti fuori dalla caserma Pastrengo. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Quella della “verità” su tv e quotidiani è un’ossessione, per questa ‘parte’ di città. Pochi giorni prima, Walter Mallo, giovane boss di un gruppo emergente del rione Don Guanella – nella periferia Nord – aveva intimato ai giornalisti presenti il giorno del suo arresto di “Scrivere la verità sui giornali,” mentre veniva accompagnato dentro una Punto dei carabinieri. Anche lui giovanissimo, con una lacrima nera tatuata sotto l’occhio sinistro, a suo carico – al momento in cui scrivo – è stata eseguita un’ordinanza di custodia cautelare per associazione di tipo mafioso e di detenzione e porto illegale di armi, aggravate dall’aver agito per finalità mafiose. Era noto per aver minacciato su Facebook, pubblicamente, le gang rivali: “Signori e signore, presto assisteremo al terzo pentimento del disonore,” “Cattiverie fatte da infami inutili e calugne scritte da giornali falliti.”

Stando alle indagini, la strategia dei Mallo sarebbe stata piuttosto univoca: il nucleo dell’azione del clan era scoppiare decine di colpi nella zona settentrionale della città – nella quale era stato confinato dopo l’uccisione del boss Pietro Esposito – per intestarsene la proprietà e spingere via la presenza delle gang rivali. L’obiettivo era tornare a comandare a casa sua, dalla quale a fine 2015 era stato scacciato: il rione Sanità.

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Arrivo alla Sanità che il quartiere è ancora scosso dagli ultimi casi di cronaca e dalle ultime intercettazioni pubblicate dai giornali. Tutti quelli con cui parlo sanno di queste registrazioni, nelle quali delle donne di camorra, attive nella faida del quartiere, parlano in piena libertà di famiglie e bambini da uccidere e conti da regolare. “Mo’ prendo le bombe e gli uccido le creature … Mo’ dobbiamo sterminare tutta la famiglia .. Mo’ e schiattamm ‘a cap’ pur a loro … mo e pigliamm a tutti quanti… uomini, creature… femmine.” “È meglio che si tengano anche le creature di quattro cinque anni sopra perché glieli uccido… pure le creature se le devono tenere sopra, devono scappare all’estero…” Parlano di un “perno principale” che “non abbiamo preso”: si riferiscono a Antonio Vastarella – figlio del boss della famiglia che da decenni controlla le attività illecite nel quartiere – scampato al famigerato ‘raid alle Fontanelle’, sempre in zona Sanità.

Pochi giorni prima del mio arrivo, infatti, Giuseppe Vastarella e Raffaele Vigna erano stati raggiunti nel Circolo Maria SS. Dell’Arco, a pochi metri da un baracchino ambulante attorno al quale dei bambini si erano messi in fila per comprare delle granite, a qualche minuto da dove raccolgo le prime voci. È impossibile vivere nel quartiere e non sapere cos’è successo quella sera — tanto più per il fatto che azioni del genere ormai vengono organizzate persino attorno alle 8 di sera. Anche i militari che stanno in piazzetta San Vincenzo, 24 ore su 24, sanno che il commando in moto – molto più probabilmente un killer e un palo – è passato con buona probabilità proprio davanti ai loro nasi, senza che loro sapessero o potessero fare nulla. È anche per questo che non si può cercare di capire le ragioni, gli effetti e i metodi della ‘nuova’ criminalità locale, se non partendo da questo rione. Ma non solo.

Una donna sulla cinquantina saluta il giovane arrestato in preda alla disperazione: la bocca le si apre innaturalmente, come se in volto avesse una di quelle maschere che fanno da simbolo alle tragedie teatrali. Vicino a lei, un ragazzino abbronzato gli urla “amore mio, amore mi’…” e piange, filmando la scena dell’arresto con uno smartphone.

Salvatore, il fotografo che mi accompagna in città, mi aveva avvertito del clima in zona ben prima del mio arrivo. “Il quartiere è teso. Nessuno vuole parlare.” Qualche giorno prima, la trasmissione di Italia Uno Le Iene aveva mandato il loro reporter Giulio Golia a Napoli, per raccontarne le strade e la recente escalation di violenze. Il servizio ha destato molte critiche, soprattutto per la comparsa in video di quattro ragazzi incappucciati, presentati come “baby-boss”, che raccontavano delle loro “tarantelle” fra una minaccia e uno sguardo fisso in camera, incorniciato dai buchi nel cappuccio.

“Sarà dura, la fiducia dovremmo conquistarcela sul campo,” mi spiega mostrandomi lo schermo illuminato del suo telefono: in una conversazione su WhatsApp, qualcuno gli ha appena scritto che i ragazzi che volevamo incontrare “non se la sentono. Hanno paura di passare come gli infami che parlano coi giornalisti. A uno, sei anni fa, gli hanno sparato nella gamba. Perdonami, ho fatto il possibile.”

Di sera, ci muoviamo a bordo di una Vespa nella città vuota, finalmente libera dal proverbiale traffico del centro storico. ‘Qui hanno ucciso questo, qui quest’altro, quello è il posto dell’agguato di qualche mese fa, questo è quello dove a Capodanno è successo quest’altra cosa’: Salvatore mi indica gli scorci salienti della recente cronaca nera napoletana, in un macabro tour tra Forcella, i Quartieri e la Sanità, mentre i luoghi che fanno da sfondo ai servizi del tg prendono effettivamente forma, e il “San Gennaro” di Forcella, fra tutte, è la scenografia più maestosa.

Una veduta del Rione Sanità. Pur trovandosi nel cuore della città di Napoli, il quartiere è stato costruito in una depressione e ha poche vie di fuga, che la rendono una sorta di città nella città. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Del rione Sanità si ha traccia sin dal XVI secolo. Dalla stazione centrale, in moto, sono poco più di dieci minuti. Le sue pietre custodiscono catacombe antichissime e un cimitero allestito per ospitare i morti di peste della metà del Seicento. Dal ponte Cerasuolo si accede in ascensore, ed è uno dei pochi quartieri di Napoli – se non l’unico – ad essere in egual misura centrale ma allo stesso tempo isolato: non c’è nessuna via per uscirne se non a ritroso, devi venirci di proposito, ed è circondato da colline sulle quali si arrampicano file di palazzine a due piani. Non ci sono asilo nido comunali, mi spiegano: c’è un complesso di scuole elementari, una scuola media con tre classi, e un unico istituto superiore che non ha raggiunto i cinquecento studenti, che è il secondo istituto in Italia per dispersione scolastica ed è stato accorpato a un altro liceo. Ad oggi, il quartiere è abitato da decine di migliaia di abitanti, con un tasso di disoccupazione del 40 percento circa e punte che – secondo l’ONLUS “L’altra Napoli” – si attesterebbero sopra il 60 percento tra i giovani.

Di giorno molta di questa gente sembra abitare da un’altra parte. La luce bianca del sole immobilizza la piazza, attraversata da motorini, madri e figli. Attorno alle sette, la Sanità diventa un’altra cosa, diventando un posto caoticamente popolato da decine di ragazzi che si muovono in scooter – anche in tre, in quattro -, bambine in camicioni rossi e Adidas ai piedi che mangiano un gelato e flirtano coi ragazzi più grandi, ragazzi più grandi che si muovono ostentando t-shirt e tagli di capelli freschi. I bambini davanti alla parrocchia organizzano interminabili partite a calcio, evitando le gambe dei militari che picchettano la piazza e che scherzano con loro provando a dribblarli.

Un bambino ci vede fargli delle foto, si mette in posa plastica imitando i gesti di un calciatore famoso, prima di calciare una palombella che finisce in un mischione nell’area di rigore, assiepato di fronte a una porta di fortuna. I pali sono due fioriere comunali, la traversa è uno striscione di meno di due metri di larghezza appeso sul muro della chiesa grigia. “Genny vive”.

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“Genny,” Gennaro Cesarano, 17 anni, era uno degli abitanti di questa città della sera. È durante una di queste che viene raggiunto dalle pallottole di una “stesa”, il 6 settembre. Non è lui l’oggetto della dimostrazione di forza, ma morirà praticamente sul colpo. La storia del quartiere, le dinamiche criminali e anti-criminali, da quel giorno cominceranno a ruotare attorno all’ulivo che spunta tra i sanpietrini attorno la chiesa, piantato dalla comunità di fianco a una lapide in suo ricordo, e che a breve ospiterà anche una statua. È anche e soprattutto per questo che bisogna partite dalla Sanità per cercare di capire il resto.

“Ero qui in casa, quella sera. Quando ho sentito gli spari ho creduto fossero dei fuochi d’artificio, talmente erano forti,” mi spiega padre Alex Zanotelli, frate Comboniano della Val di Non che ha scelto il rione come meta della sua opera come missionario. “Tornato dall’Africa, ho deciso di trasferirmi a Napoli perché mi sembrava più giusto andare a vivere al Sud Italia, perché è il Mezzogiorno che paga per lo sviluppo del nord,” mi dice mentre mi fa strada nel suo minuscolo appartamento che si arrampica dietro la chiesa attorno a una scala a chiocciola, ricoperto da foto di bambini africani e bandiere della pace.

“Insomma, il mattino dopo esco e mi dicono ‘Guarda, hanno ammazzato quel ragazzino’. Sono andato dal parroco e gli ho detto ‘Vieni su in piazza, perché hanno ammazzato Genny’. Rispose che non se la sentiva di celebrare la messa alle 9, con il sangue fresco di un ragazzino sulle nostre scale.” Il giorno del funerale, l’11 settembre, la bara bianca di Gennaro si muove in mezzo a una folla che le autorità hanno voluto si riunisse alle sette di mattina per il rischio di rappresaglie.

“Quando hanno saputo che volevamo dire messa in piazza, la polizia ci ha perseguitato tutto il mattino dicendoci che non potevamo farlo.”

“Perché?”

“È quello che ho chiesto anche io… Ho preso il capo della polizia e gli ho detto ‘Adesso voglio sapere perché il Questore non vuole’. Mi è stato risposto ‘Alex, il Questore ha paura che se voi celebrate messa, la gente della Sanità poi scende in piazza’.”

La gente, alla fine, scenderà effettivamente per strada: l’8 settembre, due giorni dopo la morte del 17enne, 11mila persone affollano la piazza della Sanità, per la prima volta nel rione, dietro il cartello “No alla camorra”.

“Quel giorno c’era una buona parte di giovanotti schierati lì dove volevamo piantare l’ulivo, e che non si volevano muovere. Più tardi mi è stato riferito che i caporione avevano detto alla gente ‘O state con noi, o state con quelli là’. Alla fine in tanti si sono tirati indietro.”

***

La morte incomprensibile di Gennaro Cesarano è l’episodio più emblematico di questo nuovo filone di violenze, più cruenti e più gratuite. Le espressioni che si sprecano da mesi per definire questa situazione, per la violenza di queste bande, fanno spesso fondo a riferimenti pescati dall’universo del terrorismo di matrice islamica: vengono paragonati alternativamente allo Stato islamico, ai talebani, ai jihadisti in genere. “Qui è persino peggio dell’Isis, abbiamo avuto più morti di Bruxelles e Parigi,” azzardava padre Berselli, parroco di Forcella, interrogato dai media. “I terroristi colpiscono una volta ogni tanto, qui invece avviene ogni giorno.” Per parlare di guerre fra bande, si ricorre spesso all’uso del termine “pulizia etnica.”

“Il quartiere è cambiato, ed è cambiato anche tanto,” specifica padre Alex. “Una delle cose illegali che si faceva prima era lo spaccio delle sigarette. È saltato, ed è subentrato lo spaccio della droga — tieni presente che Napoli in questi ultimi anni è diventata la più grande piazza di spaccio d’Europa. Allora cos’è successo: man mano che si è passati alla droga, e i boss storici sono finiti in prigione, lentamente questo smercio è finito sempre di più nelle mani di questi giovani, dai 20 ai 30 anni, che arrivano in cinque minuti con le pistole e quasi ogni giorno sparano,” mi dice mentre pensa a cosa inserire nell’ennesima lettera scritta a mano che manderà a Roma, guardando verso la finestrella che dà sulla piazza.

Padre Alex Zanotelli è volontario nel sociale nel Rione Sanità. Nel settembre del 2015 ha celebrato i funerali di Genny, il ragazzo rimasto ucciso durante una “stesa”. (Salvatore Esposito/Contrasto)

“Forse una volta, quando ci stava Beppe Misso, si viveva tranquilli. Non si spacciava eroina, non si toccavano i bambini,” mi spiega V. tra un vecchio che gli chiede due pacchetti di Marlboro e una donna che cerca delle King’s rosse.

Se piazzetta San Vincenzo avesse bisogno di un file di backup, bisognerebbe estrarre il file zip dalla testa di V. È nato praticamente sulla pietre lucide della piazza, dove ha sempre lavorato e vissuto. “Figurati che nonna vendeva le sigarette, mamma vendeva le sigarette, e adesso io vendo le sigarette. Diciamo che è una storia lunga, di famiglia…”

I motorini ci passano di fianco. Con una certa regolarità, degli anziani bussano alla porta chiusa di un Patronato ACLI o qualcosa di simile, per capire se è giorno di apertura. Un bambino con la maglia della Juventus percorre deciso tutta la piazza, fino alla pizzeria. Sopporta gli sfottò degli altri – tutti tifosi del Napoli – senza tradire sofferenza, e penso che vorrei avere il carisma di un bambino della piazza della Sanità con addosso la maglia di Dybala, per tutta la vita.

Se ti vede scattare una foto, V. si avvicina subito per regalarti delle cartoline coi disegni fatti sui palazzi lì attorno da un writer argentino. “Ci riesco a campare, con questo lavoro. Con tutte le mie forze, nel bene e nel male.” Piccoli peli appuntiti gli bucano le guance magre: è ossuto, e si muove sicuro da una sponda e l’altra della piazza come uno scheletro che si prepara un toast nella sua cucina. “Le tarantelle le ho fatte anche io, stavo tutto il giorno per strada a fare cose brutte. Facevo del male alle persone.”

“Cosa facevi?”

“Eh, Rubavo. Rubavo i telefonini, poi andavo a Scampia a comprare il crack. Se ne avevo dieci pezzi, ne fumavo uno e stavo lì a guardare gli altri nove pensando ‘Ne ho altri nove… Ne ho altri nove…’ Poi ho smesso, perché adesso ho tre bambini, ma per anni ho visto ragazzi in fila a Scampia, anche quaranta o cinquanta, trattati come bestie mentre aspettavano il loro turno per prendere il crack. Ci provo per me, ma qua non cambierà mai niente, ci vorranno decenni. Quella è la radice: anche se togli le foglie all’albero, quelle ricrescono.”

La polizia controlla un’auto nel quartiere Miano, coinvolto in una guerra di camorra con la Sanità per il dominio del territorio. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Un uomo esce dal circolo elettorale di zona di uno dei candidati a sindaco, con in spalla un rotolo di manifesti elettorali ancora nuovi. Percorre tutta la piazza in diagonale, supera i tre militari disposti a triangolo, raggiunge il cassonetto e li butta dentro, coprendoli con dei cartoni. Lo farà più o meno altre dieci volte. “Lo vedi quello? Ogni giorno fa ‘sta giostra: ogni rotolo sono centinaia di euro.”

V. non è l’unico a spiegarmi che qualche anno fa, con le vecchie reggenze, le acque erano decisamente – e paradossalmente – più calme. “Ora ci sono clan e situazioni diverse da vicolo a vicolo, nello stesso quartiere. Ogni vicolo ha la sua gang: se mi rubano il motorino, come è successo, me lo fanno ritrovare cinquanta metri più sotto, e mi chiedono mille euro per ridarmelo. Certe volte mi dicono ‘L’hai visto ieri Gomorra alla televisione? Io rispondo sempre ‘E che me ne faccio: io Gomorra ce l’ho qui in diretta, notte e giorno’.”

***

“Robe da matti,” borbotta il dirigente di polizia che ci accompagna per un giro di pattugliamento notturno nel rione, mentre gli dico che esistono almeno due video di rapper francesi girati a Napoli, davanti alle Vele di Scampia, che richiamano dichiaratamente l’immaginario di Gomorra — la cui prima puntata della nuova stagione è andata in onda proprio la sera prima, diventando principale argomento di dibattito cittadino.

“J’suis plus Savastano que Ciro”. I PNL, per esempio, sono due fratelli di Parigi, e sono tra i principali esponenti della scena trap francese. Hanno appena vinto un disco d’oro con il loro ultimo album, il loro videoclip più celebre – “Le monde ou rien“, 40 milioni di visualizzazioni al momento – è stato registrato davanti alle Vele, e utilizzano spesso i nomi dei protagonisti della serie come fossero simboli universali. “Se dovessimo stabilire il podio delle serie tv con più citazioni nel rap,” spiega Genono di Noisey France su Mouv, “dopo ‘The Wire’ e ‘Game of Thrones’ ci sarebbe di sicuro ‘Gomorra’.” La prossimità geografica, le similitudini con le banlieue francesi e la forza della trama, avrebbero “attirato giovani e meno (soprattutto i primi),” secondo l’autore, e “contemporaneamente, nel piccolo mondo del rap attirato dall’atmosfera del posto,” avrebbero poi “cominciato a infilare frasi e nomi della serie nelle loro canzoni.”

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“Nella mia testa c’è Gomorra,” “Un commando per liberare don Pietro,” “Figli di donna Imma,” “Gestire il business come un Savastano”. SCH, MZ, Ixco, Sadek, Melan, Jule, sono autori che si dividono fra Marsiglia e Parigi, e che si rifanno esplicitamente – idealizzandolo con frasi di questo tipo – al nuovo immaginario criminale dei ragazzi delle “paranze” — che già di per sé, in un certo senso, trova molte assonanze con questa scena: lo spaccio, i soldi, gli abiti firmati, la lotta del singolo – e dei pochi fedeli che ha attorno – per l’auto-affermazione attraverso ogni mezzo.

Uno dei più recenti trend giornalistici, per esempio, è la gallery online con gli status e le foto che i “piccoli boss” (cit.) postano su Facebook, condite di analisi sociologiche che cercano di abbozzare il perché di dimostrazioni plateali di questo genere: l’esaltazione della pistola, l’odio per le forze dell’ordine, l’ostentazione del lusso, le celebrazioni per il “leoni che escono dalla gabbia” — intendendo i compagni carcerati. I riferimenti a Gomorra, sia da parte dei giornali che dei ragazzi, ovviamente si sprecano.

Un ragazzo della comunità Jonathan condannato per estorsione (Salvatore Esposito/Contrasto)

Sin dalla sua uscita, la serie di Sky è stata al centro di un forte dibattito diffuso — a pensarci bene, uno dei pochi che negli ultimi anni mettesse al proprio centro un prodotto culturale italiano e i suoi riflessi sulla popolazione. L’accusa mossa da molti era quella di condizionare le nuove generazioni ed estetizzare la criminalità, rendendola in qualche modo accettabile, persino “positiva”, e di appiattire la rappresentazione della vita napoletana alla sola dinamica criminale — “Non lasciamo che il racconto di questa terra sia solo il set di Gomorra,” ha persino commentato il presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Basta scorrere le cronache nazionali e locali per incappare in titoli come “Armati di pistole, imitano Gomorra,” “Strage nel napoletano, commando di giovani stile Gomorra,” “Ecco l’esercito dei baby-killer, trionfa l’effetto pulp di Gomorra.” Ma se i media si sono placidamente appiattiti sullo stereotipo dell’emulazione – facile da postulare a livello giornalistico, ancor più facile da vendere su Facebook e nelle edicole -, la realtà, dall’altra parte, spesso non si è sforzata granché per rendere più difficoltosa questa lettura. A maggio, per esempio, una giovane trans di 22 anni del napoletano sarebbe stata circondata, insultata, ricoperta di sputi e poi accoltellata da ragazzi del centro storico napoletano. “Ripetevano le frasi di Gomorra,” avrebbe raccontato la giovane alle forze dell’ordine. “Urlavano il nome di Salvatore Conte,” uno dei protagonisti della serie.

“Il vuoto di potere criminale,” mi dice il Primo dirigente dell’Ufficio Prevenzione Generale della Questura di Napoli, “ha determinato l’emersione di giovani delinquenti che normalmente avrebbero fatto rapine e scippi per accreditarsi nel mondo criminale e per crescere nella gerarchia della malavita. Invece, improvvisamente, si sono trovati a gestire affari di camorra piu? grandi di loro e della loro esperienza.”

“A me per esempio piace, proprio come serie tv,” mi spiega l’agente di pattuglia, mentre raggiungiamo via Foria e ci fermiamo all’altezza di piazza Cavour, verso il primo posto di controllo che sorveglia gli accessi notturni nel rione. “Il problema è che ha avuto effetti deleteri sui ragazzi, secondo me: ha stimolato malati di mente, mezze calzette che cercano di emulare quelle cose.”

Senza citare esplicitamente la serie, il Primo Dirigente dell’Ufficio Prevenzione Generale della Questura di Napoli Michele Spina è sulla stessa linea quando mi spiega che – a suo parere – quelli delle nuove leve criminali locali sono “atteggiamenti spesso copiati dagli eroi negativi di alcuni film o di alcune produzioni tv, che mostrano la protervia del giovane camorrista,” con pose “molto teatrali, da camorrista cinematografico, più che da vero camorrista — perché il vero camorrista è uno che non ama mostrarsi, vuole rimanere invisibile per gestire meglio i suoi affari.”

Intervistato dalla rivista francese Les Inrocks, Anthony Teror, direttore artistico del video del rapper francese SCH “Gomorra” girato a Scampia, aveva raccontato come fossero costretti “a sgomberare il campo all’una perché lo spaccio riprendesse: gli spacciatori si lamentavano continuamente per il drone delle riprese aeree, timorosi del fatto che così facendo avremmo potuto smascherare i loro nascondigli.” Per filmare, una mattina, l’equipe ha dovuto anche pagare qualcuno del posto. “A SCH e al suo team, aprire le porte delle Vele di Scampia è costato 200 euro.”

***

Trovare parcheggio attorno alla Questura di Napoli è praticamente impossibile. L’ultima volta che ci sono stato, qualche mese prima, chi mi accompagnava ha passato la sera a rigirarsi una multa fra le mani. Di fianco alla sala operativa, dalla quale una squadra in camice bianco controlla una dozzina di schermi collegati a telecamere sparse per la città, si trova l’ufficio di Michele Spina, il dirigente dell’Ufficio Prevenzione della polizia napoletana. Dietro la sua scrivania piena di faldoni e foto ricordo delle Vele di Scampia, agita il dito sullo schermo del proprio smartphone per cercarmi un vecchio giornale di qualche decennio fa, nel quale si parla dell’emergenza “baby-gang”.

“Innanzitutto bisogna distinguere,” esordisce subito. “Una cosa, infatti, sono le baby-gang, ragazzi tendenti a comportarsi in modo criminale, che si muovono per la città spaventando le persone, spacciando e rubando quello che possono — recentemente,” spiega per esempio, “abbiamo bloccato un gruppo di minorenni tutti figli di pregiudicati che stava seminando paura nel centro commerciale di Napoli, avanzando con questo incedere guascone.”

Un altro discorso sono i baby-camorristi, che si sono trovati a giocare a un gioco probabilmente più grande di loro, a prendere il comando di gruppi già rodati, a dover conquistare porzioni di territorio e piazze di spaccio lasciate vuote. “I cosiddetti baby-camorristi sono un fenomeno emerso in ragione di fortissime operazioni di polizia che hanno disarticolato completamente i gruppi criminali della Sanità e di Forcella. Devi pensare che solo nell’arco degli ultimi sei o sette mesi – mi spiega Spina – sono stati arrestati più di 130 pregiudicati e camorristi di quelle zone,” che ha colpito seriamente – per esempio – la coalizione Amirante-Brunetti-Giuliani-Sibillo-Rinaldi.

Michele Spina, dirigente dell’Ufficio Prevenzione Generale della Polizia di Napoli. (Salvatore Esposito/Contrasto)

“Questo vuoto di potere criminale – continua – ha determinato l’emersione di giovani delinquenti che normalmente avrebbero fatto rapine e scippi, per accreditarsi nel mondo criminale e per crescere nella gerarchia della malavita. Invece, improvvisamente, si sono trovati a gestire affari di camorra più grandi di loro e della loro esperienza.”

“E non li reggono.”

“No: diversamente da come si comporta la camorra – o comunque la criminalità organizzata – questi giovani inesperti e senza ‘competenze criminali’ fanno molto ‘chiasso’ e attirano l’attenzione di tutte le forze di polizia — cosa che i camorristi tendono a non fare, perché è più intelligente mantenere un profilo basso. Con questo, però, non sto minimizzando il problema: è un fenomeno estremamente pericoloso, perché essendo fuori di testa – come dice il signor Questore, ‘decerebrati’, privi di qualunque capacità di commisurazione del danno al guadagno – possono creare problemi seri e fare guai grossi.”

Solo tra il primo luglio 2014 e il 30 giugno 2015, e solo i carabinieri del comando provinciale di Napoli, hanno sequestrato ben 1265 fra armi da fuoco e ‘bianche’, 23mila munizioni e migliaia di chilogrammi di esplosivo. Un arsenale da guerra, cui vanno sommati i sequestri delle altre forze di polizia. Tutte in dotazione alla sola “Paranza dei bambini” di Forcella.

“Ma chi sono questi ragazzi?”

“Sono ragazzi in gran parte già arrestati emersi dallo svuotamento dei clan di Forcella e della Sanità, e che ritengono – ingenuamente – sia sufficiente sfuggire alla volante a bordo dei loro SH300 o dei loro TMAX per garantirsi l’impunità. O sparare a raffica e a caso per dimostrare la propria forza.”

È il caso delle famigerate “stese”: salire a bordo di scooter, imbracciare un kalashnikov o una mitraglia UZI, scendere in piazza come uno squadrone della morte e sparare per marcare il territorio e fare ammuina. Proprio uno di quei proiettili, a fine estate, ha raggiunto il corpo Gennaro Cesarano.

***

“Questa cosa è un’emergenza nella straordinarietà, non nella ordinarietà — perché di ordinario qui non c’è veramente nulla,” mi spiega il padre di Gennaro, Antonio, che incontro davanti l’istituto alberghiero che suo figlio frequentava, un complesso composto da una scuola, un campetto di calcio e un piccolissimo maneggio ricavato sulla sommità di una collina squarciata di giallo. All’istituto e al campetto ci si arriva salendo dalla Sanità verso le Fontanelle, percorrendo una strada in mattoni piena di curve e gente alle finestre. Una volta arrivati, Salvatore mi fa notare che il cartello stradale col limite dei 30 orari è stato perforato da una dozzina di proiettili.

“Questo è l’unico campetto di calcio nell’arco di chilometri. Praticamente, l’unico campetto comunale della Sanità.”

“Cioè, per andare a giocare a calcio un ragazzino deve fare i chilometri?”

“Sì,” mi spiega Antonio, che ha fatto l’ambulante per anni, e adesso si spende praticamente a tempo pieno per “avere giustizia e aiutare questo territorio.”

“Ma com’è possibile che ci sia solo questo campetto? Cioè, perché?”

“Perché lo Stato non investe sulle minime risorse che gli dovrebbe competere, come creare una piscina comunale, i campi, spazi e impegni per questi ragazzi,” mi risponde. Quello dell’assenza dello Stato è un classico delle testimonianze di chi vive in posti ad alta concentrazione mafiosa, che a una visione laterale rischia spesso di suonare come una specie di inno nazionale all’autocommiserazione — e non è detto, peraltro, che spesso non sia così. Il fatto però che lo Stato, in quei chilometri quadrati, sia attualmente rappresentato da un soldato 24enne che fissa per terra con un fucile in mano, mentre a sessanta metri si spara senza che lui possa farci nulla, per uno Stato sovrano non deve certamente essere il migliore dei biglietti da visita.

Antonio Cesarano, padre di Genny, nei pressi del campo di calcetto che suo figlio frequentava. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Ogni volta che vedo il piccolo contingente che piantona piazzetta San Vincenzo, mi viene da pensare a cosa potrebbe succedere se un giorno uno di loro dovessero cadere – accidentalmente o meno – per mano di una stesa: avremmo un soldato italiano caduto su suolo italiano, perforato da un proiettile italiano davanti a una basilica. Sarebbe la metafora di così tante cose che non riesco a metterne a fuoco neppure una in particolare, e quasi certamente un punto di non ritorno.

Antonio viene interrotto spesso dalla suoneria del suo telefono, o da persone che vengono a parlargli per chiedergli come sta. Quando i ragazzi lo vedono, lo baciano affettuosamente, lo portano in giro a braccetto. “Questi erano i compagni di Genny,” mi dice. Rifletto sull’ambiguità della parola ‘compagni’, che a Napoli – oltre a connotare chi frequenta la tua stessa classe, o condivide determinati ideali politici – è la parola con la quale si definiscono le proprie amicizie, i compagni di vita. Anche Antonio ha i suoi compagni, per esempio. Ma lì l’ambiguità del termine è ancora più forte, essendosi speso per anni tra circoli e sindacati, in quel mare dell’associazionismo di base tipico della realtà napoletana, rappresentato icasticamente dall’esistenza di movimenti come i “Disoccupati Organizzati”.

Una ragazza in jeans, felpa bianca e ciondolo con il nome in brillanti corre a salutare Antonio. Piange e non riesce a parlare. Una professoressa si avvicina e parla per lei. “I ragazzi la vivono male, sta situazione. Stanno schifati. È vero?” In sei o sette, attorno a lei, annuiscono dimessi. “Poi ci sta questa brutta abitudine di rimanere fuori fino a tardi: io dico no, voi dovete tornare a casa…”

“In che senso?”

“È una cosa che a loro dico sempre: voi non vi dovete fermare per strada. Salite in casa, andate a farvi una passeggiata in un altro quartiere, ma voi qui non vi dovete fermare, perché si può perdere la vita, perché questo clima di euforia e vendette è molto pericoloso.”

“Ma non è normale, dire una cosa del genere…”

“Eh lo so. Ma qui sparano alle sette e mezza: stiamo tutti in pericolo, non è solo il minorenne… Pure per noi che stiamo parlando qua, in questo momento… Non sappiamo… Non è giusto… Poi c’è qualcuno che dice ‘Lo stato è assente, allora è colpa sua se prendo una strada sbagliata’: io rispondo sempre che ognuno è artefice della propria vita. D’altro canto, qua ci stanno un sacco di giovani, ma bisogna gestire la loro gioventù perché loro attualmente vedono solo il male, la violenza.”

Le chiedo se può darmi il suo nome, per dare un volto a questa testimonianza. La professoressa cambia espressione di colpo: la posa sofferta si tramuta in isterica fermezza. “Meglio di no,” dice ridendo nervosamente, come quando sei un fascio di nervi e rispondi sorridendo a qualsiasi domanda ti viene fatta senza capirne davvero il senso. “Sto in un quartiere a rischio: lasciamo stare, qualcuno può interpretarlo in un altro modo. Io sto coi ragazzi e devo stare tranquilla, devo continuare a stare qua.” Finora aveva parlato soltanto dell’importanza dell’istruzione e di quanto i ragazzi cambino una volta entrati a scuola. “Arrivano in prima in un modo, ed escono in quinta che sono persone diverse.”

Militari in piazzetta San Vincenzo a supporto delle Forze dell’Ordine. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Ci sediamo a fumare una sigaretta su una panchina. Antonio tiene in mano il telefono, nascosto dietro un paio di occhiali da sole che gli fasciano il viso rotondo. “Loro vivono e non ci pensano: i ragazzi non ci pensano, non si sognano niente. Quante volte ho detto a mio figlio ‘Non andare a Forcella, fai venire la tua ragazzina qui da noi’, ‘Non andare in giro col cellulare in mano’. Niente: vogliono farsi la loro vita. Giustamente.”

Genny stesso, per dovere di cronaca, ha avuto dei piccoli trascorsi con la giustizia, che aveva in qualche modo cancellato tramite il dispositivo della “messa alla prova.” Antonio ha sempre replicato energicamente contro i giornalisti che per suo figlio parlavano di “passato criminale,” più in generale di “precedenti,” specie nel momento in cui è stato avventatamente incluso – come è successo – all’interno di un circuito camorristico che gli era a quanto pare estraneo.

“Come si fa a dire ‘Un ragazzo con precedenti?’ Lo stesso errore lo hanno fatto a dicembre: un altro ragazzo innocente, che aveva recidive per abusivismo. ‘Coinvolto con la camorra eccetera’: ma che coinvolto… Come Le Iene: a Giulio Golia gli ho detto ‘Fatti il servizio tuo, poi parli con me. Punto’. Lui invece è sceso e ha fatto mettere il cappuccio in testa a due zizzusi: ma per me quelli là non sono né baby-boss né niente…”

“Sono ragazzini con un cappuccio…”

“Figurati che una volta quelli di Ballarò insistevano a chiedere ‘Ma com’è qui? Qua ci sta la camorra? Non ci sta la camorra?’ Io gli ho risposto ‘E secondo te? Te la vai a trovare tu, se ci sta o no la camorra’.”

Per un brevissimo periodo, Genny è passato dalle stanze della “Comunità Jonathan” di Scisciano, prima l’avvocato – mi spiega la direttrice Silvia Ricciardi – chiedesse la permanenza in casa con l’obbligo di andare a scuola sul territorio.

***

Scisciano è a circa trenta minuti da Napoli. Arrivarci non è difficile, e ti permette di guardare Napoli da fuori e prendere un po’ d’acqua se ci vai in Vespa sotto la pioggia — come facciamo. È presso la comunità, che dal 1992 si occupa di minori sottoposti a misura cautelare o costretti da provvedimenti civili-amministrativi, che incontriamo ragazzi come Leo, Enzo e Simone. Hanno tra i sedici e i diciotto anni, ne dimostrano anche meno e stanno guardando “How I Met Your Mother” prima di pranzo. Uno di loro è stato fermato per estorsione e usura, e andava in giro col padre a minacciare la gente e riscuotere i soldi.

“Prestavo soldi e poi a fine mese… Per esempio, ti prestavo 100 euro, poi a fine mese ti cercavo 150. Oppure entravo nei negozi, e dicevo ‘Se vuoi stare tranquillo devi darmi 1000 euro al mese, perché sennò ti faccio saltare il negozio’.”

“E funzionava…”

“Sì…”

“Ti sei mai chiesto perché lo facevi, ora che qui hai tempo per farlo?”

“Mah, io lo facevo perché già i miei familiari facevano queste cose, sono cresciuto in un ambiente così. È come se lo avessi nel DNA pure io.”

Nell’area c’è la puzza di cavolo da pasto spartano. Enzo mi porta un caffè senza troppa voglia, e si ferma a parlare con noi come speravo: ha l’aria di essere il ‘maschio dominante’ fra i cinque o sei che abitano la comunità, dov’è costretto a stare da un anno, con l’accusa di rapina.

“Personalmente, se da me vuoi sapere la verità, io ero attratto dalla cosa. M’è piaciuto. Cioè, mi piaceva fare le rapine, lo facevo per quello. Se ti dicessi il contrario ti direi una bugia: hai soldi, la libertà di fare quello che vuoi, vai in giro coi soldi in tasca, l’adrenalina che ti carica. E poi c’è il fatto che comunque, se prendi mille euro, dici ‘Vabbe adesso ho mille euro e me li posso spendere tutto il giorno, tanto poi rubo un’altra volta.”

“Quindi poi non ti fermi…”

“No, quando lo fai la prima volta non ti fermi più. Se ti va bene, pensi ‘Sai che ti dico, io lo faccio un’altra volta,’ e poi vai avanti fino a quando non ti prendono. È difficile che ti fermi… Poi avevo pure altri vizi, fumavo erba, ogni tanto ho fatto uso di cocaina, giocavo alle macchinette — quindi diciamo che i soldi se ne andavano facilmente. Ma adesso ho capito”.

“Quelli che non hanno capito stanno sottoterra…” interrompe Leo.

“Qualcuno, forse… Sì. Qualcuno che è passato da qua se n’è andato.”

Leo ha la carnagione scura, gli occhi bianchissimi. “Sono entrato dentro una villa: ho sfondato la porta e ho rubato tutto quello che ho trovato. M’hanno preso perché abbiamo portato un anello in un compro-oro, uno dei nostri ha firmato il modulo, quindi ci hanno rintracciati e ci hanno trovati tutti.”

“E tutto questo per…”

“Perché volevo fumare. Però potevo pure fare a meno di farlo. Fumavo un po’ di tutto…”

“Fantasmini, MD, qualsiasi cosa chiedi a lui,” irrompe Enzo. Da lontano, la direttrice del centro dà disposizioni sulle attività del giorno: la prossima è apparecchiare la tavola.

Un ospite della comunità Jonathan, condannato per rapina. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Silvia Ricciardi ne ha visti passare di ogni tipo, in più di dieci anni. Siede dietro una scrivania nella stanza tappezzata da articoli di giornale che citano la sua creatura. Da quando sono arrivato a Napoli, una delle mie ossessioni principali è cercare di capire se e come i ragazzi che finiscono in questi giri sono cambiati, di recente — più della struttura criminale in evoluzione, in fase di svecchiamento. Se si eccettua chi i ragazzi li condanna al carcere e chi li sorveglia, chi lavora in centri come quello di Silvia è testimone oculare e storico di questo processo.

“I ragazzi che vengono qui commettono rapine, tentato omicidio, omicidio, violenza sessuale, spaccio — anche se rapina e spaccio sono i casi numericamente più presenti. Sono ragazzi dei territori più degradati, o del centro di Napoli – Sanità, Quartieri, Forcella, Secondigliano – o delle periferie – Ponticelli, Barra. Ma sì, effettivamente qualcosa è cambiato,” ammette. “Non parlo di questi ragazzi che abbiamo adesso, in particolare, ma ultimamente sono sempre più dei contenitori vuoti, riempiti dalla violenza fine a se stesa, di sopraffazione sull’altro. Lo vedi nelle strade, con cose come la violenza gratuita sui passanti.”

“Perché questo? Ti sei data una risposta?”

“Eh, le risposte possono essere di ogni ordine e grado. Possono essere politiche, sociologiche, psicologiche, ma la verità è che questi ragazzi riflettono il vuoto che li circonda: se metti insieme una concentrazione di persone e le abbandoni a loro stesse, quello è il risultato. Da noi tutti questi ragazzi sono quelli dell’infanzia negata. Certo, magari puoi dire che la scuola non funziona, ma il bambino prima di andare a scuola cresce comunque in una famiglia.”

La comunità, in quelle ore, è in fibrillazione. Malgrado la direttrice ci tenga a precisare che la principale attività del centro è starvi dentro – “perché non è un centro vacanze” -, l’indomani lei e i ragazzi dovranno prendere parte alla Regata dei Tre Golfi, per la quale lavorano da questo inverno insieme a skipper di rilievo nazionale. “Chi ha familiarità con questo ambiente sa che è una grande conquista, sa che non è facile, anche a livello economico, con i ritardi di pagamenti — basti pensare che il comune non ci paga da un anno, e il ministero – il mi-ni-ste-ro, scandisce – non ci paga da dicembre. E stiamo a maggio.”

***

“La vedi questa app? Questa è XLO: è un’applicazione fatta in casa da un mio ispettore, che ci aiuta a prevedere i crimini in città. Ce l’abbiamo solo noi.” Mentre sposta il dito sullo schermo, Spina mi mostra la mappa di Napoli ricoprirsi di nuvole rosse, gialle e verdi che pulsano. Le chiama “Zone di caccia. È come nei documentari di Quark: i leoni dove vanno? Dove stanno gli gnu: quando vanno ad abbeverarsi allo stagno, i leoni si avventano. Ecco: questo strumento ci consente di prevedere in linea orientativa alcuni reati in alcune zone, addirittura descrivendo i soggetti coinvolti.”

“E come fa a prevederlo?”

“Allora: in questo software previsionale vengono inserite le denunce con i cosiddetti dati caldi: la georeferenziazione, la descrizione della vittima, e quella completa dell’autore — quindi com’è vestito, se è grasso, se è magro, se ha la barba, che casco ha. Quando il sistema riconosce alcuni elementi di similitudine per la zona e per la descrizione dei soggetti, individua una serialità, e quindi ci dà l’alert dicendoci che c’è – per esempio – il rischio che due soggetti a bordo di uno scooter ‘X’ con dei caschi neri possano commettere una rapina in una determinata zona in quella data ora. E funziona.”

“E avete intenzione di condividerla con le altre questure d’Italia?”

“Ci piacerebbe: abbiamo chiesto al ministero di valutare l’implementazione, ma non ci hanno più fatto sapere.”

L’idea di Spina, per arginare questi e altri fenomeni criminali in generale, è anticiparli, “e non muoverci soltanto quando ormai c’è o muort ‘nderr.” Il controllo del territorio è piuttosto capillare, ai limiti dell’invadenza. Di notte, in alcune strade, ci sono posti di blocco che possono impiegare anche cinque o sei volanti diverse.

“Non sono come i ‘posti di controllo,’ che fermano le auto a campione: coi ‘posti di blocco’ fermiamo tutti, tutti quanti. Fortunatamente, riusciamo a velocizzare il processo grazie a questo software.” L’agente di turno sulla strada che collega Miano e Scampia mi mostra un tablet collegato a una telecamera, che riconosce le targhe con una foto e invia immediatamente dei dati sul veicolo e il suo autista. Se vuoi spostarti in città, e ti muovi seguendo certe direttrici, in pratica devi mettere in conto una decina di minuti di coda dietro a un posto di blocco. Comincio a pensare tra me e me che non possa essere una cosa normale, mentre fermano un ragazzo con precedenti per rapina e ne analizzano l’auto – con targa rumena e segnalata come smarrita – centimetro per centimetro.

L’arresto di Ciro Contini, nipote del boss Edoardo Contini. (Salvatore Esposito/Contrasto)

“Cerchiamo di non restare follower, dietro al criminale, ma leader: tutto ciò è seguito dalla centrale operativa e da una cinquantina di pattuglie contemporanee per turno,” continua Spina. Tra queste, c’è anche l’unità degli “Invisibili.” L’ha creata lo stesso dirigente di polizia, nell’ottica di anticipare gli eventuali reati, o quanto meno contingentarli in termini di tempo e spazio: si muovono in auto normali, senza sirene o effigi, e vanno in giro in borghese — alcuni di loro neanche sembrano agenti, sia fisicamente che nell’abbigliamento. Uno di questi, se non capisco male, viene chiamato “Serpico” — dal film di Sidney Lumet, nel quale un poliziotto apprezzato dalla cittadinanza e interpretato da Al Pacino si batte contro la corruzione interna alle forze dell’ordine.

Hanno ampissima autonomia sulle operazioni: il giorno prima – raccontano – hanno fermato un ragazzo – un altro – che si muoveva per la città con una specie di mazza chiodata, un bastone ricoperto di filo spinato. “L’abbiamo preso in pochi minuti: giusto il tempo di accorgerci di quello che succedeva davanti i nostri occhi e corrergli dietro.”

***

Dopo qualche ora a Napoli comincio a pensare che quello dei vigili urbani in città sia un tema piuttosto sentito. È un’idea che mi faccio subito, perché me ne parlano in molti, se ne vedono pochi, e campeggiano sui manifesti elettorali dei candidati sindaco. Persino padre Zanotelli ritiene possano dare un grosso contributo alla comunità: mi dice di essere andato a chiederli al Comandante dei vigili, che dopo una lunghissima conversazione gli avrebbe risposto “Alex, guarda: io te li mando i vigili per sorvegliare la piazza della Sanità, poi però devi andare a prendere due carabinieri per sorvegliare i vigili’.” Quando chiedo ingenuamente perché, mi fanno presente che fare il controllore e l’autista di bus delle tratte che passano dalla piazza non è il mestiere più facile del mondo.

Così, ogni giorno, ad ogni ora del giorno, sei gruppi da tre militari sorvegliano sei diverse piazze della città. “A Napoli gli omicidi aumentano. Dobbiamo zittire le pistole,” aveva spiegato il ministro degli Interni Angelino Alfano a inizio febbraio. “Ora a Napoli ci vuole l’esercito.” Pochi giorni dopo, centinaia di soldati cominceranno a picchettare le piazze nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”, una scelta che secondo leader del NCD sarebbe da considerare una “pronta risposta dello Stato” contro “episodi di violenza e di recrudescenza della criminalità.”

Due dei tre che se ne stanno rigidi sul mattonato della piazza hanno attorno ai 24 anni: coi capelli violentemente ingellati sotto il berretto d’ordinanza, reggono i loro fucili col dito vicino al grilletto e tradiscono un forte imbarazzo ogni volta che gli scattiamo una foto, sebbene dovrebbero essere ormai piuttosto avvezzi all’esposizione mediatica. “Abbiamo a che fare coi giornalisti sin dal primo giorno in cui siamo qui, da metà febbraio. Ormai siamo abituati.” Tutti in giro sanno che “non possono fare nulla,” li ritengono “pura coreografia,” e che sono sostanzialmente inutili. “Non è vero,” ribattono, mentre controllano i nostri documenti per poter ottenere il permesso di fotografarli. “Possiamo fare molto: possiamo trattenere e identificare dei sospetti in attesa delle forze dell’ordine, proprio l’altro giorno abbiamo fermato un ragazzo.”

La polizia controlla un’auto nel quartiere Miano, coinvolto in una guerra di camorra con la Sanità per il dominio del territorio. (Salvatore Esposito/Contrasto)

Quando si parla del suo incontro con Renzi, Antonio Cesarano diventa visibilmente molto orgoglioso. “Non dobbiamo militarizzare il quartiere, però: 500 professori sarebbero meglio di 500 soldati.” Antonio ritiene che l’apertura delle scuole al pomeriggio e nei mesi estivi possa essere un buon inizio — oltre che un sacrificio che pensa essere frutto della morte di suo figlio, un prezzo amarissimo. “Il Popolo in Cammino, che è l’associazione che abbiamo fondato dopo la morte di Genny, è formato da comunità parrocchiali, Libera, la CGIL, il movimento di disoccupati, la Rete Sanità, familiari del quartiere, da mamme. Tutti insieme stiamo cercando di creare gruppi di lavoro e tavoli interistituzionali: uno dei nostri punti era proprio quello delle scuole aperte, oltre a lavoro e sicurezza, con l’introduzione di 650 telecamere.”

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Da questa estate, infatti, alcune scuole di Napoli resteranno aperte per trattenere ragazzi e bambini. “Per noi è stata una piccola vittoria: a giugno, luglio e agosto le scuole saranno aperte e fatte da operatori scelti che faranno formazione, danza, sport, attività per togliere i ragazzi dalla strada, dargli qualcosa da fare.” “Bisogna essere fiduciosi, ottimisti,” mi spiega Silvia Ricciardi. “Nel piccolo, il progetto scuole aperte non è detto che funzioni per tutti, ma si spera riesca ad attirare per qualcuno. Però va detto: quelli non ci vanno d’inverno, a scuola, secondo te ci vanno d’estate?”

Mentre finisco di scrivere questo articolo in cerca di un finale, una notifica lampeggia in alto a destra sullo schermo del computer. Da Napoli, i gestori del canale Telegram “Napoli Notizie Flash” – i cronisti Ciro Pellegrino e Giancarlo Palombi – hanno appena pubblicato un video nel quale si vedono le luci blu abbaglianti di un’auto dei carabinieri inondare la camera, e due agenti scortare un ragazzo fuori da una caserma. È l’una di notte. Segue flash: “Giovani, poco più che ventenni. E armati di pistole con silenziatore. I carabinieri hanno arrestato tre ragazzi a Melito, sventando un agguato. Sono tutti di Scampia e ciò che preoccupa è che sarebbero affiliati a clan che riportano alla mente la faida del 2004.” In quelle ore il ministro degli Interni Alfano si trovava a Roma, dove aveva da poco inaugurato, alla presenza del presidente Mattarella, la mostra fotografica “L’Italia vista dagli elicotteri”, organizzata dalla Polizia di Stato.


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