Il nuovo decreto sicurezza del governo sembra scritto dalla Lega Nord

Lo scorso sabato, Roma avrebbe dovuto essere messa a ferro e fuoco da un’orda di “black bloc” (o in alternativa di “malati psichici eccitati via web“). L’occasione era data dalla celebrazione e le relative proteste del sessantesimo anniversario dei trattati di Roma. 

In quel giorno, appunto, si sono tenute diverse manifestazioni. Io ne ho seguite due, compresa quella più a “rischio” organizzata dalla piattaforma “Eurostop,” e tutto si è svolto in tranquillità—al massimo è stato stappato qualche fumogeno. Allo stesso tempo, però, non mi era mai capitato di vedere la Capitale così blindata e militarizzata: in certi momenti c’erano più agenti in assetto antisommossa che manifestanti.

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Del resto, l’attuale ministro dell’Interno Marco Minniti aveva promesso la linea dura—poi confermata anche dal fermo preventivo di più di 120 manifestanti alle porte della città (misura, a dire di questi ultimi, del tutto ingiustificata). “Il mantra è questo,” aveva detto Minniti in un’intervista al Messaggero, “libertà di espressione, democrazia, ma nessuna violenza ammessa, perché quella limita la libertà dell’altro,” guadagnandosi tra le altre cose gli elogi dei “#minniters” e de Il Giornale, che lo ha definito “il ministro di ferro che ha ingabbiato i violenti.”

Al di là del caso contingente, Minniti è sicuramente una delle figure che risaltano di più all’interno del governo Gentiloni—e lo fa soprattutto per le sue posizioni su uno dei temi cruciali della politica contemporanea: quello della sicurezza.

Quando era stato nominato ministro dell’Interno, in pochi avevano prestato attenzione. Massimo D’Alema, addirittura, aveva commentato sarcasticamente che “se la risposta all’esito del referendum è quella di spostare Alfano agli Esteri per far posto a Minniti, abbiamo già perso cinque punti percentuali.”

In realtà, Minniti non è propriamente un novellino, e anzi sa muoversi perfettamente negli ambienti di palazzo: formatosi nel PCI, è stato sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo D’Alema, sottosegretario alla difesa nell’esecutivo Amato, viceministro dell’interno nel secondo governo Prodi, e negli ultimi due esecutivi ha avuto la delega ai servizi.

In una lunga intervista a L’Espresso dello scorso gennaio, Minniti aveva sottolineato la necessità di una “svolta culturale e politica sulla sicurezza e sull’immigrazione,” sia del PD che della sinistra in generale. “Da tempo ho un’idea: sfatare il tabù che le politiche di sicurezza siano par excellence di destra,” spiegava Minniti al giornalista Marco Damilano. “È vero che spesso un impulso securitario nella società e nell’opinione pubblica produce uno spostamento a destra dell’elettorato, ma sono da sempre convinto che la sicurezza sia pane per i denti della sinistra.”

La concretizzazione di questa svolta è avvenuta con due decreti legge, nati su impulso di Minniti e Andrea Orlando (il ministro della giustizia) e licenziati dal consiglio dei ministri nel febbraio del 2017. Il primo riguarda la sicurezza urbana; mentre il secondo prevede misure volte ad “accelerare” i “procedimenti in materia di protezione internazionale,” nonché altre misure “per il contrasto dell’immigrazione illegale.”

Presi insieme, i due provvedimenti—che sono stati rispettivamente approvati alla Camera e (ieri) al Senato, ma non sono ancora stati convertiti in legge—introducono parecchie novità. Senza elencarle tutte, ci concentreremo su quelle più controverse.

Nel provvedimento sulla sicurezza urbana si danno più poteri d’ordinanza ai sindaci per allontanare determinate persone in specifici luoghi o spazi pubblici, si introduce il cosiddetto “Daspo urbano” (fino a un anno per chi “deturpa zone di pregio delle città,” e fino a cinque per gli spacciatori), e si concede la possibilità di “arresto in flagranza differita” in caso di reati commessi durante manifestazioni.

Nel decreto sui migranti, invece, è contemplata la creazione dei nuovi CIE (rinominati “Centri di permanenza per il rimpatrio), l’incremento dei rimpatri forzati, l’istituzione di sezioni specializzate in 14 tribunali e l’abolizione di un grado di giudizio—quello d’appello—nel procedimento per ottenere il diritto d’asilo.

Nel presentare queste misure, il Ministero dell’Interno ha detto che la strada scelta è “l’unica percorribile, perché in grado di declinare le politiche della sicurezza in chiave moderna, democratica e inclusiva.” Tuttavia, l’impianto che viene fuori dai due decreti è stato criticato aspramente sia sotto l’aspetto giuridico che politico.

Roberto Saviano, ad esempio, lo ha definito un provvedimento dai “toni razzisti e classisti,” nonché un “regalo che viene fatto ai primi cittadini per raccogliere consenso sull’odio e la paura.” In un appello congiunto, poi, un vasto raggruppamento di associazioni per i diritti civili ha parlato di “nuove disposizioni [che] invece di risolvere i problemi della esclusione sociale ne aggravano l’intensità, suggerendo ai sindaci come unico strumento d’intervento […] quello dell’allontanamento ed il divieto di frequentazione da parte delle persone più in difficoltà.”

Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e CILD, il decreto sulla sicurezza urbana non è altro che “una riproposizione del decreto Maroni del 2008: la soluzione sbagliata a un problema che non esiste, che insiste su clochard, tossicodipendenti, rom, rovistatori, con un apparato sanzionatori forte.” In più, prosegue Gonnella, non c’era alcuna necessità di ricorrere alla decretazione d’urgenza: “L’indice di criminalità dei reati non è in aumento. [Ma] nonostante questo si fa il decreto sicurezza: come tutti i manifesti populistici è sganciato dall’evidenza empirica.”

Anche il criminologo Roberto Cornelli, uno dei massimi studiosi italiani sul tema, ha espresso parecchi dubbi sull’ideologia che traspare dal decreto Minniti. Ancora una volta, infatti, ci ritroviamo di fronte ad una strategia ispirata alla “tolleranza zero” di Rudy Giuliani e alla “teoria delle finestre rotte”—un approccio, cioè, che anticipa “l’intervento repressivo, sempre più orientato a eliminare situazioni di fastidio, degrado o inciviltà,” e dismette “altre forme di prevenzione sociale e comunitaria.” 

Insomma, chiosa Cornelli su Il Sole 24 Ore, “in Italia la figura del Sindaco-sceriffo sembra rimanere intatta e orientare pesantemente le decisioni pubbliche.” Ed effettivamente, le prime applicazioni del decreto sembrano andare proprio in questa direzione: a Gallarate il primo cittadino leghista ha firmato un’ordinanza che allontana dal territorio cittadino e sanziona “chi bivacca, chi beve in pubblico e chi imbratta.”

Anche il decreto sull’immigrazione presenta diversi profili problematici. Anzitutto si cerca di rafforzare un modello fallimentare e indecente come quello dei CIE, che in tutti questi anni ha prodotto solo disastri e violazioni. Poi, come ha detto l’avvocato Antonello Ciervo di ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), l’eliminazione di un grado di giudizio per i richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta andrà inevitabilmente a “erodere i [loro] diritti.” Preoccupazioni analoghe sono stata espresse anche dall’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) e dal primo presidente della Corte di Cassazione, secondo il quale “pretendere la semplificazione e razionalizzazione delle procedure non può significare soppressione delle garanzie.”

I senatori del PD Luigi Manconi e Walter Tocci, che ieri non hanno votato la fiducia, hanno invece parlato di un decreto che “configura per gli stranieri una giustizia minore e un ‘diritto diseguale’, se non una sorta di ‘diritto etnico’, connotata da significative deroghe alla garanzie processuali comuni.” Inoltre, denunciano i due, “nell’unico grado di merito ammesso il contraddittorio è talmente affievolito da escludere, salvo casi eccezionali, la partecipazione dell’interessato al giudizio.”

Di fronte a tutte queste critiche, Minniti ha risposto a muso abbastanza duro. “Scrivendo il decreto insieme ai sindaci non avevo in testa il clochard o l’ambulante immigrato,” ha dichiarato a Repubblica. “Avevo in testa il bene comune. Lo chiamano destra? Io dico che è l’Italia, vista dal mio punto di vista, quello della sinistra riformista. Chi dice che rinuncia alla libertà per la sicurezza è un cattivo maestro. Sicurezza è libertà.”

Ad ogni modo, i decreti sono solamente i punti d’arrivo di un’elaborazione politica che—specialmente a livello locale—il Partito Democratico ha già intrapreso da tempo. Nel dicembre 2016, giusto per fare un esempio abbastanza esemplificativo, alcune giunte in Emilia Romagna hanno lanciato le “ronde gentili” e “democratiche” per rispondere alla “rabbia dei cittadini.”

Per il sindaco di Castenaso, le ronde possono addirittura essere di sinistra “se difendono i più deboli, cioè i cittadini.” Altri le descrivono come un ottimo modo “per frenare la deriva leghista.” A me, però, sembra l’esatto contrario: più che essere un freno, le “ronde di sinistra”—così come alcune misure contenute nei decreti Minniti-Orlando—sono il segnale che quella “deriva” ha vinto sia politicamente che, soprattutto, culturalmente. Ed è anche per questo motivo che il PD, almeno quando parla e delibera sulla sicurezza, ormai assomiglia molto alla Lega Nord.

Thumbnail via Flickr. Segui Leonardo su Twitter