In vista del quarantennale dell’approvazione della legge 194, la galassia ultracattolica in Italia è entrata in piena fibrillazione. Circa un mese fa, la onlus ProVita ci aveva deliziato affiggendo un enorme manifesto antiabortista (in seguito rimosso) a Roma. La settimana scorsa, poi, la sezione italiana dell’associazione CitizenGo ne aveva realizzati altri con lo slogan “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo.”
A fronte delle varie proteste, il comune di Roma ha deciso di rimuoverli dagli spazi pubblicitari per il suo contenuto “lesivo del rispetto delle libertà individuale” e dei “diritti civili.” La decisione è stata prontamente descritta da Filippo Savarese—direttore campagne di CitizenGo nonché portavoce di Generazione Famiglia e membro del comitato Difendiamo i nostri figli (quello che ha organizzato gli ultimi due Family Day)—come “un attacco senza precedenti alla libertà di espressione di chi difende la vita dal concepimento alla morte naturale.”
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In più, Savarese ha colto la palla al balzo per invitare “i cittadini indignati per questo scandalo ad essere presenti alla Marcia per la Vita sabato 19 maggio a Roma.” La manifestazione importa in Italia l’esperienza della March for Life americana e va in scena dal 2011, quando due associazioni cattoliche (Famiglia Domani e Movimento Europeo per la Difesa della Vita) organizzarono il primo appuntamento a Desenzano del Garda, spalleggiate—tra gli altri—da movimenti integralisti come Militia Christi e Fondazione Lepanto.
Sebbene la prima edizione sia stata un flop clamoroso, nel corso del tempo la Marcia è cresciuta per numeri, adesioni e rilevanza—segnalando al contempo due tendenze profonde: la prima è la perdita d’influenza della storica sigla antiabortista italiana, il Movimento per la Vita (che quest’anno ha invitato i propri circoli a non partecipare per “evitare qualunque confusione tra la nostra realtà e queste organizzazioni estremiste e malamente tradizionaliste”); la seconda, appunto il rinvigorimento e la progressiva radicalizzazione di un certo mondo cattolico e pro-life.
Ma soprattutto, la Marcia per la Vita è la perfetta occasione per comporre un ritratto, misurare i rapporti di forza e capire le strategie di lungo periodo della corrente anti-abortista italiana.
Il concentramento è previsto per le 14.30 a Piazza della Repubblica, nel pieno centro di Roma. Quando arrivo ci sono svariate centinaia di persone, e un prete—attorniato da suore e altre persone—intona il coro “chi non balla non è di Maria.” I cartelloni di ProVita e CitizenGo, gli stessi rimossi dalle strade della Capitale, la fanno da padrone: i volontari li distribuiscono in giro, e molti ce l’hanno già in mano.
Mi viene consegnato anche l’ultimo numero della rivista Notizie ProVita. In copertina campeggia la foto di un feto che si ciuccia un dito e il titolo “UNA STRAGE CHE DURA 40 ANNI.” Nella seconda pagina c’è l’editoriale del presidente di ProVita Toni Brandi, che al Corriere ha ammesso uno “storico rapporto di amicizia” con il segretario di FN Roberto Fiore, in cui si legge: “Quella legge [la 194] ha consentito la moderna strage degli innocenti ancora in atto e ha distrutto la vita e la salute della stragrande maggioranza di donne che […] sono state ingannate dalla propaganda abortista.”
Questo tono apocalittico è presente in parecchi slogan stampati su manifesti e cartelloni: “Ogni aborto è un bambino ucciso”; “40 anni di legge 194: 6 milioni di vittime”; “ABORTO: già 1 miliardo di VITTIME”; “BASTA GENOCIDI SILENZIOSI”; e “Aborto = violenza sulle donne.” Non mancano né le classiche foto choc di feti abortiti e smembrati, né le critiche accorate a Virginia Raggi (“NAZI-FASCISTI A 5 STELLE / CENSURANO I MANIFESTI CONTRO L’ABORTO”).
Come preannunciato alla vigilia da Virginia Coda Nunziante—portavoce della Marcia per la Vita e presidente di Famiglia Domani, nonché figlia del marchese Luigi Coda Nunziante, che nel 1987 ha fondato l’associazione cattolica ed è stato a lungo tesoriere del Movimento Sociale Italiano—gli altri temi cardine sono l’eutanasia (chiamata “eugenetica”) e il fine vita. Non a caso alcuni cartelloni recitano “Né aborto né eutanasia” o “SÌ alla medicina / NO all’eutanasia,” e la Marcia è dedicata a Alfie Evans.
Il corteo si muove passate le tre di pomeriggio e imbocca via Cavour. La prima fila è quella più “istituzionale”: ci sono esponenti politici come il leghista Vito Comencini (consigliere comunale di Verona e deputato) e Giorgia Meloni, l’arcivescovo emerito di Ferrara Luigi Negri e il cardinale Raymond Burke—un alto prelato americano che incarna la linea più tradizionalista del Vaticano, è ferocemente critico di Papa Francesco, ha un occhio di riguardo verso Donald Trump e (secondo i giornali) ha pure incontrato Matteo Salvini.
A occhio, tuttavia, la partecipazione non è di quelle memorabili—non si superano le tremila persona, a stare larghi. Camminando su e giù, comunque, si riconoscono diverse sigle. Anzitutto ci sono le delegazioni di ProVita e CitizenGo, nutrite e ben visibili. Poi, dietro lo striscione con la scritta “Non sono un fatto politico, non sono un’invenzione della Chiesa / Sono un bambino, guardami!!” ci sono i membri del comitato Verità e Vita, presente sin dalla prima marcia e fondato da Mario Palmaro (morto nel 2014), che era convinto che l’omosessualità fosse una patologia da curare e che è stato uno dei primi diffusori in Italia dell’isteria anti-“ideologia gender.”
Più indietro c’è lo striscione del Popolo della Vita – Il Trifoglio, il movimento politico e ultracattolico di Alfredo Iorio, che presiede anche il movimento Patria ed è il responsabile della storica sezione del Movimento Sociale in via Ottaviano. Alle comunali del 2016, Iorio è stato il candidato sindaco di un cartello elettorale neofascista composto anche da Forza Nuova.
Verso la metà, prima delle bandiere con il cuore e la croce di Militia Christi, un gruppo di giovani lancia i seguenti cori: “Vita, famiglia, tradizione / La nostra vera rivoluzione” e “Droga, aborto, eutanasia / Questa è l’Europa della massoneria.” Sul grande striscione che recita “Dà valore alla vita” compaiono i simboli di Sud Protagonista e Magnitudo Italia.
Quest’ultimo è un nuovo movimento fondato nel marzo 2018 che, stando alla pagina Facebook, si occupa di “sociale”: ripulisce, cioè, situazioni di “degrado” a Roma e fa raccolte alimentari per i terremotati del centro Italia. Nella pratica, è composto principalmente da membri del Fronte della Gioventù di via Ottaviano, organizzazione giovanile di estrema destra che aveva conquistato le cronache a seguito del coinvolgimento di sette militanti nel pestaggio (con accoltellamento) di piazza Cavour dell’ottobre 2016. Oltre a sfilare per strada alla Marcia per la Vita, alcuni attivisti di Magnitudo Italia/FdG fanno pure da servizio d’ordine.
Quando si arriva all’imbocco con i Fori Imperiali, noto un cartellone con la scritta “NON UNO DI MENO” (un chiaro scimmiottamento del movimento femminista Non Una di Meno) e un piccolo feto di plastica incollato nella O di “Uno.” Lo regge una ragazza, a cui chiedo subito il significato. “Vorrei che non ci fosse un bambino in meno nei prossimi anni,” mi risponde. “Dal 1978 quando è entrata in vigore la 194, mancano 6 milioni di bambini in Italia, e quindi mi mancano tutti questi fratelli italiani.”
Lo spezzone a cui appartiene, invece, è quello degli Universitari per la Vita. Si tratta di un gruppo nato nel 2016 ma attivo dall’anno scorso, e che è formato da circa quaranta studenti sparsi in dodici università. La fondatrice è Chiara Chiessi, che ha deciso di formarlo dopo aver partecipato alla Marcia per la Vita di Washington di due anni fa.
Finalmente si arriva al punto d’approdo della manifestazione, ossia il palco allestito in piazza della Madonna di Loreto. Mentre si susseguono gli interventi, in mezzo ai manifestanti vedo Simone Pillon—già socio fondatore di Difendiamo i nostri figli e ora senatore per la Lega. Da neo-eletto si è subito distinto per aver denunciato che “nelle scuole della mia Brescia, dopo il ‘gender’, sono arrivati a imporre la stregoneria.”
Visto che regge in mano il cartellone di CitizenGo su aborto e femmicidio, gli domando un suo parere sullo slogan. “In Cina e in India c’è un aborto selettivo sugli embrioni di sesso femminile, che ha fatto mancare all’appello milioni di esseri umani di sesso femminile, sterminati nel ventre della madre per questioni culturali,” dice. “Mi meraviglia che le associazioni femministe parlino di diritto all’aborto: il vero diritto delle donne è quello di tenere il proprio figlio.”
L’obiettivo, prosegue, è “superare questa contrapposizione ideologica con una grande della famiglia, che arrivi a fare zero aborti.” Pillon assicura anche il prossimo governo, almeno nella sua parte “verde,” avrà un occhio di riguardo verso queste istanze e movimenti. “Oggi, a questa Marcia, erano presenti tre parlamentari della Lega—io, Lorenzo Fontana e Giancarlo Giorgetti [ i “vice” di Salvini]. Mi sembra che il segnale sia molto chiaro.” E i Cinque Stelle come la pensano a riguardo? “Non lo so, glielo chiederemo,” sorride Pillon.
Ormai sono le quattro e mezza passate, e l’evento si avvia alla conclusione. L’ultimo intervento è affidato a Virginia Coda Nunziante, che parte subito con un’immagine a tinte forti: “C’è un libro della vita e c’è un libro della morte; in questo libro della morte la data del 22 maggio 1978 è scritta con caratteri di sangue, il sangue di quasi sei milioni di vittime.”
La portavoce aggiunge poi che esiste “un sistema politico, economico, giuridico e mediatico appartemente invicibile che ci vuole togliere anche la libertà di espressione.” Tuttavia, chiosa, “questo sistema ha in sé sesso i germi della sua auto-distruzione. Noi [ invece] rappresentiamo il futuro, non solo per quanto riguarda l’Italia, ma per quanto riguarda il mondo.”
Quest’ultima frase è chiaramente un’esagerazione. Eppure, non si può fare a meno di constatare che—anche rispetto solo a cinque anni fa, quando avevo coperto la terza edizione della Marcia—sono cambiate diverse cose.
Al di là dei triti slogan e dei numeri (esigui) visti in piazza sabato, la rete ultracattolica italiana—grazie alla spinta propulsiva e federativa della grande crociata contro “l’ideologia gender,” e all’appoggio di pezzi importanti del Vaticano—si è ormai strutturata come una vera e propria lobby. Il processo è però di lungo corso; già nel 2002, il vaticanista de L’Espresso Sandro Magister parlava di un “nuovo lobbying della Chiesa” che opera su “campi e obiettivi mirati” e agisce per “spontaneo convergere di interessi: non [nasce] per iniziativa della gerarchia, non [elegge] un proprio partito, ma fa pressing su tutti. Il modello è più americano che italiano.”
Allargando il campo, questo modello lobbistico si è imposto anche a livello transnazionale ed europeo. Come ha rivelato una recente inchiesta di Neil Datta, segretario del European Parliamentary Forum on Population & Development (EPF), dal 2013 a oggi si è formato un network di associazioni integraliste (chiamato “Agenda Europa”) che mira a “restaurare l’ordine naturale” attraverso campagne altamente professionalizzate e finanziate contro “il genocidio dell’aborto, l’eutanasia, le famiglie omosessuali,” e più in generale contro i diritti delle donne e delle persone LBGT+.
Secondo Datta, “Agenda Europa” ha prodotto risultati concreti e tangibili, come la proposta di restringere ulteriormente la (già restrittiva) legge sull’aborto in Polonia. La prossima grande battaglia delle organizzazioni ultraconservatotrici e ultracattoliche (inclusi i movimenti di estrema destra) è il referendum per legalizzare e depenalizzare l’aborto in Irlanda, che si terrà venerdì 25 maggio.
D’altro canto, mi pare fin troppo evidente che in più di un paese occidentale il clima politico sui diritti civili non sia proprio esaltante. Questo gennaio, Donald Trump—che pure in passato aveva avuto una posizione pro-choice—è intervenuto con un video-messaggio di supporto alla March for Life; un fatto per certi versi epocale, visto che nessun presidente (nemmeno quelli più conservatori) era mai intervenuto. Più recentemente, lo stesso Trump ha deciso di togliere i fondi federali alle cliniche che praticano l’aborto.
Per tornare in Italia, infine, basta vedere quanto spazio è dedicato ai diritti civili nel “contratto di governo”: lo zero assoluto. Insomma: sono passati quattro decenni dalla legge 194, ma lo scenario che ci si para davanti non è dei migliori. Solo i prossimi anni ci diranno se riusciremo a conservare quella conquista, che rimane salda nonostante gli attacchi e la non piena applicazione; oppure se ci sarà un balzo all’indietro fino ai favolosi anni Cinquanta.
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