Gira voce che Frank Ocean e il regista Tyrone Lebon fossero entrambi fatti di acido quando girarono il video di “Nikes” nel 2016. E non mi stupirebbe. Ci sono quelle riprese di Ocean seduto per terra, circondato dalle sue auto, con un bicchiere di carta nella mano destra, gli occhi chiusi mentre lo schermo si divide in due e lui dice che “ha due versioni”. Il modo in cui guarda in camera mentre si cala il passamontagna sul viso, pronto a fare qualche passo incerto in avanti, in fiamme. La posizione delle braccia attorno al torso quando la sua voce finalmente ritorna normale verso la fine della canzone ed è ricoperto di lustrini sul palco e ci dice che “vive come se la scorsa notte fosse una vita fa”. Il modo in cui cambia l’inquadratura quando canta “Acido su di me come la pioggia / L’erba si sbriciola e diventa glitter”, poi taglia i versi fino ai loro elementi essenziali: “Pioggia / Glitter”.
In Blonde, Ocean si trovava leggermente spostato dalla realtà con gli occhi aperti e le pupille dilatate, e nessun altro nella musica pop lo aveva raggiunto fin lì prima di Kacey Musgraves, con l’uscita di Golden Hour la settimana scorsa. Blonde e Golden Hour sono due album discretamente allucinatori, distaccati dalla mondanità da ondate su ondate di serotonina. I due cantautori vengono da due posti totalmente diversi – dal punto di vista musicale, spirituale, geografico, culturale, in pratica da ogni punto di vista – ma la vita li ha fatti atterrare in posti molto simili. Entrambi al traguardo del terzo progetto full-length, confrontandosi con l’avvicinarsi dei trent’anni, cercando di trovare la bellezza dietro il male, hanno cercato di vedere il mondo per quello che non è, immediatamente.
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Non c’era bisogno di leggere le missive via Twitter della Musgraves sulle droghe per capire che ultimamente ha esplorato nuove combinazioni chimiche. Molti dei testi di Golden Hour sembrano appuntati sul cellulare nel mezzo di un trip. “Scoppio di empatia / Riesco a sentire ogni cosa”, canta nella fulminea “Mother”, parlando allo stesso tempo a sua madre e a suo marito. “Spero che le mie lacrime non ti facciano prendere male / Mi stanno uscendo da sole / È la musica in me / E tutti questi colori”. Nella settimana da quando il disco è uscito, alcune piccole cose hanno cominciato a farsi più esplicite. “Slow Burn”, che apre il disco, è laconica e stupefatta allo stesso tempo, in pace con il mondo ma disperatamente vogliosa di consumarlo tutto in una volta, un tranquillo ruscello di chitarre acustiche che scorre alle spalle della Musgraves mentre insiste “guarda quanti fiori”. C’è un interludio di due battute verso la fine della canzone in cui gli accordi cambiano per un momento e la Musgraves sembra anelare qualcosa, posseduta: “Qualunque cosa mi faccia stare bene”.
Questo edonismo rilassato è ciò che guida la nuova visione del mondo della Musgraves. Si trovava a mille chilometri di distanza da tutto ciò sul suo primo disco, Same Trailer, Different Park. Qui parlava di cuori spezzati, della ripetitività della vita nella cittadina di Golden, Texas, e anche quando arrivava la gioia era sempre vista da lontano, come dal fondo di un pozzo di noia. Il disco l’ha trasformata in una star e l’ha portata via da Golden, ma il suo seguito, Pageant Material, la vedeva intrappolata nella propria mente, incapace di lasciarsi andare. In due tracce si parlava quasi apertamente di depressione e di come l’aveva tenuta nascosta, e di claustrofobia. Sembrava bloccata in un mondo che si faceva sempre più grande ma anche più ostile.
La tendenza alla depressione di Ocean avevano affossato la maggior parte dei suoi primi due progetti, Nostalgia, Ultra e Channel Orange. Rileggiamo la sua eloquente lettera in cui racconta di essersi innamorato di un altro uomo (in cui esigeva urlante una spiegazione da Dio) e riascoltiamo “Bad Religion” (in cui soccombeva all’angoscia e imparava da un tassista che pregare “male non fa”). È tutto lì, torbido e contorto tra piccole esplosioni di gloria. Ocean stava cercando di capire quale posto occupasse nel mondo, e inseriva quell’agonia a forza nelle proprie canzoni.
Questo è in parte ciò che ha reso Blonde così immediatamente coinvolgente. Ocean ovviamente non aveva trovato alcun tipo di felicità permanente a 28 anni, ma la stava cercando attivamente, e a volte nuove forme e colori ce lo facevano avvicinare. C’erano momenti, come ce ne sono in Golden Hour, in cui l’LSD prendeva quasi completamente il volante. “Solo”, in cui va “fuori di testa con l’acido”, porta avanti immagini di “Inferno in terra”, una città che brucia, ma è il “paradiso” lo stesso se ne respiri il fumo. I sogni – la mente al di fuori di sé – sono dappertutto, dall’istante in cui sente “ti amo” in “Ivy”, al sogno bagnato di “Self-Control” e ai sogni di pensieri e pensieri di sogni che si scontrano in “Seigfried”. Lui ha spiegato questa componente extraterrena in uno scritto uscito un paio d’ore dopo Blonde. Era strano e meraviglioso, in parte una storia che raccontava la sua prima esperienza con i funghetti, quando vide il quadrante di una macchina respirare, l’esperienza delle “palme imperiali e viti che vivono la vita sostenute soltanto dalla [dura] spalla”, la psichedelia del tutto. Ma, come con la pioggia-glitter di “Nikes”, riduceva tutto all’essenziale: “Il sentimento familiare amplificato”.
È qui che si incontrano Musgraves e Ocean – quando amplificano il familiare, insistendo che la nuova realtà che vedono quando sono fatti è la vera realtà, per quanto travolgente. “Seigfried” scivola di nuovo nella psichedelia: “Mangia un po’ di funghi, magari fatti un buon pianto per te stesso / Vedi un po’ di colori, la luce che plana dalla Luna”. La Musgraves ora è innamorata e il suo cuore non è più spezzato, ma vede la stessa cosa dappertutto – un “bacio pieno di colore”, la “ora dorata” quando il cielo comincia a cambiare colore.
Membri (e superstar) di una generazione di persone impaludate da una disperazione leggera e da un’ansia pixellata, Musgraves e Ocean usano le droghe psichedeliche come via di fuga, qualcosa che li può cambiare in meglio, che elimini qualche velo. E in qualunque epoca avvicinarsi all’età adulta, trovare il proprio posto e capire che cosa si sta facendo, è doloroso. Loro stanno cercando una strada nuova. “Queste canzoni sono permeate da un sentimento di speranza per questo tempo e spazio su questo bellissimo pianeta, nonostante sembri in tumulto”, ha scritto la Musgraves due giorni prima dell’uscita di Golden Hour. “No è ordinario. Sì è una gemma”, Ocean scrisse ad i-D.
I loro raptus acidi li portano a diverse conclusioni. Ma ascoltandole in loop una dopo l’altra, “Futura Free” e “Rainbow”, le tracce di chiusura di Blonde e Golden Hour rispettivamente, sembrano condurre uno strano dialogo l’una con l’altra. Sono entrambe ballate di pianoforte da quattro accordi, anche se quella di Ocean è un flusso di coscienza nervoso e storto, mentre quella della Musgraves è sorprendente, luminosa e concisa. Ocean, come Musgraves, parla con sua madre: “Ascolta queste canzoni, è terapia mamma / Mi pagano mamma / Dovrei essere io a pagare loro”. Ma perde di proposito la concentrazione mano a mano che la canzone procede. Si incazza un po’. Il tutto sembra srotolarsi come un down.
La Musgraves invece sta ancora osservando i colori: “Giallo rosso e arancione e verde, e almeno un milione di altri”. È un’immagine più pulita, più confortante, ma non più o meno vera della svolta caotica di Ocean. Non tutti i nuovi colori sono belli, ma Kacey Musgraves e Frank Ocean, nei loro capolavori, si rendono entrambi conto che vale la pena di continuare a cercare per scoprirlo.
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Noisey USA.