‘Della partita non ce ne frega’ – Nascita della cultura ultrà in Italia

Questo articolo fa parte della nostra rubrica sugli anni Settanta in collaborazione con Spazio70, una pagina Facebook di approfondimento sociale, culturale e politico su quel periodo della storia italiana.

Vincenzo Paparelli nasce a Roma il primo maggio 1946. Dopo la licenza elementare e diversi anni di apprendistato come meccanico si sposa con Vanda, commessa, e apre un’officina con il fratello Angelo, prima in via Boccea e poi in via Cornelia, sempre a Roma. È un appassionato di auto: la sua preferita è un’Alfa 1750 a cui ha sostituito il motore con uno ancora più potente. Il 28 ottobre 1979 la prende per andare allo stadio a vedere il derby Roma-Lazio, nel corso del quale viene colpito nell’occhio da un razzo nautico di segnalazione sparato dalla curva romanista, morendo sul colpo. Il medico che lo soccorre dirà di non aver mai visto una lesione così, nemmeno in guerra.

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Tra i quotidiani italiani, la foto del tifoso laziale riverso a terra con l’orbita vuota viene pubblicata solo dal Tempo. Il responsabile viene individuato quasi subito: si tratta di Giovanni Fiorillo, 18 anni, disoccupato, che fugge per poi costituirsi 14 mesi dopo. Viene condannato a sei anni e dieci mesi di carcere; durante la latitanza prova diverse volte a mettersi in contatto con la famiglia Paparelli per chiedere scusa, riuscendo anche a ottenerne il perdono.

Il caso di Vincenzo Paparelli non rappresenta alcuno spartiacque: la violenza negli stadi italiani non inizia né finisce lì. Ma quel momento è il punto in cui davvero si radicalizza l’odio dei laziali verso i romanisti: per anni, all’Olimpico, si leggeranno scritte come “Paparelli sarai vendicato” o “Paparelli non dimenticheremo.” I media dell’epoca speculano sulla vicenda, costruendo artificiosamente un dibattito sul tifo violento che porta alla criminalizzazione degli aspetti più folcloristici del tifo romano e alla proibizione di tamburi e striscioni—nell’illusione, così facendo, di far tornare il tifo degli anni Settanta alla tranquillità di uno o due decenni prima.

Perché è già all’inizio degli anni Cinquanta che in Italia cominciano a delinearsi nuovi modi di vivere lo stadio, con i primi gruppi di tifosi come i “Circoli biancocelesti” della Lazio, i “Fedelissimi granata” del Torino, i “Moschettieri” e gli “Aficionados” interisti, la cui costituzione era stata caldeggiata dall’allenatore Helenio Herrera per esaltare la folla e guidare l’incitamento verso la squadra. Tuttavia il tifo organizzato vero e proprio nasce solo alla fine degli anni Sessanta: a Firenze viene fondato il “Viola club settebello” nella curva Fiesole, mentre a Milano nel 1968 nasce la celebre “Fossa dei leoni.”

E proprio con il ’68 nel tifo cominciano a entrare elementi che fino a quel momento erano estranei al mondo del calcio. Grazie ai prezzi popolari lo stadio si riempie di giovanissimi, spesso appartenenti ai ceti più poveri, e così cambia non solo il modo di tifare ma anche quello di vestire: le giacche, le cravatte, e gli abiti composti dei decenni precedenti lasciano spazio a uno stile quasi paramilitare fatto di mimetiche e anfibi. All’adozione di atteggiamenti machisti si accompagna l’utilizzo di simboli politici estremi, a destra come a sinistra: l’ascia bipenne, la stella a cinque punte, la “A” cerchiata anarchica.

Allo stesso tempo, il tifo inizia a contaminarsi con la politica extraparlamentare. Quel fermento è narrato bene dallo scrittore Nanni Balestrini nella parabola di Zigolo, un personaggio del suo romanzo I furiosi, che racconta le vicende di un gruppo di tifosi del Milan appartenenti alle “Brigate rossonere.” Nato in una famiglia comunista, come molti giovani di quel periodo Zigolo entra presto in conflitto con la linea ufficiale del partito e si avvicina all’Autonomia Operaia—il principale gruppo di sinistra extraparlamentare dell’epoca. “In via De Amicis, a Milano, eravamo vicini a quelli che sparavano, quelli della foto famosa,” dice Zigolo a un certo punto riferendosi allo scatto diventato simbolo degli anni di piombo. “Cercavamo sempre lo scontro più duro e visto da adesso si può dire che per noi lo stadio era un po’ una palestra di quella guerriglia che poi avremmo portato dentro la città nel ’77.”

Anche i calciatori assecondano questa contaminazione continua tra calcio e politica: nel Perugia—dove i tifosi organizzati si daranno presto il nome di “Armata rossa”—giocano Paolo Sollier, militante di Avanguardia operaia che prima di ogni partita saluta il pubblico col pugno alzato, e Giancarlo Raffaeli, iscritto al PCI e che come Sollier non fa mistero delle sue idee politiche. Sul fronte opposto, i laziali Luciano Re Cecconi e Gigi Martini sono noti simpatizzanti del MSI di Almirante. Nella Lazio di metà anni Settanta non sono pochi i giocatori che scendono in campo indossando catenine con la croce celtica, mentre qualche anno più tardi il capitano romanista Agostino di Bartolomei si dirà democristiano, anzi andreottiano.

I “Fedayn” della Roma negli anni Settanta. Foto via Wikimedia Commons.

In questo clima il derby Roma-Lazio diventa la partita “politica” per eccellenza. Ai militanti che vogliono entrare nella tifoseria organizzata giallorossa, i capi ultrà fanno un discorso molto chiaro: “qui si tifa la Roma e basta.” Nonostante questo, la tifoseria giallorossa è molto politicizzata: i “Fedayn” mutuano il nome dai guerriglieri palestinesi e sono noti per fare il gesto della P38—tutti comportamenti che fanno della Roma la società più multata d’Italia e spingono il suo presidente Gaetano Anzalone a costituire, a metà anni Settanta, un vero e proprio servizio d’ordine di circa 300 persone col compito di mediare tra gli ultras della squadra e la polizia. E nel 1977 nasce il “Commando ultrà curva sud”—un’organizzazione di coordinamento interno volta a controllare il tifo romanista.

All’interno del tifo laziale si distinguono invece due gruppi: da una parte gli “Eagles”, nei quali convergono soggetti dalle più varie estrazioni sociali—dagli sbandati, agli avvocati, ai dipendenti pubblici—e dall’altra i “Viking”, più radicali e politicizzati, con il simbolo del drakkar vichingo e l’ascia bipenne. In questo ambiente si muovono personaggi caratteristici di quegli anni: “Er Tassinaro,” ragazzo della Magliana e capo ultrà laziale, “un istintivo, un esempio per i più giovani,” come me l’hanno descritto alcuni vecchi ultras; uno che faceva il tassista ma “si arrangiava anche con altro,” come quella volta che “lasciò il carro funebre in mezzo alla strada per andare a vedere la Lazio.” Oppure “Er Maciste”, uno che “era stato capace di rigirare da solo una 500 durante una carica con i bergamaschi,” come mi ha raccontato Francesco Cerasi, un tifoso laziale attivo all’epoca. Ancora oggi sulla via Olimpica, all’altezza di villa Pamphili, si possono vedere sciarpe laziali e mazzi di fiori messi lì a ricordare il suo fatale incidente stradale.

Ma non c’è solo Roma. A Milano il tifo milanista è monopolizzato dalla “Fossa dei leoni”—il primo gruppo ultrà italiano, nato nel 1968—e dalle “Brigate rossonere”; quello interista dal gruppo “11 Assi. Boys-Le furie nerazzurre” (che riprende il personaggio di “Boy”, protagonista di un fumetto che compariva sulla rivista ufficiale dell’Inter in quel periodo), mentre la curva nord propriamente detta nasce solo sul finire degli anni Settanta.

A Torino il tifo organizzato della Juventus inizia a formarsi poco più tardi: i “Panthers” vengono fondati nel 1975, i “Fighters” nel 1977. A questi due gruppi il regista Daniele Segre dedica due documentari: Il potere deve essere bianconero e Ragazzi da stadio, dai quali emerge bene l’aspetto di sostanziale disinteresse degli ultras per ciò che accade in campo. “A me interessa solo l’ambiente da stadio,” spiega il fondatore dei “Fighters” Beppe Rossi, “perché quando sono in balconata vedrò qualche azione, ma per il resto della partita sono sempre girato indietro a far gridare la gente. Insomma, il gol lo vedi e non lo vedi.” L’importante è esserci, partecipare in un contesto in cui a essere determinante è l’aspetto di sfida e competizione del tifo. Un concetto espresso bene dal coro “A noi della partita non ce ne frega un cazzo” cantato in molti stadi d’Italia.


E sempre negli anni Settanta e Ottanta sugli spalti arriva in maniera massiccia anche la droga, che entra addirittura nei cori da stadio. Come spiega il giornalista della Gazzetta dello Sport Pierluigi Spagnolo nel suo libro I ribelli degli stadi. Una storia del movimento ultras in Italia, le canzoni sul tema “si pongono a metà strada tra la constatazione di un’amara realtà e il semplice desiderio di apparire ancora più trasgressivi.”

“Cominciamo il lunedì con l’LSD / prendiamo anfetamine fino al mercoledì / rompiamo e ci sballiamo come piace a noi / ma ci sconvolge di più la Lazio in serie B,” cantano i laziali. “Anche il papa fumerà / se il Commando conoscerà / e sconvolto si farà / eroina con gli ultrà,” rispondono i romanisti del Commando ultrà curva sud sulle note di “Yellow submarine” dei Beatles. Anche nelle squadre minori le droghe diventano parte integrante della cultura ultras: “Né gnugna né bagna, Marulla in canna,” scrivono sui loro striscioni i tifosi del Cosenza. La gnuna è l’eroina, la bagna è la coca, Marulla invece è il bomber del Cosenza in quel periodo.

Sempre Daniele Segre, intervistato da Repubblica, ricorda così il periodo passato a documentare il tifo organizzato di Juventus e Torino: “Ho avuto modo di vedere cose strane all’interno dello stadio, come pistole che giravano e persone che poi rivedevo nei cortei politici. I gruppi organizzati facevano il servizio d’ordine delle stesse squadre di calcio. Li ho seguiti, negli anni, e molti di loro sono diventati manodopera criminale, mentre altri sono morti per droga e qualcuno è stato incriminato per traffico internazionale di armi. C’erano già grossi intrecci, tra la malavita organizzata e le frange estreme del tifo. E lì dentro non c’era solo il sottoproletariato urbano, ma anche i rampolli della buona borghesia torinese.”

Nel 2007, epoca dell’intervista di Segre a Repubblica, la realtà del calcio italiano non è già più paragonabile a quella degli anni Settanta. Solo due anni prima, dopo 37 di attività, si scioglie la “Fossa dei leoni” milanista, uno dei gruppi storici della tifoseria organizzata italiana, ufficialmente per il furto di uno striscione da parte dei “Viking” juventini (che, nelle regole non scritte del mondo ultras, è un episodio infamante). Tra i gruppi ancora attivi, alcuni hanno assunto orientamenti politici opposti—come la curva romanista, che il 25 aprile 1999, durante Roma-Parma, espone uno striscione con scritto: “25 aprile 1943, quando i vigliacchi si proclamano eroi,” e nel gennaio 2006 un altro col noto slogan nazista “Gott mit uns.”

Nel 2015, secondo l’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive del Ministero dell’Interno, risultavano attivi 382 club di tifosi, di cui 151 caratterizzati da un “orientamento politico”—di questi, 85 di destra o estrema destra, 54 di sinistra più o meno estrema e 12 di “ideologia mista”—mentre il numero degli ultras veniva stimato in circa 39mila persone, di cui 17mila appartenenti a gruppi politicizzati.

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