Alessandro ha 29 anni e vive a Gerusalemme da un anno e tre mesi: si è trasferito poco prima della pandemia. Cresciuto a Milano, ha abitato in Olanda, ha studiato pedagogia democratica a Tel-Aviv e storia a Bologna.
Ha preso la cittadinanza israeliana solo di recente, tramite la legge del ritorno per ogni ebreo che voglia trasferirsi nel paese: “Inizialmente non mi interessava: sono nato con tre passaporti, per me il concetto di cittadinanza è superfluo. Questa volta però volevo vivere qui e mettermi in gioco anche dal punto di vista politico, e conoscendo persone che per via dell’attività politica hanno perso il visto, ho preferito tutelarmi.”
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Qualche giorno fa, insieme a un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani, ha sottoscritto l’appello Not in our names rivolto al “governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora,” prendendo posizione contro l’occupazione israeliana e gli sgomberi forzati a Sheikh Jarrah.
Come si legge nell’appello: “La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi.”
A Gerusalemme Alessandro abita proprio vicino alla porta di Damasco, uno degli ingressi alla Città vecchia e del quartiere musulmano. Abbiamo parlato con lui per sapere come vive un ebreo dissidente in Israele e cosa sta vedendo con i suoi occhi in questi giorni.
VICE: Come va, Alessandro? Come stai vivendo queste giornate? Alessandro: Sto male, sono stanco. Vedo linciaggi di ebrei contro palestinesi e—anche se meno frequenti—attacchi da parte di palestinesi a religiosi ebrei. La situazione è davvero critica: non uso le parole con leggerezza, ma mi sento di dire che è in atto una pulizia etnica, intesa nella definizione generale che ne ha dato l’ONU.
Tu abiti vicino al quartiere di Sheikh Jarrah, che è stato al centro delle cronache di questi giorni.
Sì, infatti lo frequento spesso. Ho iniziato ad andarci già qualche mese fa, durante le manifestazioni congiunte di israeliani e palestinesi che si tengono ogni venerdì da più di dieci anni, ovvero da quando sono cominciati i primi sgomberi. Sono occasioni molto belle perché non sono momenti di normalizzazione, magari forzata, come la gara di cucina o la partita di calcio tra palestinesi e israeliani: sono occasioni di lotta in cui si sta dalla stessa parte per protestare contro delle leggi a nostro avviso ingiuste.
Puoi spiegare meglio queste leggi?
Bisogna un attimo riassumere la storia del quartiere. In pratica negli anni Settanta dell’Ottocento i membri di una yeshiva, una scuola ebraica, comprarono dei terreni perché in quella zona c’era la tomba di Shimon HaTzadik [Simeone il Giusto], un saggio della tradizione ebraica. Nel 1948 furono costretti a fuggire, cosa successa anche alla maggioranza dei palestinesi del quartiere.
All’inizio degli anni Duemila i discendenti di questa scuola religiosa hanno iniziato a reclamare quelle terre, che [dopo la guerra del 1948] erano state donate ad alcune famiglie palestinesi dalla Giordania con l’appoggio dell’ONU. Nel 2009 il tribunale ha dato ragione ai discendenti ebrei e alcune famiglie palestinesi sono state sfrattate e rimpiazzate con famiglie ebraiche.
La legge israeliana prevede che tutti gli ebrei che hanno lasciato le proprie case nel 1948 possano rientrarne in possesso [anche se queste sono fuori dai confini stabiliti dall’ONU]: il problema è che lo stesso discorso non vale per i palestinesi. Per questo è una legge discriminatoria.
Oltre a queste manifestazioni, sono molte le occasioni di azioni congiunte di ebrei e palestinesi?
Negli ultimi due decenni tanti ebrei hanno finalmente deciso di mettere in discussione i propri privilegi per fare attività congiunte con i palestinesi—anche solo accompagnare il pastore con le sue pecore per evitare che venga picchiato dai coloni o dalla polizia. Questo tipo di attivismo ha dato la possibilità al palestinese di conoscere l’israeliano, che prima vedeva solo in divisa. È importante dire che esistono queste attività perché le persone fanno presto a identificare gli israeliani come i persecutori, ma non tutti la pensano così e qualcuno di noi si mette anche in gioco per dimostrarlo.
Allo stesso modo, è importante dire che a Gerusalemme esistono spazi dove palestinesi e israeliani si siedono insieme, si ubriacano insieme, vanno a ballare insieme. Sono pochi, ma ci sono. Un posto in particolare—non voglio dire il nome perché è già troppo sotto i riflettori—si è configurato come un safe space per tutt*, con una precisa politica contro sessismo, razzismo, omofobia e quant’altro.
Secondo te perché le lotte di Sheikh Jarrah hanno avuto così tanta eco mediatica?
Intanto sono state molto partecipate. Per farti un esempio: un parlamentare ebreo [Ofer Cassif] della lista araba unita, che unisce quindi sia arabi che ebrei, non si è solo presentato, ma ha preso le botte con noi e quelle foto hanno fatto il giro del mondo.
Ma in generale ci sono figure importanti come Mona e Mohammed el-Kurd: due giovani che escono dallo stereotipo con cui molti in Occidente e Israele amano dipingere i palestinesi.
Con le ultime elezioni c’è stata una decisa virata a destra. Si sente la differenza?
Si sente forte e chiara. A questo giro molti giovani delle yeshivot, cioè delle scuole religiose, hanno votato personaggi come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, i cui programmi si basano su xenofobia, omofobia, nazionalismo e fondamentalismo religioso. Erano due decenni e mezzo che non c’erano kahanisti [movimento discriminatorio di matrice sionista legato alla figura di Meir Kahane, creatore della Jewish Defense League] dichiarati in parlamento: con Ben-Gvir le cose sono cambiate.
Il fatto che tanti giovani religiosi non si accontentino più della destra tradizionale e abbiano iniziato a votare queste persone preoccupa molto.
La tua famiglia come vede il tuo attivismo?
Io sono molto fortunato. Altri hanno situazioni ben diverse, ma non è il caso di parlarne perché sono questioni personali. Nel mio caso è stata proprio la storia della mia famiglia ad aver modellato la mia visione.
Un lato della mia famiglia è stato rinchiuso ad Auschwitz e costretto a fuggire dalla Polonia, l’altro lato ha vissuto i pogrom in Egitto e la cacciata nel ‘56. Tutto questo mi ha insegnato che nessuno detiene il monopolio del dolore e che è importante ascoltare quello degli altri per ripensare insieme al futuro.
E a livello sociale, come vengono percepiti gli ebrei dissidenti in Israele?
Siamo i traditori, il nemico, i divisori del popolo di Israele. A me in particolare dicono che vengo da fuori, che non sono cresciuto qua, che non ho visto esplodere gli autobus e quindi non posso capire.
In generale rischiamo tanto: durante le manifestazioni veniamo aggrediti, soprattutto da altri civili. L’altro giorno, durante la prima manifestazione che abbiamo fatto contro i nuovi attacchi su Gaza, [dei coloni] mi hanno puntato contro un coltello sotto gli occhi della polizia che faceva finta di non vedere. Le nostre manifestazioni poi vengono sgomberate dalla polizia con cannoni ad acqua, bombe acustiche, cavalli.
Eppure non faccio nulla di illegale. La sera mi siedo al bar a ubriacarmi con i miei amici palestinesi, armeni, cattolici, ebrei e ortodossi. Per me questa è—o dovrebbe essere—la cazzo di normalità.