La crisi di governo aperta da Salvini al Papeete all’inizio di agosto (sembra già un secolo fa, vero?) si è di fatto conclusa in questi giorni, con un esito tutt’altro che scontato: l’alleanza tra il M5S e il Partito Democratico, cioè quelli che fino a poche settimane fa si chiamavano a vicenda “il partito di Bibbiano” e “quelli che credono alle scie chimiche e ai microchip del cervello.”
Ieri sulla piattaforma Rousseau (tra i soliti down e le solite falle di sicurezza) c’è stato il via libera al governo con quasi l’80 percento dei Sì, mentre oggi il presidente del consiglio incaricato Giuseppe Conte ha sciolto la riserva e presentato la lista dei ministri al Quirinale.
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In tutto sono 21 ministri (di cui sette donne), più il sottosegretario alla presidenza del Consiglio (Riccardo Fraccaro del M5S): al PD ne sono spettati nove, ai Cinque Stelle undici, e uno (il ministro della salute Roberto Speranza) a Liberi e Uguali—un partito che esiste solo in Parlamento, visto che fuori si è già scisso da tempo. Al Viminale andrà una tecnica senza account sui social: l’ex prefetta di Milano Luciana Lamorgese.
Con tutte le ipocrisie del caso, il mantra di PD e 5S in questo processo è stato quello della “discontinuità.” A prima vista, infatti, ci troviamo di fronte a un esecutivo più “istituzionale,” o comunque depurato da personaggi come Danilo Toninelli o Lorenzo Fontana.
In attesa del giuramento e del voto di fiducia, comunque, vediamo in dettaglio i nomi dei ministeri più importanti.
Il Movimento Cinque Stelle si è tenuto la presidenza del consiglio, ha riconfermato Alfonso Bonafede e Sergio Costa come ministri della giustizia e dell’ambiente, e ha spostato Luigi Di Maio (che esce a dir poco ridimensionato a livello interno da questa crisi) agli esteri.
Lorenzo Fioramonti—che tra le varie cose vorrebbe “tassare le meredine” per dare più soldi agli insegnanti—passa da viceministro a ministro dell’istruzione, in sostituzione del disastroso Marco Bussetti (in quota leghista). I Cinque Stelle conservano poi altri due ministeri pesanti: lo sviluppo economico, con il capogruppo al Senato Stefano Patuanelli; e lavoro e politiche sociali con Nunzia Catalfo, che nella scorsa legislatura è stata tra i principali autori della prima proposta di “reddito di cittadinanza.”
Al Partito Democratico spettano invece il ministero delle pari opportunità e della famiglia, dove risiederà Elena Bonetti (vicina a Renzi, con un passato da scout e da dirigente della Agesci, Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani); il ministero del sud a Enzo Provenzano (vice direttore dello Svimez, l’associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno); la difesa al renziano Lorenzo Guerini, ex vicepresidente del PD e presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica); gli affari europei a Vincenzo Amendola, responsabile nazionale agli Esteri del Pd e già sottosegretario agli esteri tra il 2016 e il 2018; e le infrastutture a Paola De Micheli, ex sottosegretaria all’economia nel governo Renzi e commissaria per la ricostruzione post-sisma nel Centro Italia.
Anche il cruciale ministero dell’economia va al PD, più precisamente a Roberto Gualtieri. Presidente della commissione economia e finanza dell’europarlamento, Gualtieri—scrive il Corriere della Sera—è “molto apprezzato a Bruxelles come in Italia per la notevole caparbietà sul lavoro e la padronanza di regole e procedure europee sia nella finanza pubblica che sulle banche.” Sui social, per ora, su di lui ha circolato più che altro una clip in cui suona “Bella Ciao” con “un accenno di bossanova.”
Questa lista non può che chiudersi con il ministro della cultura, che ancora una volta sarà Dario Franceschini—uno degli esponenti del PD che ha più caldeggiato questa strana intesa—a riprova del fatto che la politica italiana può regalare parecchie vite aggiuntive.