Il 27 ottobre 2019 qualche migliaio di fascisti si è recato a Predappio a omaggiare Mussolini e la ricorrenza della marcia su Roma, con tanto di slogan come “non siamo gli imbalsamatori del passato ma gli anticipatori del futuro.” Siccome la sfilata è sempre uguale e ormai non suscita particolare indignazione, nonostante le proteste di Anpi e antifascisti, riproponiamo questo articolo dell’anno scorso che ricostruisce come siamo arrivati a questo punto.
Come ogni anno, anche questo 28 ottobre—il 96esimo anniversario della marcia su Roma—i fascisti hanno sfilato a Predappio per rendere omaggio al duce. Le scene sono le solite: saluti romani a profusione, camicie nere agghindate di tutto punto, slogan del Ventennio ripetuti fino allo sfinimento, “presenti” di fronte alla cripta di Mussolini, e negozi di paccottiglia fascista presi d’assalto fin dal mattino.
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A questo giro l’attenzione mediatica si è concentrata in particolare sulla maglietta di una militante di Forza Nuova—Serena Ticchi, candidata sindaca a Budrio con una lista di estrema destra—che “ironizzava” su Auschwitz. E quell’orribile t-shirt, in un certo senso, ha chiuso il cerchio delle polemiche degli ultimi giorni. L’Anpi aveva infatti chiesto al prefetto di bloccare il corteo, ricevendo una risposta negativa; di qui la decisione di indire una contro-manifestazione.
Sempre nei giorni scorsi, il sindaco del Partito Democratico Giorgio Frassineti—pur dicendo che “tutti hanno il diritto di manifestare”—aveva esternato la sua insofferenza: “Noi predappiesi non ne possiamo più. Il nostro paese esiste anche oltre il 28 ottobre. […] Abbiamo subito l’isolamento, il pregiudizio, la banalizzazione. Noi non siamo la Chernobyl della storia, non siamo contaminati.”
Ok, diamo pure per buona questa argomentazione: forse Predappio non è “la Chernobyl della storia.” Allo stesso tempo, non si può negare che i pellegrinaggi nella cittadina romagnola rilascino una tossicità che ammorba il clima da sessant’anni a questa parte. E se nell’immaginario collettivo il paese è sinonimo di Mussolini—che qui nacque—va ricordato che non è sempre stato così.
La storia di come siamo arrivati a questo punto non è così tanto conosciuta, ed è un vero peccato. Quella tomba—e la venerazione di cui gode—porta infatti alla luce il tormentato rapporto tra la salma del duce e le istituzioni democratiche; un rapporto che, con ogni evidenza, ancor oggi crea problemi.
Il miglior resoconto della vita post-mortale di Mussolini l’ha scritto nel 1998 lo storico Sergio Luzzatto, con il saggio Il corpo del duce. Ed è proprio su questo libro che mi baserò d’ora in avanti.
Punto di partenza non possono che essere la fucilazione del dittatore davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, e la successiva esposizione del cadavere a piazzale Loreto il 29 aprile del 1945. Con quell’atto, ricostruisce Luzzatto, i partigiani scongiurano preventivamente “l’elaborazione di una versione italiana del mito” della sopravvivenza del duce—destino che invece è toccato ad Adolf Hitler subito dopo la sparizione del suo cadavere, organizzata dai servizi sovietici.
Le salme di Mussolini, Claretta Petacci e dei gerarchi appesi per i piedi sono sepolte in forma anonima nel campo 16 del cimitero milanese di Musocco. E che il “Salmone”—questo il nomignolo popolare dato al corpo—si trovi lì è un segreto di Pulcinella: lo sa un bel po’ di gente, tra cui i gruppi neofascisti in clandestinità.
Uno di questi si chiama, in maniera del tutto ossimorica, “Partito fascista democratico.” In esso milita Domenico Leccisi, un giovane reduce della Repubblica Sociale Italiana che redige il foglio Lotta fascista e si è messo in testa di trafugare la salma del duce.
L’operazione avviene nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1946. Leccisi e altri due complici esumano il cadavere—in “avanzatissimo stato di decomposizione,” al punto tale che nel trasporto perde “due ossicini che sembrano falangi”—e lo nascondono. Il fatto desta immediatamente un’enorme impressione, ed è uno degli atti fondativi del neofascismo italiano: “l’impresa” di Musocco, scrive Luzzatto, “vale da garanzia d’identità e dà assicurazione per l’avvenire. Scoperchiando quella bara, il corpo del duce poteva produrre nuova storia.”
Le forze dell’ordine arrivano in fretta a identificare i responsabili ma non riescono a mettere le mani sulla salma, che si trova nei locali del convento di Sant’Angelo a Milano, affidato ad alcuni frati compiacenti. Interrogato dalla polizia, padre Alberto Parini condiziona la rivelazione del luogo all’assunzione di un preciso impegno: una volta recuperato il corpo, lo stato italiano avrebbe dovuto garantire una “sepoltura cristiana.”
Cosa che effettivamente avviene, ma in circostanze nuovamente avvolte dalla segretezza. Per ordine della presidenza del consiglio e con l’accordo del cardinale Schuster, il “Salmone” viene custodito in una cappella del convento dei padri cappuccini di Cerro Maggiore, vicino a Milano. A differenza del campo 16 di Musocco, l’ubicazione esatta della tomba la conoscono soltanto “una ristrettissima cerchia di uomini politici, di autorità religiose e di funzionari statali.”
La ragione è evitare che il “sepolcro del duce divenisse, nel bene o nel male, luogo della memoria.” Si ottiene l’esatto contrario: “l’assenza fisica del cadavere,” scrive Luzzatto, ne garantisce “l’ubiquità fantasmagorica,” stimolando l’immaginazione degli italiani e suscitando un’attenzione morbosa e febbricitante.
Tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta l’opinione pubblica si inventa falsi testamenti, autopsie senza cadavere su presunte malattie, processi immaginari e addirittura sedute spiritiche. Nel frattempo, le voci sul luogo della sepoltura si fanno sempre più sfrenate.
Quotidiani e rotocalchi dell’epoca ci si buttano con foga, con esiti talvolta tragicomici. A un certo punto, ad esempio, trapela un’indiscrezione per cui la salma si trova sotto l’altare maggiore del santuario di Monte Paolo (a qualche chilometro da Predappio). Due fotoreporter milanesi si recano lì per fare lo scoop della vita, e pensano bene di forare un gradino per vedere se dentro ci sia una cassa. Il risultato: una condanna a sette mesi di reclusione per danneggiamento alla cosa sacra.
Ma è soprattutto la fantasia dei neofascisti ad essere pungolata da questa “assenza.” Nell’autunno del 1950 è lanciata una campagna per il “Sepolto d’Italia,” che consiste nell’allestire un altare per Mussolini in ogni città e paese d’Italia. Poco prima, un flusso incessante di visitatori si reca nel riquadro 37 del cimitero romano del Verano, di fronte alla lapide di un tale Bruno Misefari—scambiata da una diceria per quella reale di Mussolini (sotto falso nome). In seguito si viene a sapere che Misefari era un ingegnere calabrese, ripetutamente incarcerato dal regime in quanto antifascista.
In tutto ciò, sempre nello stesso periodo, si inizia a parlare di Predappio come possibile luogo della definitiva sepoltura—con tanto di socialisti e comunisti locali che protestano perché “ce lo vogliono regalare anche morto.”Come nota Luzzatto, durante il Ventennio la cittadina era stata resa un autentico luogo di culto; ma dopo la Liberazione, “il locale privilegio di avere dato i natali a Benito Mussolini si è trasformato in un fardello gravoso.”
Sta di fatto che, per un decennio abbondante, i governanti democristiani non sanno davvero che farsene del “Salmone.” Da un lato non si sentono abbastanza forti per compiere un “gesto irreversibile,” cioè la dispersione delle ceneri; dall’altro non riescono a rendere il cadavere alla famiglia Mussolini senza “precauzioni” o “trattative,” che non fanno altro che alimentare le pruderie del pubblico e le rivendicazioni dei neofascisti.
La svolta, comunque, arriva nel 1957. Nella primavera di quell’anno, il democristiano Adone Zoli riceve dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi l’incarico di formare un governo monocolore per traghettare l’Italia alle elezioni del 1958. Il compito si rivela parecchio arduo, e la missione arriva a coinvolgere il corpo del duce.
Il presidente del consiglio incaricato si rivolge infatti al Movimento Sociale Italiano, che subordina la sua fiducia alla traslazione della salma a Predappio. La richiesta ha una valenza doppiamente simbolica: lo stesso Zoli ha origini predappiesi, e la sua tomba di famiglia nel cimitero di San Cassiano è attaccata alla cripta della famiglia Mussolini.
L’esito di questa trattativa, se possibile, è ancora più paradossale—il voto finale e decisivo è proprio quello di Domenico Leccisi, che nel frattempo è diventato parlamentare (prima nell’Msi, poi indipendente). Insomma: non solo i voti dei neofascisti, per la prima volta nella storia della Repubblica, sono determinanti nella formazione di un governo; ma la situazione specifica la risolve il “trafugatore del Salmone.”
Il corpo arriva a San Cassiano il 30 agosto del 1957. L’8 settembre di quello stesso anno sono in 3500 ad affollare il piccolo cimitero; il 22, il numero sale a 7mila. In quest’ultima occasione, le forze dell’ordine intimano ai “pellegrini” di togliersi la camicia nera. In risposta, e anche per evitare denunce per apologia di fascismo, i camerati fanno avanti e indietro dalla cripta in canottiera.
Non mancano le proteste. Il 29 settembre reduci della Resistenza—insieme a militanti socialisti e comunisti—si dispongono sui viali e prendono a sassate i pullman. Di contro, sostiene Luzzatto, la stampa antifascista rinuncia a “soffiare sul fuoco della polemica” e preferisce “svalutare le conseguenze della fiera funeraria.” Il ragionamento è questo: alla lunga, gli unici beneficiari “sarebbero risultati i venditori di piadine del forlivese e i commercianti di reliquie di Predappio.”
Da allora, il “pellegrinaggio nero” a Predappio ha un andamento piuttosto discontinuo—con picchi di forte affluenza (come il 1983, anno del centenario della nascita di Mussolini) e altri di forte flessione (nel 2013 il Corriere della Sera titolava: “In visita alla tomba del Duce non c’era nessuno. E l’oste dice: ‘La crisi più forte della nostalgia’.”)
Il flusso però non si arresta mai, e corre in parallelo al fiorire del merchandising fascista—a cui, involontariamente, contribuisce l’amministrazione comunale. Nel 1997 il Comune emette un’ordinanza che permette l’apertura dei negozi, con l’intento di regolare il fenomeno. Succede il contrario: l’economia legata agli accendini con il mascellone e alle tazze con Hitler esplode in maniera incontrollata. Non a caso, nel 2012 Frassineti ha riconosciuto l’errore dicendo che “abbiamo fatto una cazzata.”
Eppure, quello che succede nella cittadina romagnola non ha a che fare solo con il “folklore” delle ciabatte con il fascio littorio; né tanto meno è una questione di “nostalgismo” da liquidare con una scrollata di spalle—come, purtroppo, è stato fatto troppe volte dal 1957 a oggi.
Come ha scritto Wu Ming 1 in un lungo reportage, “i fascisti in visita a Predappio non sono fascisti solo il giorno in cui si mettono in ghingheri: lo sono tutti i giorni. E se non tutti quelli che vanno a Predappio sono neofascisti attivi, tutti i neofascisti attivi prima o poi vanno a Predappio.”
Nel 2004, tanto per fare un esempio, a Predappio il presidente di CasaPound Gianluca Iannone picchiò un carabiniere in borghese che era intervenuto “per sedare una discussione che vedeva coinvolti la guardia d’onore organizzata dai giovani di destra ed un visitatore perché vestito in modo non adeguato.” E ieri, nello stesso clima mefitico di “goliardia” e fanatismo politico, la sopracitata militante di Forza Nuova si è sentita legittimata a fare dello “humour nero” sulla Shoah.
Per tornare al paragone con Chernobyl: non abbiamo mai smaltito quell’enorme massa radioattiva che impesta non solo il paese, ma l’Italia intera. Del resto, nell’iscrizione della tomba di Mussolini è citata una sua frase—“sarei grandemente ingenuo se chiedessi di essere lasciato tranquillo dopo morto”—che sarebbe il caso di invertire: è Lui a non averci mai lasciato tranquilli, nemmeno da morto.
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